domenica 19 giugno 2016

LA MACCHINA UNIVERSALE DI HARRY POTTER




Il concetto di lavoro immateriale e il neoutopismo ridotto a tecnologia 


Robert Kurz 


Un aspetto del successo mondiale di "Harry Potter" è forse nel fatto di risvegliare un desiderio infantile: piuttosto che a un lento confronto con la materia eternamente ostinata, si brama la possibilità di ottenere la cena a tavola o il successo nella vita attraverso una formula magica. E in tempi di crisi sarebbe infinitamente gradito poter far scomparire nel nulla tutti i problemi con una bacchetta magica. Così si comprende perché le favole di Joanne Rowling sono state divorate dai giovani postmoderni, ormai quasi ingrigiti. I turbo-consumatori degli anni ’90, il cui denaro si è nel frattempo purtroppo svalutato, vagano alla ricerca di fantasie ideologiche con cui poter fuggire da una realtà sociale divenuta rischiosa.

Dopo la miseria passata per la speculazione di borsa, spunta ora al posto del “capitale fittizio” una sorta di “lavoro fittizio”, i cui protagonisti si immaginano al di là di ogni condizione materiale. Il concetto di “lavoro immateriale” creato da Antonio Negri e Michael Hardt è divenuto la parola chiave di questo nuovo produttivismo virtuale. L’”ontologia del lavoro" dei marxisti tradizionali viene tradotta nel discorso postmoderno in bolle di sapone. Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, l’analisi simbolica, i media etc. devono rimpiazzare il vecchio paradigma industriale. Hardt/Negri sostituiscono senza tanti complimenti la vecchia classe operaia in dissolvimento con la cosiddetta “moltitudine”, una moltitudine o massa postmoderna diffusa, la cui base si presume costituisca il “lavoro immateriale”.

Considerando la cosa superficialmente, sembra che questo costrutto sia una versione "smaterializzata" di Harry Potter dell’invecchiato concetto marxista di "lotta di classe". Queste idee passano al lato della realtà globale in ogni aspetto. In primo luogo, nessun lavoro è “immateriale”, neanche nei settori dell’informazione e della “conoscenza”; si tratta pur sempre di combustione di energia umana. Immateriale è la maggior parte dei prodotti di questo lavoro, ma proprio per questo gli stessi non possono sostenere la riproduzione sociale la cui base continua a essere il “processo di metabolismo con la natura” (Marx), e quindi materiale.

In secondo luogo, per la stessa ragione, gli individui impiegati nel commercio e che si occupano di simboli e informazione non formano affatto una “moltitudine”, ma sono semmai una piccola minoranza. Questo si deve al fatto che la microelettronica, che ha reso superfluo il lavoro industriale precedente, non determina alcun nuovo lavoro capitalista di massa. Dietro ai modelli di elaborazione dell’informazione, della comunicazione e dell’analisi simbolica non ci sono più incatenati milioni di lavoratori secondari di finimento, come prima nelle industrie fordiste, ma piuttosto processi tecnologici automatici, apparecchiature di comunicazione e media che necessitano degli esseri umani solo in quanto consumatori. Hardt/Negri aggirano il problema, riempendo la loro “moltitudine” con gruppi sociali completamente differenti quali migranti, disoccupati, domestici, prestatori precarizzati di servizi personali etc., che in gran parte non hanno nulla a che vedere con il lavoro nei settori suddetti.

In terzo luogo, infine, la retorica della lotta di classe su queste basi è vuota, poiché il carattere della “moltitudine” di Hardt/Negri non è determinato dalla relazione di dipendenza del lavoro salariato, ma casomai dalla presunta nuova indipendenza nei settori della “conoscenza”, dell’informazione e delle loro reti. In questo senso essi condannano il carattere “parassitario” dei conglomerati finanziari che, come vampiri, peccherebbero contro la forza creativa della “moltitudine”. Qui diventa chiaro che, in realtà, la vecchia lotta di classe del lavoro salariato industriale è sostituita con una visione neo-piccolo borghese. Hardt/Negri vorrebbero perpetuare in eterno la produzione di merci, divenuta obsoleta, con l’espediente di una formazione di reti indipendenti che si instaurano tra piccoli collettivi informazionali di ”autovalorizzazione”.

Non sorprende che tale concetto trovi ampio consenso tra i naufraghi della postmodernità. Il nucleo sociale di questa ideologia è formato, infatti, non da una nuova “classe operaia” salariata, ma da apparentemente indipendenti vittime dell’"outsourcing" e nuovi imprenditori della miseria negli ambiti della produzione "high tech", dei media e dell’elaborazione dell’informazione, inclusi quegli accademici e professori in una situazione degradata nelle istituzioni privatizzate dell’insegnamento, che come “subappaltatori” intellettuali devono pagarsi la propria sicurezza sociale. Questa "classe", se la si vuole chiamare così, ha digerito il suo imponente fallimento nel capitalismo da casinò in modo meramente compensatorio, come un affronto del grande capitale finanziario considerato fraudolento. E’ la matrice classica di una critica del capitalismo piccolo-borghese; infatti non esente da sfumature antisemite. C’è qualcosa di imbarazzante nel come l’essere sociale irriflesso dei piccoli e decadenti produttori di “conoscenza” e informazione riappare qui come coscienza ideologica.

Il concetto di “lavoro immateriale” si è sedimentato anche nel nuovo utopismo internazionale del "free software". L’"autovalorizzazione" dei piccoli produttori postmoderni di merci si lega qui all’idea di un “rimpiazzo del denaro”, che fu virulenta nelle utopie del XIX secolo. Ma questa critica del denaro non si riferisce, come in Marx, a tutto il modo di produzione, ma soltanto alla sfera della circolazione. Si deve realizzare un “dare e avere” senza più mediazione del denaro, mentre la logica soggiacente nella base della “ricchezza astratta” (Marx) rimane fuori dalla portata della critica.

Questo neoutopismo ha trovato il suo paradiso nel “lavoro immateriale” della produzione di informazione. Soprattutto Internet è concepito come il campo centrale per la realizzazione di questa idea. Ora, Internet, è senza alcun dubbio una creazione tecnologica che conduce ai limiti interni del capitalismo. Fare di questo mezzo di comunicazione universale la base per una nuova epoca di accumulazione del capitale si rivela impossibile. Appunto per questo è fallita la new economy. Il capitalismo non estrae alcun plusvalore reale dall’elaborazione di informazione. Per questa ragione esso prova a conferire ai prodotti informativi prezzi in forma denaro per mezzo delle licenze giuridiche. E’ la simulazione del profitto nella sfera della pura circolazione, in perfetta sintonia con i “prodotti finanziari” del capitale fittizio.

Il movimento indicato come "free software" fraintende questa contraddizione immanente allo sviluppo capitalista, facendo conto sul fatto che qui si avrebbe un “territorio libero” al di là del denaro. La critica all’arricchimento dei conglomerati mediatici per mezzo delle licenze legali per i software e altri prodotti dell’”informazione” rimane superficiale perché non arriva alle relazioni sociali di produzione. Si enfatizza un aspetto secondario della crisi in un piccolo settore e la questione dell’emancipazione è ridotta ad esso. La società deve essere trasformata non da un grande movimento contro le imposizioni dell’amministrazione della crisi, ma da un “modello” alternativo preso dalla sfera virtuale, il quale dovrebbe essere soltanto esteso. Il mondo deve ristabilire se stesso con il "free software". Ancora una volta si tratta di gonfiare un modello, senza la mediazione di tutta la società.

Ma questa utopia fallisce appunto a causa del carattere di fatto immateriale dei contenuti trasportati via Internet. Se l’aspetto materiale del “lavoro astratto” non può essere rappresentato nei flussi di informazione su Internet, ancor meno lo possono gli oggetti reali di necessità nella loro maggioranza. Non si può “fare il download” del pane, del vino, dei pantaloni, per non parlare dell’acciaio laminato o dei materiali da costruzione; e nemmeno un libro, come sa chiunque abbia tentato di leggere sullo schermo un’opera letteraria maggiore, oppure stampare un mare di carta. Già per questo non si può estrarre da Internet alcun “modello” di riproduzione sociale che si situi al di là del sistema produttore di merci. I neoutopisti vogliono nascondere questa barriera alla loro idea unilaterale dichiarando che il problema è meramente provvisorio e potrà essere risolto dallo sviluppo tecnologico futuro.

L’ingegnere britannico Adrian Bowyer (Università di Bath) vorrebbe costruire, in questo senso, una “macchina universale" che, differentemente dal computer, riproduca oggetti non più soltanto in forma virtuale, ma anche materiale. Questa "macchina rapid prototyping" (RepRap) delle dimensioni di un frigorifero deve replicare se stessa e riprodurre praticamente anche qualsiasi oggetto a partire dagli insiemi di dati modelli. Essa dovrà funzionare secondo il principio delle macchine fotocopiatrici, come quelle che sono impiegate per modellare prototipi nel design industriale. In sostanza si tratta di stampanti che potranno produrre oggetti tridimensionali a partire dall’amido di mais, plastica e leghe che fondono a basse temperature. Gli Internet-freaks sperano che questa “macchina universale” possa riprodurre di tutto dopo l’”evoluzione darwinista” della sua autoreplicazione, dalla fotocamera digitale fino ai panini. Si dipinge un futuro in cui le persone potranno comodamente “fare il download”  di ogni bene immaginabile in generale. Non si tratta di una “macchina di Marx”, come si afferma, ma piuttosto di una macchina di Harry Potter.

Questa idea grottesca rinvia al carattere semplicistico e tecnicistico di tutto il costrutto. Qui l’obiettivo non è quello di ottenere relazioni sociali differenti e un’altra relazione con la natura, al di là del sistema produttore di merci, allo scopo di prendere in considerazione la qualità propria di ognuno dei diversi ambiti della vita. Tutto al contrario, la riproduzione sociale totale deve essere soltanto sottomessa a una “logica funzionale”. Il “lavoro astratto”, con la sua portata universalista-negativa e distruttiva sul mondo, non è sostituito, ma semmai proseguito in quanto fantasma di un aggregato cibernetico interamente automatico. L’eroe è il consumatore di merci, in quanto “vero essere umano”, liberato da tutte le condizioni materiali. Se nelle allucinazioni della sinistra postmoderna degli anni ’90 il consumatore era “dissidente”, ora dissidente è il “produttore immateriale”.

In realtà Internet è un mezzo di comunicazione di fatto universale, ma meramente nella circolazione, presupponendo sotto ogni punto di vista la produzione da un altro lato. Lo stesso software necessita di essere prima sviluppato per poter essere poi introdotto nella circolazione mediatica. Se il consumo giocoso degli “utenti” rende possibile un certo sviluppo nel caso particolare dei programmi per computer, lo stesso collettivismo anonimo dei produttori consumatori è illusorio nel caso dei prodotti culturali. Poiché la cultura in senso ampio, per sua essenza, non segue lo schema della logica dello "0" e "1", non si può sviluppare come mera combinazione di moduli informatici.

L’insufficienza di questa idea si rende particolarmente evidente quando il "dare e avere" senza denaro viene applicato, in qualità di pseudoproduzione di software, ai contenuti artistici e teorici. Il che avviene meno a scapito dei conglomerati mediatici che a scapito dei produttori culturali immediati, che in condizioni capitaliste non possono vivere senza reddito monetario. A parte questo, i testi letterari e teorici esigenti sorgono solo dalla riflessione ed elaborazione individuale delle esperienze sociali. Lo scambio con gli altri e lo sviluppo non si effettuano con il “download” e la riconfigurazione meccanica.

Se il pensiero emancipatorio deve consistere nel fatto che gli individui si recepiscono solo come “punti di contatto nell’intertesto”, come afferma il filosofo tedesco Peter Sloterdijk, allora l’individualità astratta del capitalismo non è superata, ma semmai radicalizzata. “Il gesto del downloading”, scrive Sloterdijk, sarebbe "la liberazione dall’ingiunzione di fare esperienza” . Il filosofo postmoderno non si riferisce affatto a questo in maniera critica; per lui questo sviluppo deve essere “accolto senza quasi alcun limite”. Invece dell’idea di Marx di un’”associazione di individui liberi” subentra un collettivismo smaterializzato nella circolazione dello spazio virtuale. Questa non è affatto una risposta alla crisi sociale e intellettuale del movimento emancipatorio.


Originale DIE UNIVERSELLE HARRY-POTTER-MASCHINE

Pubblicato in Folha de S. Paulo del 30.10.2005 in una versione leggermente ridotta 


traduzione by lpz