giovedì 3 dicembre 2015

L’INDUSTRIA CULTURALE NEL XXI SECOLO





Sull’attualità della concezione di Adorno e Horkheimer

Dall’apparente critica della borghesia intellettuale al culto postmoderno della superficialità * Critica culturale elitaria o emancipatoria? * Riduzionismo tecnologico * La pubblicità come percezione culturale del mondo e di sé * La continuazione del “lavoro astratto” e della concorrenza con altri mezzi * Internet come nuovo mezzo centrale dell’industria culturale * La virtualizzazione della quotidianità * Interattività del Web 2.0 e individualizzazione * Il prezzo alto di una cultura gratis * Il limite interno del capitale e la crisi economica dell’industria culturale * Il cammino di esaurimento delle riserve culturali * Il mondo non è un accessorio. Perché è impossibile una “rivoluzione culturale” separata



Ci sono testi che sono già vecchi nel momento stesso in cui vedono la luce del giorno. E ci sono testi che pur con cento anni di età si presentano freschi ed emozionanti. Il libro La dialettica dell’Illuminismo di Adorno e Horkheimer, dove è incluso il famoso capitolo su L’Industria Culturale, è stato pubblicato per la prima volta nel 1944. Si può
ancora parlare, dopo tanto tempo, dell’attualità delle sue idee?

Per il pensiero postmoderno in senso lato la risposta è chiara: no. Questo punto di vista, diventato dominante negli ultimi decenni, intende accusare il concetto di industria culturale di essere portatore di un “pessimismo culturale” di tipo conservatore. Che male potrebbe mai esserci nell’industria della cultura? Non si trovano in essa potenziali di libertà e di progresso che potrebbero essere utilizzati da tutti gli esseri umani? La sinistra culturale e pop postmoderna, nella sua esperienza mediatica, per non dire nel suo snobismo mediatico, si ritiene oltre il pensiero “fuori moda” della teoria critica. Così, tuttavia, dimostra solo il proprio carattere di semplice fenomeno di moda. Nel frattempo l’impresa pop postmoderna è ormai andata un po’ avanti con gli anni e i suoi vecchi protagonisti hanno ormai cominciato ad acquisire un’aura da nonni. Improvvisamente corrono il rischio di diventare conservatori rispetto al loro mestiere culturale professionale di gioventù. E’ proprio in questa situazione che è di tutto interesse tornare a guardare con altri occhi il concetto critico di industria culturale e le accuse postmoderne che gli sono state lanciate contro.

Dall’apparente critica della borghesia intellettuale al culto postmoderno della superficialità


Per cominciare sarà necessario chiarire cosa si debba intendere per “pessimismo culturale”. Nel modo di esprimersi postmoderno, che in ogni caso preferisce procedere per associazioni, la semplice catalogazione denunciatrice sembra già parlare da sé, senza necessità di approfondimento. Qui si insinua in qualche modo un riferimento dispregiativo all’atteggiamento della “borghesia della cultura”, in senso vago, in deroga a una qualche argomentazione. In realtà la “borghesia della cultura”, cui corrisponde la rigorosa differenza tra cultura dell’intrattenimento e cultura seria, è un fenomeno specialmente tedesco. La letteratura, la musica etc. “serie” o di “alto livello culturale” non devono essere macchiate da un “intrattenimento” inteso come fondamentalmente triviale, così come l’insegnamento e la ricerca accademica non devono essere macchiate da una “scienza popolare” calibrata sulla comprensione dell’uomo comune.

Lo storcere il naso di fronte alla superficialità della moderna cultura commerciale da parte della borghesia classica della cultura, specialmente in Germania, non è che un gesto vuoto. In effetti anche tale critica rimane superficiale dal momento che la sua preoccupazione è rivolta esclusivamente ai modi esteriori dell’espressione, mentre il contenuto sociale e il nucleo politico-economico di tali produzioni rimangono nascosti e ampiamente irriflessi. Questo tipo di “pessimismo culturale” è una forma di reazione puramente intracapitalista. Tanto più astrattamente si evoca una vaga e mistificata “essenza interiore” dell’alta cultura illuministico-borghese, quanto più la crociata della borghesia della cultura contro l’industria culturale si dimostra insignificante. Dietro ciò si nasconde un penoso stato di cose. L’intrattenimento frivolo e la semplificazione popolare non sono altro che l'altro lato della medaglia del carattere ideologicamente imbevuto in alto grado delle scienze e arti borghesi ”serie”, ciò che costituisce il loro tratto caratteristico. Il fatto che queste ultime non siano in vendita solo perché già in precedenza sono state acquistate dallo Stato a scopi di rappresentazione ne rivela l’origine comune in cui il denaro si convalida nello Stato e lo Stato nel denaro. E’ davvero un’involontaria rivelazione di tale realtà che l’industrializzazione della cultura non sia per nulla gradita ai critici della cultura della borghesia colta, dal momento che il suo sviluppo espone la loro stessa esistenza. Per i resti, oggi miserabili e dal punto di vista capitalista precarizzati, dei residui sicofanti dell’alta cultura, la distanza verso la superficialità culturale è completamente estinta, per cui la loro inclinazione può essere considerata solo come una vera e propria satira.

E’ vero che non si possono sommariamente assolvere Adorno e Horkheimer da patriottismo del milieu della “borghesia della cultura”. Ciò, comunque, risiede più nella forma espressiva che nel contenuto critico. Se la “critica della critica” postmoderna insiste soprattutto nella prima, allora, di nuovo, dice più su se stessa che sull’oggetto della propria critica. In effetti per il culturalismo postmoderno sono sempre più importanti gli aspetti esteriori, gli accessori, lo “styling” e la tendenza che vi si esprime. La critica disonesta ed essa stessa superficiale da parte della borghesia della cultura alla superficialità, si trasforma nel culto postmoderno affermativo della superficialità. L’apparenza immediata deve essere emancipata dalla propria essenza. Ciò cui corrisponde il modo di pensare positivista, che sottomette i contenuti a un metodo formale vuoto e li condanna all’indifferenza.

La fiera esplicita dell’esteriorità, di cui la critica culturale conservatrice con la sua nebbiosa invocazione di un’”interiorità” costituisce un mero rovesciamento, non rappresenta
naturalmente qualcosa di nuovo. Essa ritorna ciclicamente, benché abbia sperimentato per così dire la sua apoteosi nella postmodernità, nel tardo capitalismo e nel capitalismo di crisi. Heinrich Heine, nel suo saggio critico su La Scuola Romantica (1833), prese in un certo senso di mira una tendenza e un modo di procedere simili per descrivere il processo di autodissoluzione del romanticismo: “Tra gli imitatori di Fouqué così come tra gli imitatori di Walter Scott è tristemente nata l’abitudine di ritrarre solo l’apparenza esteriore e il costume piuttosto che la natura interiore delle persone e delle cose. Questo genere superficiale e frivolo è ancora in voga sia in Germania che in Inghilterra e in Francia. Anche se le rappresentazioni non esaltano più il tempo della cavalleria, continuano a mantenere quel vecchio stile di guardare solo il superficiale e l’accidentale del fenomeno anziché la sua essenza. I nostri nuovi romantici, invece della conoscenza delle persone, esprimono soltanto la conoscenza del vestiario, basandosi forse sul motto: è l’abito che fa il monaco”.

Ormai è stato detto molte volte, e non solo da un punto di vista conservatore, che la riduzione degli oggetti alla loro fenomenologia e infine alla loro facciata, così come il formalismo sia estetico che epistemico, costituiscono segni ineludibili dell’esaurimento culturale e sociale e dei processi di dissoluzione; sia di una formazione sociale sia di un’epoca, sia di un modello culturale o di una determinata scuola. Per quanto riguarda il nostro oggetto, non si tratta solo di un modello della postmodernità al capolinea, ma è questa che ormai costituisce, come tale e nel suo insieme, il modello al capolinea della modernità capitalista sotto ogni punto di vista. Il ballo in maschera postmoderno non rappresenta altro che un party della classe media in tempo di peste, e neanche particolarmente frivolo ma piuttosto noioso. Ne è del resto un appropriata metafora quella con cui Roswitha Scholz ha ritratto il carnevale storico della postmodernità degli anni ’90, come fuga destinata al fallimento nel palazzo di cristallo del capitalismo da casinò. A oggi poco è mutato nella coscienza ideologica del carattere sociale postmoderno, malgrado i violenti focolai di crisi. Quanto più si invoca la “creatività”, più emerge ininterrottamente l’accidentale e l’apparenza esteriore. Non c’è la creazione di qualcosa di nuovo che si esprima con emozione contro la determinazione dell’essenza, ma semmai la fuga di fronte all’essenza negativa e completamente miserabile della realtà della propria esistenza.

L’ipostasi della cappa esteriore culturale e metodologica copre appunto la causa principale dell’indifferenziazione, cioè la forma sociale generale e sovrapposta come contenuto sostanziale, alla quale anche l’industria culturale è da sempre appartenuta. Quel che è “borghese” in senso proprio nella sfera culturale dominante, non è un gesto conservatore da parte della “cultura” di una qualche associazione di filologi, ma semmai il carattere di merce dei suoi prodotti, il quale integra questi nel regno del “lavoro astratto” e degrada la cultura stessa a elemento astratto nella metamorfosi del capitale, come un mobile o un piatto di design. I protagonisti qui possono ignorare se il carattere sia di intrattenimento o serio.

Ironicamente, la borghesia della cultura e le sue attuali figure decadenti non sono meno suscettibili di autoinganno del postmodernismo che surfa nei media, quanto a essenza negativa della cultura capitalista. Entrambi riflettono solo differenti stadi dello sviluppo capitalista allo stesso modo affermativi. Il pessimismo culturale è conservatore e la formazione positiva postmoderna dell’industria culturale è solo pseudo-“progressista”, nello stesso continuum capitalista non trasceso da nessuno dei lati. Perciò la differenza si trova solo nelle confezioni o nelle acconciature, mentre la determinazione categoriale identica rimane nascosta e non si riesce a percepire il ridicolo comune. Quando gli uni ridono degli altri ridono sempre solo di se stessi.



Critica culturale elitaria o emancipatoria?

Il pessimismo culturale conservatore è elitario fino al midollo e soltanto da questo punto di vista è pseudo-critico della produzione intellettuale in serie. Si presume che la cultura stia morendo con l’occidente perché non è più riservata alle classi superiori “colte” ma ha assunto il carattere della cultura di massa. La critica della frivolezza, della superficialità e della volgarità dell’industria culturale si riconduce dunque al fatto di essere prodotta per la grande maggioranza, inclusi i ceti inferiori considerati come “per natura” intellettualmente minorati. Ad essi si dovrebbe intenzionalmente concedere una sorta di divertimento semplice, così che ne traggano il loro piacere inoffensivo evitando cattivi pensieri e in modo che l’alta cultura d’élite mantenga il suo carattere esclusivo e “rimanga tra noi”.

Del resto il pessimismo culturale conservatore percepisce l’industria culturale come una minaccia in quanto incita alle rivendicazioni, supera gli steccati sociali e smaschera come un’insensatezza l’aura di zelo culturale della vecchia borghesia, adesso che quest’ultima ha ampiamente smarrito le sue basi storiche e sopravvive solo come un’ideologia. Non a caso Adorno e Horkheimer si prendono gioco degli “amici della cultura” che “idealizzano come organico il passato precapitalistico”, un passato largamente patriarcale. Dunque, se la cultura di massa industriale e commerciale è soggetta al biasimo conservatore non è certo perché “l’Illuminismo diventa mistificazione di massa” (sottotitolo del capitolo L’Industria Culturale), ma semmai perché rende riconoscibile la falsità reazionaria dell’auto-incensamento bucolico e manierista dei classici nella coscienza di tal professore che recitandoli si diletta a rinfrescare la propria stupidità sociale nella consacrata “nobile semplicità e silente grandezza” (Winckelmann) di un’irreale eredità culturale.

All'inverso, i profeti pop postmoderni gioiscono esattamente per la stessa massificazione industriale come se questa fosse preziosamente emancipante di per sé. La cultura di massa sarebbe sempre una buona cosa, indipendentemente dal contenuto e dalla forma, se sia una cultura autonoma delle masse stesse o una cultura che obbedisce a eteronomi e del tutto indipendenti imperativi destinati alla coscienza marcita delle masse. Un’affermazione più o meno dello stesso tenore di quella dell’ideologia dei movimenti di sinistra (infatti pienamente caratterizzati in termini postmoderni) per cui qualsiasi movimento di massa in sé deve essere essenzialmente “autentico”, qualunque sia il senso per cui si mobilita. L’industria culturale, indipendentemente dalla sua forma di merce e di capitale, in quanto accessibilità generale e affermazione delle masse, è considerata come momento di liberazione dentro un capitalismo di fatto ormai non più messo in discussione. Questa propensione, tuttavia, esprime solo il proprio brutale interesse personale nella commercializzazione, soprattutto in figure di secondo piano nel ruolo di scienziati della comunicazione e designer pubblicitari. Questa è la vera ragione per cui si desidera appiccicare alla teoria critica il pessimismo culturale elitario conservatore come suo presunto attributo determinante.

Ora, il concetto negativo dell’industria culturale in Adorno e Horkheimer vuole dire esattamente il contrario: non è l’accessibilità a tutti oggetto della loro critica, ma piuttosto che l’industria culturale, come affermano, “costituisce il più sensibile strumento di controllo sociale”. Si tratta quindi del contenuto strutturalmente alienato e oggettivamente autoritario della cultura di massa capitalista, non della sua portata al di là delle élite. Questo contenuto, secondo Adorno e Horkheimer, è “barbarie estetica” perché elabora la “morale sprofondata dei libri per l’infanzia di ieri” allo scopo di rendere disponibili alle tracotanze sociali individui sempre più infantilizzati.

Antitesi dell’industria culturale sarebbe una cultura per tutti che si opponesse alla coercizione della mera ripetizione e interiorizzazione del principio dominante; dunque né una cultura per pochi, che si preserva come mero orpello di questo principio, né una cultura democratica compensatoria da terapia occupazionale, che non è altro che un meccanismo di controllo ibrido. E’ proprio il carattere essenziale di forma merce dell’industria culturale che gli ideologi pop postmoderni non vogliono riconoscere, ubriacandosi invece in esso. La critica, quando ancora si affaccia, si riduce a una mera differenziazione interna che conferisce arbitrariamente uno statuto di culto pseudo-emancipatorio a determinate tendenze di massa all'interno dell’industria culturale, come se l’acquisto e il consumo di determinati prodotti potesse contrastare il controllo sociale, in un modo che è puramente immanente, mentre altri prodotti saranno rifiutati con un principio altrettanto superficiale.

Riduzionismo tecnologico

Un altro aspetto tipicamente conservatore consiste nel suo riduzionismo tecnologico, che corrisponde alla predisposizione elitaria della borghesia della cultura. La cultura sarebbe condannata alla decadenza anche perché, si suppone, la sua massificazione esigerebbe contemporaneamente una meccanizzazione tecnologica. E’ proprio contro questa interpretazione che immediatamente protestano Adorno e Horkheimer all’inizio del capitolo de L’Industria Culturale. Qui si dice: “Coloro che vi sono interessati amano spesso spiegare l’industria culturale in termini tecnologici. Il fatto che, ad essa, partecipino milioni di persone, imporrebbe l’uso di tecniche riproduttive che, a loro volta, fanno inevitabilmente si che, nei luoghi più disparati, gli stessi bisogni siano soddisfatti da beni prodotti in serie… Ma questo effetto non si deve addebitare a una presunta legge di sviluppo della mera tecnica, ma alla funzione che essa svolge nell’economia attuale”.

Per i due autori tale effetto è duplice: il controllo sociale è efficace come effetto collaterale proprio perché la cultura è stata trasformata in un oggetto immediato della produzione per il puro profitto. Oppure, espresso in termini di filosofia sociale con le parole di Adorno e Horkheimer: “Tutto ha valore solo nella misura in cui si può scambiare, e non in quanto è qualcosa in se stesso”. Nel totalitarismo dell’economia, questo vale sia per il più semplice oggetto di uso materiale sia per i beni della produzione culturale capitalizzata. Così come un cappotto socialmente non è un cappotto e il latte non è il latte, ma entrambi appaiono come oggettivizzazione del “lavoro astratto” e quindi come quantità astratta di prezzo, così anche la qualità sensibile ed estetica dei beni culturali, musicali o letterari, e di quelli teorici è degradata alla loro forma astratta e in un certo modo morta di valore, poiché è questa che conferisce al prodotto l’accesso alla “validità” e alla partecipazione nella massa di sostanza di valore, mentre il contenuto specifico in sé rimane indifferente. In ogni caso si può contestare alla formulazione di Adorno e Horkheimer che questo processo non è un mero “scambio”. Per la circolazione rappresenta solamente la sfera della “realizzazione” della “ricchezza astratta” come fine in sé (Marx), ossia il ritorno della sostanza valore, rappresentata nel corpo delle merci, alla forma denaro che gli è “propria”.

E’ soprattutto da questa oggettività feticista, con la costante mutazione della forma interna in modo che l’oggetto reale rimanga all’esterno, che deriva la standardizzazione meccanica e il livellamento dei contenuti, e non quindi da un’esigenza puramente tecnologica. La critica culturale conservatrice insiste sul processo tecnologico della produzione di massa proprio perché intende lasciare fuori dalla riflessione l’essenza negativa della forma sociale della merce. Il postmodernismo aggrava questa ignoranza, dal momento che ormai non solo rifiuta la critica della determinazione sociale della forma, ma la dichiara apertamente impossibile, epistemicamente e logicamente. L’opposizione alla retorica dei conservatori sulla decadenza consiste allora, di nuovo, in una mero rovesciamento del loro riduzionismo tecnologico. Sarebbe proprio la tecnologia come tale che svilupperebbe effetti benefici, indipendentemente dalla loro forma capitalistica (o comunque grazie a questa diventati cordialmente disponibili). La convinzione postmoderna di una liberazione culturale attraverso la tecnologia ricade dunque nello stesso malinteso. Pessimismo culturale conservatore e ottimismo culturale postmoderno costituiscono nel loro riduzionismo tecnologico le due facce della stessa medaglia. Entrambi offuscano allo stesso modo il dominio della “ricchezza astratta” capitalista sui contenuti e sulle forme espressive dei beni culturali.

Comunque la tecnologia dell’industria culturale non è immune dalla forma economica feticista del capitale né dal relativo effetto di controllo sociale. Essa non è affatto neutra nella forma della sua manifestazione concreta, similmente agli altri mezzi tecnici di produzione negli altri settori capitalistici. Ma non si deve confondere causa con effetto. Sono la forma e la struttura della tecnologia che obbediscono agli imperativi della relazione sociale e non il contrario. Gli strumenti tecnologici sono geneticamente impregnati dalla forma sociale. Lo sviluppo delle forze produttive nel capitalismo è sempre allo stesso tempo uno sviluppo di forze distruttive. Ciò vale non solo in un senso superficiale e specifico, come per esempio l’industria militare, con la bomba atomica come punto culminante della tecnica e ultima ratio del progresso democratico. Anche la linea di montaggio non rappresenta soltanto un aumento puro e neutro della produttività, ma, nella sua determinazione concreta, appartiene analogamente alla miseria del lavoro astratto cui i prodotti sono soggiogati. L’industria culturale non fa eccezione a questa identità tra produttività astratta e distruzione.

Il momento distruttivo del fine in sé economico feticista penetra, modella e costringe in vari modi i contenuti culturali, al di là del corrispondente orientamento delle tecniche di produzione. Come nel caso delle merci per i bisogni quotidiani, non importa il loro contenuto, ma piuttosto il loro adeguamento anche tecnico al contenuto della valorizzazione. Il capovolgimento capitalista tra mezzo e fine, tra concreto e astratto si presenta nella produzione di beni culturali in un modo specifico. Di fatto esso si può comprendere anche come capovolgimento tra tecnica di produzione e contenuto, o tra innovazione tecnica e contenuto: non è un (nuovo) contenuto che richiede per sé una tecnica adeguata, ma al contrario, è il contenuto che deve essere adattato a una tecnica redditizia, e la “creatività” si riduce puntualmente a questo. Né questa relazione deriva da una qualche relazione indipendente tra tecnica e contenuto, ma semmai dal fatto che entrambi sono costretti dall’imperativo del valore nel letto di Procuste. Adorno e Horkheimer scrivono a questo riguardo: “L’industria culturale si è sviluppata insieme al primato dell’effetto… del particolare tecnico, sull’opera nel suo insieme, che, un tempo, era la portatrice dell’idea ed è stata liquidata insieme con essa”.

Così la relazione tra contenuto e modo di rappresentazione è stata capovolta. Nell’industria culturale quest’ultimo sembra autonomizzarsi, come si afferma di seguito: “Che le sue innovazioni caratteristiche consistano sempre e soltanto in perfezionamenti della riproduzione di massa, non è certo un fatto estrinseco o marginale rispetto al sistema. A ragione l'interesse di innumerevoli consumatori è tutto rivolto alla tecnica, e non ai contenuti ripetuti in forma stereotipa, intimamente svuotati di ogni significato e già praticamente abbandonati”. Così come nella produzione lo scopo è l’aumento delle vendite, anche nel consumo, di conseguenza, lo scopo diventa solo la funzione tecnica del giocattolo ugualmente indifferente al contenuto. Ma se i “dettagli tecnici” non sono più espressione dell’idea del contenuto, ma, viceversa, sono questi dettagli che dominano sul contenuto “liquidando” l’idea, questa tendenza irreversibile è dovuta alla forma generale della merce, tanto riguardo al mezzo di produzione quanto ai prodotti. Questa formulazione indica giustamente che la tecnica dei meri effetti non esiste per caso, ma è espressione di quel totalitarismo economico che i nostri tempi postmoderni hanno solo aggravato in comparazione alla metà del secolo scorso.

La pubblicità come percezione culturale del mondo e di sé


L’effetto tecnologico ha il suo modello nell’onnipresente pubblicità, nell’estetica delle merci del mercato mondiale. L’idea di contenuto non possiede alcuna esistenza propria; essa è da subito al servizio di una cosa che gli è esteriore e per questo essa è anche casuale, divenuta irreale in modo formalista e soffocata nel mero effetto. E’ proprio a questa dimensione delle merci che Adorno e Horkheimer si riferiscono già nel 1944, nella fase finale della totalizzazione del design pubblicitario nel mondo del quotidiano: “La cultura è una merce paradossale. È soggetta cosi integralmente alla legge dello scambio da non essere più nemmeno scambiata (comprata e venduta); si risolve cosi ciecamente e ottusamente nell'uso che nessuno sa più che cosa farsene. Perciò si fonde e si mescola con la pubblicità… La pubblicità è l'elisir che la tiene in vita. (Il suo) prodotto… finisce per coincidere, da ultimo, con la pubblicità di cui ha bisogno per compensare la propria incapacità di procurare un godimento effettivo”.

Da segnalare qui, come già osservato, la nota riduzione che avviene in Adorno e Horkheimer al cosiddetto “scambio”, che rappresenta un’amputazione dell’economia, poiché nel sistema del “lavoro astratto” che ritorna a se stesso non si può parlare di “scambio” in senso proprio. Solo ad un’osservazione superficiale la forma denaro corrisponde a una “relazione di scambio” esterna, quando invece è una componente essenziale dell’autorelazione interna del capitale in quanto fine in sé autonomizzato della “ricchezza astratta”. E’ appunto solo su questo sfondo che l’autonomizzazione della pubblicità diventa possibile e finisce per diventare una necessità che imprime il suo timbro su tutta la produzione culturale, così come possiamo leggere nel capitolo de L’Industria Culturale: “La pubblicità diventa l'arte per eccellenza, a cui Goebbels, col suo fiuto infallibile, l'aveva già equiparata”. Ne consegue che “uno sguardo superficiale non è già più in grado di distinguere le immagini e i testi pubblicitari da quelli della parte redazionale”.

L’attività artistica è tanto poco libera quanto nell’età media cristiana, poiché se allora qualsiasi rappresentazione doveva raffigurare sempre una scena religiosa, ora si trasforma sempre nella stessa pubblicità, precisamente nelle sue apparentemente fortuite “molteplicità” e contingenza, pubblicità che raccomanda se stessa ed è apprezzata nelle immagini di automobili, bibite energetiche, telefoni cellulari e cappelli da baseball. Rappresentare il mondo nella forma autonomizzata della pubblicità significa poterlo percepire solo nella forma della merce autonomizzata. Questo vale anche per la percezione di sé e per le relazioni sociali degli individui. Perfino nell’intimità, che ormai neanche esiste più, nasce una distanza mediata che ha come presupposto la completa assenza di distanza dagli imperativi sociali. Non esiste più alcuno spazio sociale di tranquillità non sovraccarico di esigenze di dominio. Il modello d’identità messo in movimento deve sempre essere soggetto al verdetto dei “sondaggi d’opinione” nell’eterno carnevale della soggettività, come una marca di birra o di un profumo.

Il capitale umano ambulante necessita dei prodotti dell’industria culturale in senso lato non tanto per l’uso, ma più in quanto soggetto di una testarda “rappresentazione di sé” in cui gli indossatori del vestito sono intimamente convinti della propria mancanza di valore. I personaggi che ci si cuce addosso non possono essere abbandonati neanche quando si è soli. La maschera di carattere secondaria dell’industria culturale dell’autopromoter precario è fusa con la propria pelle.

Si ha l’impressione quasi tediosa che anche su questo punto si può percorrere la complementarità polare tra pessimismo culturale conservatore e ottimismo culturale postmoderno progressista. Ancora una volta i sostenitori della riflessione della borghesia culturale scherniscono la pubblicità solo perché vorrebbero innalzare una barriera ideologica contro l’infiltrazione della volgarità nella sfera elitaria dell’arte. Essi condannano l’effetto senza contenuto solo per nascondere la commercializzazione di presunti “beni più sacri”, senza minimamente voler intaccare il capitalismo. Dunque la volgare pubblicità non deve poter essere riconosciuta come la faccia sogghignante allo specchio della raffinata arte borghese. Anche in questo aspetto, come in ogni altro, la forma sociale della relazione feticista ha divorato il contenuto. E quel che ancora rimane dell’arte ufficiale dei circoli superiori, che ormai riesce a essere elitaria solo nel prezzo in denaro, è la comune auto-vendita nelle gallerie di artisti che sono “avanguardisti” al massimo grado quando sdegnosamente girano i quadri verso la parete oppure oscurano i testi.

E di nuovo il postmodernismo capovolge soltanto la critica apparente del pessimismo culturale, e proclama la pubblicità come liberazione dell’arte dal tocco da museo di un classicismo da maestro di scuola. Il carattere autorepressivo delle monadi dedite a un’autorappresentazione alimentata dal complesso totalitario dell’industria culturale è qui occultato come nella controparte conservatrice. L’ipocrita presa di distanza della coscienza della borghesia culturale rispetto alla comunità letterale della pubblicità universale e dell’autopromozione si rovescia nel motto postmoderno: “essere presenti è tutto”. Non solo la loro somiglianza formale, ma anche la connessione intima tra propaganda populista e pubblicità non devono essere menzionate o al limite, nel caso lo siano, devono essere considerate suscettibili di uso positivo. Il postmodernismo è dunque d’accordo con Goebbels senza che ci tenga a saperlo. Ogni individuo si piace con effetti senza contenuto, per poter così rinnovare la propria maschera di carattere e rimuovere ogni riferimento alla critica. La coscienza dello stile di vita postmoderno è ormai una specie di cappello da baseball collettivo che si autopromuove.



La continuazione del “lavoro astratto” e della concorrenza con altri mezzi

L’esaltazione postmoderna del predominio dell’effetto e del dettaglio tecnico sul contenuto, dichiara ripetutamente che queste tendenze sono associate a un benessere culturale che garantisce un “piacere senza rimorsi”. Che male ci sarebbe in questo? Dal momento che si è dissolto qualsiasi criterio di contenuto e che la critica è stata dichiarata impossibile, si vorrebbe continuare come se la merce dell’industria culturale cadesse dal cielo come la manna, o volasse di bocca in bocca come i piccioni arrosto del paese della cuccagna. La borghesia culturale conservatrice, di contro, nella misura in cui ancora esiste e non è stata dichiarata estinta, guarda all’industria culturale come a un affare culturale poco elegante e considera che se il consumo dei suoi prodotti non richiede sforzi è perché si tratta di spazzatura senza alcuna pretesa che avvelena anima e mente. In antitesi vengono portati a esempio i “lavori di alto proposito“ che sono stati prodotti, gli unici considerati validi per i “veri artisti” e per i “veri conoscitori dell’arte”, nella piccola ma più raffinata comunità senza prezzo della “conoscenza”. Anche a questo riguardo gli ottimisti postmoderni della cultura e i pessimisti conservatori della cultura sono tra loro molto simili: entrambi concordano sulla facilità e sul godimento senza sforzo dell’industria culturale, solo che questo godimento presuntivamente comodo è valutato in modo opposto.

Adorno e Horkheimer affrontano la questione da una prospettiva del tutto differente. In accordo con la loro origine, essi di fatto non sono immuni da un autocompiacimento basato semplicemente più sulla canonizzazione e sulla restrizione nel senso dell’alta cultura borghese che sul primato del contenuto. Ma, tralasciando questo condizionamento storico-sociale, essi non smettono di vedere il contesto di mediazione interna tra industria culturale e pressione all’efficienza nel lavoro capitalista, tra “lavoro astratto” e “godimento del tempo libero” presunto come senza rimorsi. Qui non si tratta semplicemente della critica a un semplice effetto compensatorio, come se una cosa fosse esteriore all’altra.

In realtà, la dialettica del consumo pop totalmente capitalizzato consiste proprio nel fatto che la coercizione sociale e la libertà di scelta dell’oggetto, il rilascio perturbato dell’energia lavorativa protestante e l’esibizione dell’autocompiacimento non solo si corrispondono, ma si trasformano uno nell’altro e ognuno si manifesta nell’altro. Il lavoro pesante della miseria non è solo il presupposto indispensabile, che si vorrebbe mantener discreto, ma sempre il presupposto cosciente del potere d’acquisto. Adorno e Horkheimer non evocano il pericolo di un accesso troppo facile
per la capacità del lavoro al piacere , che comunque sarebbe necessario esigere, ma dimostrano che quel comodo comfort è in sè illusorio. Ciò che è offerto come tale non può essere separato dal suo contrario nel processo del guadagnare denaro, come essi affermano chiaramente: “L’amusement è il prolungamento del lavoro nell'epoca del tardo capitalismo. Esso è cercato da chi aspira a sottrarsi al processo lavorativo meccanizzato per essere poi di nuovo in grado di affrontarlo e di essere alla sua altezza. Ma nello stesso tempo la meccanizzazione ha acquistato un potere cosi grande sull'uomo che utilizza il suo tempo libero e sulla sua felicità, essa determina in modo cosi integrale la fabbricazione dei prodotti di svago, che egli non è più in grado di apprendere e di sperimentare altro che le copie e le riproduzioni dello stesso processo lavorativo”.

Ancora una volta non è l’esigenza della tecnica di riproduzione in sé che realizza questa inversione fatale, ma è invece il totalitarismo feticista della forma generale della merce che tendenzialmente trasforma tutte le espressioni vitali in “lavoro astratto” o perlomeno le equipara a quello; anche nel caso non siano legate a un qualche processo di valorizzazione reale. Non c’è alcuna vero rilassamento nella falsa concentrazione e fissazione sul lavoro del soggetto. Anche il relax deve essere strumentalmente organizzato e professionalizzato così che si trasformi nel suo esatto contrario. E’ a questo che si riferisce uno dei più frequentemente citati passaggi del capitolo de L'Industria Culturale: “Il fun è un bagno ritemprante. L'industria dei divertimenti lo prescrive continuamente”.

E non sono solo la compulsione al lavoro e il delirio dello sforzo che si riproducono nel consumo delle merci dell’industria culturale, ma anche la monadologia obiettiva della sfera della circolazione capitalista, o, come osservano Adorno e Horkheimer, “la durezza implacabile della società concorrenziale”. Anche il fun diventa un bagno medicinale poiché il “godimento” non è innocente né comodo, e nemmeno intelligente, ma, malgrado ogni convivialità delle feste, diventa un’ispezione del design dei corpi, del vestiario e delle personalità, in cui ogni simulacro dell’io riesce solo a divertirsi contro tutti gli altri illudendosi che il piacere sia in questo. Anche le maschere del tempo libero forzatamente allegre, come si dice nel riassunto del capitolo de L’Industria Culturale: “attestano lo sforzo di fare di se stessi l’apparecchio adatto al successo…”. Da nessuna parte questo si mostra più chiaramente come nelle microimprese postmoderne dell’high-tech e della pubblicità. Il “lavoro astratto” e la concorrenza diventano solo un gioco e una festa perché sia la festa che il gioco si sono trasformati da tempo in “lavoro astratto” e in concorrenza.

Con ciò l’industria culturale si rivela anche come un’organizzazione dalla connotazione sessuale. Donne e uomini si situano qui in modo differente, malgrado tutte le modificazioni culturali, proprio perché si tratta di modelli, simulazioni e forme di riproduzione del “lavoro astratto”. La forma del soggetto così determinata, concorrenza universale inclusa, ha una connotazione strutturalmente mascolina, come Roswitha Scholz ha dimostrato nella sua teoria della dissociazione sessuale dove per la prima volta viene tematizzata la relazione di genere all’altezza concettuale delle categorie capitaliste fondamentali. Seppur sempre più integrate nella sfera del “lavoro astratto” e nella sfera pubblica capitalista, le donne continuano a essere meno apprezzate perché continua a gravare su di loro la responsabilità in senso lato per la oikos, dissociata da quelle sfere nella misura in cui non può essere espressa in denaro (gestione della casa, cura dei figli e degli anziani etc.). Questa relazione dei sessi profondamente radicata nell’inconscio collettivo attraversa tutti i settori sociali. E così, a maggior ragione, si riproduce nel “bagno medicinale” della frenetica industria del divertimento. Le donne, infatti, là competono con altri corpi che sono differenti dall’apparente autodeterminazione sessuale che le rileva come “donne” in ogni autonomia individualizzata. Come “capaci di far tutto”, responsabili allo stesso modo per la famiglia e per la carriera, esse non perdono l’accento specificatamente sessuale – seppur in forma modificata – e l’”essenza di madre” continua a seguirle come un pregiudizio. Ciò si ripercuote nella loro autoimmagine co-fabbricata dall’industria culturale; così, inoltre, esse non sono prese sul serio come soggetti del fun.

Internet come nuovo mezzo centrale dell’industria culturale

Arrivati a questo punto è il momento di affrontare Internet in quanto complesso più avanzato dell’industria culturale. Il “Net” costituisce senza dubbio la perfetta tecnologia postmoderna che non per caso è comparata con la scoperta della stampa all’inizio della modernità e che comporterebbe gli stessi effetti rivoluzionari. Ma così come la stampa dei libri e le sue conseguenze sociali non si possono comprendere a partire da se stesse ma solo nel contesto del processo di costituzione storica protocapitalista, anche Internet non può essere dichiarata un’istituzione tecnologica autonoma con potenzialità di mutazione sociale, bensì solo come momento socio-tecnologico nei limiti storici del capitalismo.

L’opposizione complementare fin qui delineata tra il pessimismo culturale della borghesia culturale e l’ottimismo culturale postmoderno non ha quasi ragione di esistere in questo complesso ipermediatico; e di fatto soprattutto perché l’alta cultura conservatrice e della filologia antica della borghesia classica è in procinto di capitolare senza condizioni. La corrispettiva borghesia culturale nel contesto specifico tedesco fu da sempre una borghesia immaginaria, un gruppo sociale diffuso e multifaccia, i cui membri ebbero la pretesa di considerarsi “i migliori” appunto nell’aspetto culturale. Questo discrimine non si riferisce solo a qualifiche (accademiche) superiori, ma a un canone culturale radicato nelle lingue antiche, nella filosofia classica e nella poesia dell’idealismo tedesco. La relativa presunzione di una “cultura superiore” è andata ben al di là dei pochi specialisti in materia; abbraccia tutto lo spazio accademico e comunque il personale docente delle scuole superiori, e perfino coloro che abbiano appena conseguito un diploma. Ciò perché la demarcazione non era soltanto nei confronti delle “masse ignoranti”, ma anche contro le élite degli altri paesi capitalistici. Fu comunque certamente una borghesia immaginaria rispetto alla competenza sul contenuto di quel canone culturale, dato che la maggioranza di questa classe non è mai andata al di là della superficialità e andava perfettamente a braccetto con i fumi della birreria e la brutalità nelle relazioni sociali.

Questa vecchia “barbarie colta” della borghesia accademica tedesca si estinse nell’epoca delle guerre mondiali e non c’è da versare una lacrima per la sua perdita. Nella democrazia di mercato mondiale successiva al 1945, sparì ancor di più il canone culturale classico dando sempre più luogo a una mera coscienza d’élite funzionale. Quel che restò fu un pallido riflesso di quell’aspirazione, del resto mai veramente compiuta, e un residuo soltanto illusorio della falsa coscienza di essere “i migliori”. Nell’attuale ideologia della classe media questo impulso si è sempre più ridotto al tentativo di circoscrivere la qualifica di livello secondario ai propri figli contro le nuove classi povere e gli immigrati, cioè di sabotare qualsiasi superamento dell’ormai da tempo anacronistico sistema scolare a tre gradi della Repubblica Federale Tedesca.

Quanto ai contenuti, l’impero illusorio della borghesia culturale è scomparso definitivamente con la terza rivoluzione industriale. L’aspirazione elitaria è da tempo che non si riferisce più alla capacità di riuscire a recitare Omero in greco originale, ma semmai a una miscela di economia politica e “competenza multimediale” che costituisce il profilo ideale per l’individuo postmoderno di tipo puro in quanto “apparecchio adatto al successo”; anche se soltanto nell’immaginazione dei suoi milieus di riferimento. La coscienza senza basi dell’élite ha cambiato con grande sofferenza la maschera appiccicata al volto; essa è
del tutto diventata volgarmente parte dell’economia capitalistica e ordinariamente tecnologica come tutta l’organizzazione democratica. Anche professori di latino, scienziati letterari e cattedratici di filosofia vanno come apprendisti da giovani e dinamici imprenditori imbroglioni e svengono dall’ammirazione per tredicenni strampalati che amano considerarsi virtuosi del mouse. La nuova élite è notoriamente senza pretese spirituali ed equipaggiata per il corso del mercato in modo talmente ridotto che le università “d’eccellenza” possono essere considerate tutt'al più come un’oggettiva barzelletta. L’apoteosi del complesso dell’industria culturale consiste nel fatto che le élite di ogni settore si sono trasformate in mere figure da fumetto comico che si dilettano straordinariamente del loro stato perché non hanno più alcun termine di paragone.

Nel 1945 Adorno e Horkheimer non potevano sapere della rivoluzione tecnologica digitale né della sua applicazione allo sviluppo capitalista. Ma erano perfettamente nella posizione di prevedere la tendenza generale all’integrazione mediatica in riferimento all’industria culturale, così come Marx l’ebbe a fare per la scientificizzazione dell’industria capitalista. “La televisione”, scrivono, “tende a una sintesi di radio e cinema” e questo porterà alla “realizzazione sarcastica del sogno wagneriano dell’opera d’arte totale”. Poiché “la coincidenza tra parola immagine e musica”, una volta che non si segue più alcuna legge propria, è solo “il trionfo del capitale investito”.

E’ facile percepire che Internet si prepara a consumare la sintesi dell’industria culturale in una scala ben maggiore. Le varie tecnologie di stampa, telegrafo, telefono, radio, cinema e televisione sono fuse in un unico complesso globale. Tuttavia, da qui, di nuovo, non emerge una rivoluzione tecnologica in quanto tale, ma è la logica (che penetra geneticamente tutto il sistema) del “lavoro astratto”, della forma autonomizzata del valore e del concomitante controllo sociale che li regola a costituire la matrice e nello stesso tempo il movens di questa integrazione mediatica. La forza sintetica non deriva da una qualche riflessione cosciente e neanche più dalle attività autonome degli individui, ma emana  dalla determinazione eteronoma della forma sociale. Per questo si condensano e si aggravano in Internet, come nuovo mezzo centrale, tutte le contraddizioni e i difetti che Adorno e Horkheimer rilevarono precocemente nell’industria culturale. Di fatto si stratta solo della presagita “realizzazione sarcastica del sogno wagneriano dell’opera d’arte totale” in senso profondo. Il che può essere confermato in alcuni aspetti essenziali.

La virtualizzazione della quotidianità

Fin dal principio è inseparabile dall’industria culturale la tendenza a capovolgere la relazione tra oggetto e rappresentazione, tra segno e significato, oppure a cancellare la differenza tra loro. Qui ascende il generale “mondo al contrario” della relazione di capitale, nella specifica dimensione dell’industria culturale. Horkheimer e Adorno videro questa tendenza al capovolgimento nell’allora recente introduzione del cinema a colori: “Il mondo intero è passato al setaccio dell'industria culturale. La vecchia esperienza dello spettatore cinematografico, che, uscendo sulla via, ha l'impressione di trovarsi di fronte alla continuazione dello spettacolo appena lasciato, poiché quest'ultimo vuole appunto riprodurre, nel modo più rigoroso, il mondo percettivo della vita quotidiana, è assurta a criterio della produzione. Quanto più fitta e integrale è la duplicazione degli oggetti empirici da parte delle sue tecniche, e tanto più facile riesce oggi far credere che il mondo di fuori non sia che il prolungamento di quello che si viene a conoscere al cinema”.

Non si tratta di un proposito cosciente, nel senso per esempio di una “manipolazione” deliberata della coscienza (come comunque Adorno e Horkheimer sembrano occasionalmente suggerire più tardi), ma, semmai, il momento manipolativo risiede nella logica obiettiva delle relazioni e nella loro espressione nell’industria culturale: “La vita - almeno tendenzialmente - non deve più potersi distinguere dal film sonoro”. Questa formulazione nel capitolo de L’Industria Culturale indica un “deve” nel senso del “soggetto automatico” (Marx) della valorizzazione del capitale. Gli individui manipolano in una certa misura se stessi proprio perché sono “soggetti” dell’imperativo capitalista. Così come si compie un capovolgimento poiché la produzione concreta è “valida”
socialmente solo come espressione del “lavoro astratto”, così come la forma delle merci si duplica nella forma del denaro e così come la “ricchezza concreta” può essere solo la forma di rappresentazione e di manifestazione della “ricchezza astratta”: così anche si capovolge e si duplica la percezione e la rappresentazione cultural-simbolica del mondo e della propria esistenza. L’autonomizzazione, già iniziata con l’effetto tecnico senza contenuto, va ancora più a fondo e si cristallizza in uno pseudo-mondo, una volta che gli oggetti concreti così come gli individui ad essi relazionati diventano mere forme di manifestazione del loro stesso modo di rappresentazione e quest’ultimo sviluppa una sorta di vita apparente.

A quelle che Marx definiva come “forme di esistenza obiettive”, cioè la vera vita nel capitalismo caratterizzata dagli imperativi della valorizzazione e dell’autovalorizzazione, è sovrapposta una seconda realtà virtuale: la messa in scena e l’auto-messa in scena mediatica. Questo concetto si è inflazionato in modo semicritico o direttamente affermativo. Non a caso si diffondono definizioni del mondo del teatro come metafore in tutti i domini della vita. Gli individui si considerano sempre di più come attori nel proprio palcoscenico. Questa pseudo-vita virtuale non ha solo una funzione compensatoria alla miseria delle relazioni sociali reali, ma è comunque, anche immaginativamente e ideologicamente, elevata a “vera” realtà, di fronte la quale l’esistenza materiale e sociale reale si riduce a mera appendice e ormai quasi irreale.

Le parole di Adorno e Horkheimer sulla non-distinguibilità e, persino, sul capovolgimento mediatico tra l’essere sociale e l’apparenza prodotti dall’industria culturale sono profetiche poiché mostrano nel cinema una tendenza che va ben al di là di esso. Per la maggior parte dei consumatori dell’industria culturale di allora, il cinema a colori era ancora riconoscibile come un prodotto della fabbrica dei sogni e la sala cinematografica come un luogo dove una persona non vive davvero, ma che frequenta occasionalmente per uscire dal mondo del tran tran quotidiano. Internet, invece, non in generale ma comunque per un numero elevato e crescente di persone di ogni grado e livello, è diventata una specie di residenza spirituale e culturale che, inversamente, si abbandona solo occasionalmente per una visita alla realtà sociale e materiale. Questo rovesciamento tra apparenza mediatica e realtà ha raggiunto, con l’aiuto dello sviluppo tecnologico e la sintesi degli apparecchi elettronici, a dir poco una nuova dimensione.

Certamente non si deve cadere nell’errore di prendere il cliché troppo gravemente. A parte il fatto che la maggior parte dell’umanità non possiede l’accesso, o ha un accesso molto limitato a Internet, e che con la sua espansione si vanno rilevando limiti di saturazione per caduta del potere d’acquisto e/o delle infrastrutture, comunque rimane il fatto che per molti utilizzatori abituali la differenza tra il mondo reale e quello virtuale non è svanita. Il che d’altronde non è nemmeno possibile, così come il valore astratto
non può far scomparire in alcun modo la necessità dei beni d’uso materiali nel loro dover rappresentare la forma del denaro. Se il denaro non si può mangiare, ancor meno lo si possono i download.

L’ipostasi della virtualità inoltre non costituisce un semplice problema generazionale come molte volte si vorrebbe far credere. La presunta “generazione Net”, dei “nati col digitale”, è più che altro una leggenda di opinionisti interessati. In realtà non esiste un gruppo generazionale uniformato a una socializzazione digitale specifica. Non si deve confondere il consumo talvolta più frequente dei mezzi di comunicazione elettronici con una maggiora competenza al riguardo né con un coinvolgimento senza difficoltà della percezione. Anche tra i teenagers si trovano non pochi individui con difficoltà nel districarsi nell’ambiente digitalizzato; non solo tra gli adulti più anziani. E il consumo superficiale dei giochi delle tecnologie dell’informazione dell’industria culturale non mette in gioco una qualche “padronanza”, ancor meno se ciò assume un carattere di vizio. In ogni generazione sono pochi i possessori di un’effettiva competenza digitale profonda; e in ogni caso non è del tutto certo il senso in cui si applica.

Il presunto adattamento più facile degli adolescenti alla virtualizzazione tecnologica della quotidianità è, in parte, una mera illusione di professionisti specializzati nell'età evolutiva, ma in parte anche l’auto-illusione di una generazione con questi interessi, nella sua falsa coscienza. O ancora, un’auto-illusione di genitori e nonni con una residua socializzazione nella borghesia culturale che desiderano prospettare per i propri bambini opportunità speciali per il futuro, come capitale umano capace di cliccare col mouse. Il “darwinismo dei media” tanto evocato può facilmente disgregarsi. I giovani con competenze mediatiche nella socializzazione ridotta di oggi, che non leggono più libri, sono i perdenti di domani, anche dal punto di vista immanente del capitalismo.

I propagandisti della tendenza alla virtualizzazione, comunque reale, non coincidono con l’insegnamento di competenze tecnologiche e nemmeno riflettono sulle contraddizioni insolubili emerse da questa tendenza, o sulle corrispondenti illusioni. Al contrario: siamo di fronte alla fabbricazione di un’opinione accademica e mediatica che raggiunge uno statuto egemonico poiché conferisce un’espressione ideologica affermativa allo sviluppo capitalista al principio del XXI secolo. La pressione alla virtualizzazione, nella misura in cui si generalizza in seguito a una tendenza schiacciante, corrisponde piuttosto ad uno zelante adattamento all’ideologia egemonica e così a uno stadio in cui i bisogni stessi non si possono più distinguere da un conformismo di routine. In ogni caso la fuga verso un al di là simulato digitalmente indica la miseria della realtà capitalista.

La separazione della coscienza postmoderna dal vecchio canone culturale borghese non produce alcun nuovo contenuto, ma trasforma in contenuto la propria forma “vuota”,  riproducendo
così l’illusione obiettiva del capitale che pretende di emancipare la “ricchezza astratta” dalla materia e dalla natura. Appartiene all’essenza dell’ideologia antiessenzialista postmoderna il fatto che la relazione referenziale tra rappresentazione e oggetto, modus e contenuto, o segno e significato debba essere cancellata. Se il culturalismo propaga l’autonomizzazione dei sistemi dei segni e dei modi, esso soccombe all’astrazione funzionale della compravendita nella sfera borghese della circolazione che nulla vuol sapere della sua sostanza feticista. La sintesi dei mezzi dell’industria culturale grazie a Internet pare fornire una base tecnologica per l’emancipazione illusoria dei segni. La graduale scomparsa del mondo nei flussi di dati incaglia l’apparenza reale feticista della merce su un piano differente, come campo da gioco universale meccanicamente prodotto, nel quale non solo gli oggetti ma anche le persone si duplicano e nella loro virtualizzazione rimpiazzano a se stesse una vita apparente che corrisponde alla loro reale nullità e indegnità. Lo spazio virtuale è infestato da avatares in quanto spiriti di morti viventi che nella realtà vegetano nei campi di concentramento della valorizzazione del capitale e dell’amministrazione del lavoro.

La virtualità integrata dell’industria culturale è penetrata nella corrispettiva tecnologia; ma la ragione, ancora una volta, non è la tecnologia come tale, ma semmai che questa assume il suo carattere attraverso il carattere della forma soggetto capitalista, il quale va barcollando in una dinamica cieca. Per la stessa ragione, inoltre, non è un caso che la maggior parte delle presenze nel campo dei giochi virtuali sia maschile. In realtà, gli uomini e le donne, individualmente, non sono incasellabili nelle loro attribuzioni storico-sociali, come è stato dimostrato dalla teoria della dissociazione sessuale, ma mediamente non possono neanche liberarsene dal momento che la relazione sociale soggiacente non è stata abolita. Il ruolo di cura associato al femminile per bambini, vecchi, malati e bisognosi è stato già illustrato nelle soap-opera in una forma idealizzata; è del tutto impossibile metterlo in scena nella “realtà virtuale” perché in quest’area non è possibile alcuna simulazione tecnica, pena lo smascherare immediatamente il suo carattere assurdo. Lo spazio virtuale costituisce l’impero spirituale secondario, duplicato del “lavoro astratto” anche nel senso del suo divenire storicamente irreale; e gli avatares che lo infestano sono soprattutto fantasmi della mascolinità patriarcale moderna.

Interattività del Web 2.0 e individualizzazione

A misura che i moderni mass-media e la corrispettiva produzione dell’industria culturale entravano nella vita, erano comunque calibrati formalmente e tecnologicamente per la passività del loro pubblico. Adorno e Horkheimer vedono qui decisamente un carattere essenziale dell’industria culturale: “Il passaggio dal telefono alla radio ha separato nettamente le parti. Il primo, liberale, permetteva ancora all'utente di svolgere la parte del soggetto. La seconda, democratica, rende tutti del pari ascoltatori, per consegnarli, in modo autoritario, ai programmi fra loro tutti uguali delle varie stazioni. Non si è sviluppato alcun sistema di replica, e le trasmissioni private sono tenute alla clandestinità”.

L’apologia postmoderna dello “spettacolo” (Debord) dell’industria culturale pretende di poter intervenire trionfalmente su questo punto, per dimostrare il carattere antiquato del pessimismo culturale della teoria critica. Poiché se l’assenza di un “sistema di replica” era nota nei media predigitali e anche allo stadio iniziale di Internet, nel frattempo – si affretta a concludere il decrepito pop postmoderno – la vecchia struttura autoritaria di “emittente e ricevente” sarebbe di fatto abolita. La parola chiave è “interattività”. La mutazione senza fine di Internet avrebbe condotto alla nuova qualità interattiva del Web 2.0, come non smette di essere ripetuto tanto nei supplementi culturali quanto nel mondo accademico. A questo livello ogni “utente” può sempre e ovunque relazionarsi e nel modo più personale possibile intervenire con la parola (o con l’immagine).

I passi di questa mutazione sono elucidativi. Vanno dalla pseudo-partecipazione ai programmi della radio con telefonate degli ascoltatori, ai giochi di presenzialismo con saluti “a tutti quelli che mi conoscono” etc., per arrivare all’inflazione di siti web privati, fino ai blogs, alle forme direttamente interattive con “funzione commenti” nelle mailing list o nelle edizioni elettroniche dei quotidiani, le communities “di amicizia” del Web 2.0 e i servizi informativi come “Twitter”. Ma tutte queste forme di interazione digitale sono incapaci di condurre a un’emancipazione mediata in termini puramente tecnologici quanto tutte le forme precedenti dell’industria culturale.

Il concetto di un mero “sistema di replica” fu forse una scelta infelice da parte di Adorno e Horkheimer, poiché non potevano comprendere questa funzione in un modo non ridotto a tecnica. Oggi si tratta di qualcosa di differente. La capacità di replica è organizzata solo al livello di oggetto e di equipaggiamento, non al livello sociale. L’espressione “reti sociali” digitali che apparentemente contraddice questa valutazione non è che un eufemismo. Il sociale si riferisce qui a un contesto quasi esclusivamente virtuale, meramente simulato; si tratta nella maggior parte dei casi di amicizie irreali tra avatares. I veri individui rimangono perlopiù anonimi, o indossano una maschera solo in modo esibizionista nella distanza mediata mediaticamente che apparentemente permette una prossimità primitiva secondaria. All’irrealtà corrisponde il non compromesso; del resto ciò riflette qualcosa di essenziale della disposizione intima postmoderna che rifugge qualsiasi compromesso come il diavolo dalla croce. Questa ovvia fenomenologia del Web 2.0 è generalmente conosciuta e spesso discussa; non in ultimo luogo negli stessi supplementi culturali che si dilettano ad entusiasmarsi per l’interattività digitale. Ma che rimangono meno entusiasti nel riflettere sui suoi presupposti o sulle sue conseguenze.

Il retroterra è costituito dal principio non dalla pura tecnologia ma, semmai, come non poteva non essere, dal corrente sviluppo sociale logicamente associato all’”interpretazione” tecnologica. Questo dispositivo fornisce solo il termine, certamente infido, dell’”interattività” o dell’“interazione”, come se si trattasse di una relazione reciproca tra pianeti, molecole, insetti o componenti meccanici. Questa disumanizzazione, che alligna già nel termine quasi altrettanto neutro di “comunicazione”, corrisponde allo status derealizzato degli individui partecipanti, che si trasformano letteralmente in semplici maschere. Si potrebbe considerare come un’astuzia negativa della ragione capitalista il fatto che il “sistema di replica” tecnico emerga proprio nel momento in cui i soggetti, socialmente ridotti al minimo e virtualmente disumanizzati e divenuti riconoscibili come meri attori, non hanno più nulla da dirsi gli uni agli altri, riuscendo ormai solo a mostrare le proprie maschere gli uni agli altri. Pertanto non si può parlare di “dialogo”, di “discussione” e ancor meno di “polemica”, non a caso respinta, ma piuttosto di un’”interattività” vuota e meccanica cui gli individui borghesi hanno ridotto se stessi.

Adorno e Horkheimer presentirono già nel 1944 lo stadio di decadenza della soggettività capitalista che Ulrich Beck ha caratterizzato quarant’anni dopo come “individualizzazione”. Al contrario delle ipotesi ottimiste di Beck, essi già sapevano in anticipo che tale processo non ha nulla a che vedere con la liberazione degli individui dalla coercizione sociale oggettivata, ma semmai con un nuovo stadio della sua interiorizzazione, che si esprime anche esteriormente come nuova qualità della mera “liberazione” nel senso di un’universale situazione di proscrizione [Vogelfreiheit]: l’individuo astratto, dal principio il tipo logico ideale del soggetto funzionale capitalista, cioè l’opposto di un individuo concreto che vive coscientemente la propria socialità, che, dopo un lungo e doloroso processo di sviluppo cristallizzatosi fino alla pura forma postmoderna, emerge ormai solo come un punto o come un’”unità”. Il capitale, il “soggetto automatico” della valorizzazione, è ora l’autoriferimento immediato, non filtrato, folle e demoniaco del soggetto: ognuno è il proprio capitalista, ognuno è il proprio lavoratore. L’uomo isolato non ha più alcuna storia ma, come unità astratta, ormai è solo un punto medio delle tendenze del mercato, una macchina dell’autovalorizzazione, o, come si afferma con premonizione nel L'Industria Culturale: “Ciascuno si riduce a ciò per cui può sostituire ogni altro: un esemplare fungibile della specie. Egli stesso, in quanto individuo, è l'assolutamente sostituibile, il puro nulla”.

Ma qui ormai non c’è più alcuna Dialettica dell’Illuminismo, come Adorno e Horkheimer ancora volevano dimostrare, seppur dubbiosamente, bensì il compimento della sua promessa. L’Illuminismo non ha mai promesso nient’altro se non la “felicità” per ognuno di potersi trasformare in un “puro nulla”. Questo contesto è perfettamente chiaro e criticabile. Ma il postmodernismo in ogni sua variante non aspira a questa critica; i rispettivi esemplari si deliziano nella propria nullità immaginandola come liberazione dalla materialità e da tutte le relazioni in generale. Gli individui resi astratti fino a non poter essere, non riescono a coinvolgersi in nessuna cosa, perché essi stessi sono divenuti un oggetto meramente esteriore e reificato.

Ciò era  già vero,
in una certa misura, per l’individualità astratta ancora non matura che si esercitava coi primi dispositivi della tecnologia di “comunicazione” nel diciannovesimo secolo; per esempio e in primo luogo nel telefono, allora ancora limitato alle classi superiori che se lo potevano permettere. Quando Adorno e Horkheimer ironizzano che il vecchio “sistema di replica” telefonico lasciava ancora “liberalmente” i partecipanti ”svolgere” il ruolo di soggetti mentre il sistema di controllo democratico dell’industria culturale non lo permette più, si tratta di un punto di vista non affatto smentito dall’interattività del “Web 2.0”. Benché entrambi gli autori si siano spesso espressi nel senso di una dialettica positiva, possibile ma non sviluppata, rimane che la loro formulazione ironica lascia presentire che il carattere “liberale” e allo stesso tempo di mero dispositivo del telefono riduce la soggettività allo “svolgere un ruolo”, poiché dietro di essa vi è il potere aprioristico del “soggetto automatico” che ha degradato il moderno concetto di “soggettività” al concetto di una semplice funzione. L’essenza di questa precoce soggettività “interattiva” si esprime nel miglior modo in quelle scene del cinema in cui la persona al telefono allontana da sé la cornetta per non dover ascoltare il chiacchiericcio insopportabile della persona in ”interazione” all’altro capo del telefono, per poi parlare a sua volta al microfono, senza che l’interruzione sia stata notata all’altro capo del filo.

Con questa pantomima del cinema muto era già stato detto probabilmente tutto sull’”interattività”. La mania del telefono cellulare che schiamazza da oltre un decennio ha portato questa situazione alla sua ultima riconoscibilità, nella misura in cui ora le conferisce una mobilità tecnologica e nello stesso tempo uno spazio pubblico di esibizionismo “comunicativo”. Ciò che prima era coscienziosamente protetto dalla cabina telefonica, irrompe ora come vaniloquio nelle strade, nei caffè e sui mezzi di trasporto. Sarebbe di fatto preferibile che i partecipanti denudassero semplicemente le parti sessuali, poiché le circostanze sarebbero quantomeno risparmiate dalle oscenità ben peggiori delle loro bocche aperte. Cos’è la lampo aperta del classico esibizionista del proprio membro sessuale in confronto alla bocca aperta di uno pseudo-soggetto postmoderno? Nelle “comunicazioni” compulsivamente esposte non è più possibile riconoscere una qualche condizione umana; e anche le comunicazioni professionali o commerciali mostrano soltanto il perché l’economia d’impresa deve necessariamente condurre alla catastrofe personale e sociale. Il telefono cellulare, nel frattempo connesso con Internet, mostra che il corrispondente sistema di “replica” va ben oltre la pubblicità compulsiva delle presuntuose comunicazioni quotidiane
acusticamente limitata.

Il Web 2.0 offre a qualsiasi mitomane da bar e a qualsiasi adolescente esagitato almeno formalmente la piattaforma per una pubblicità mondiale immediata. Ma la possibilità tecnologica coincide con la sua irrealtà sociale. Gli individui diventano mediaticamente attivi esprimendosi verso la generalità sociale in modo necessariamente irriflessivo, accettando acriticamente di essere consegnati al capitalismo: come pseudo-individualità atomizzate, come mere copie dello stesso principio trascendentale. Quando un puro niente interagisce con un altro puro niente, si tratta della ben nota “figura di interazione” con altri mezzi, ossia un possessore di merci che ne incontra un altro. Solo in apparenza si tratta della “discussione” di contenuti e problemi reali, poiché in realtà si tratta principalmente dell’auto-messa in scena narcisista, che perlomeno nei vecchi mezzi dell’industria culturale non era “interattivamente” avvolgente, ma rimaneva in una situazione amichevolmente “muta”, con elettrodomestici accesi solo occasionalmente o come una trasmissione acustica unilaterale. Continua ad essere un segreto degli apologeti il perché una trasmissione acustica nei due sensi dovrebbe essere migliore. Adorno e Horkheimer avevano già riconosciuto che la “stravaganza ben organizzata” costituisce il vero fine dell’esercizio mediatico, contesto “interattivo” o meno. Nella misura in cui i partecipanti si limitano a presentarsi o a legarsi reciprocamente, è comunque attraverso il “sistema di replica” che continuano a essere slegati: “Il numero che ha chiamato è inesistente o è fuori servizio”.

L’”interazione” limitata alla forma e ridotta a tecnica è ancora più difficile di quella nel processo del canale unilaterale perché suggerisce una struttura dialogica divenuta anticipatamente impossibile dall’equipaggiamento del soggetto postmoderno, nella misura un cui questo continua ad essere acriticamente affermato. Ciò vale anche per l’auto-soddisfazione pseudo-antiautoritaria dei piccoli bloggers che si sottomettono agli imperativi socioeconomici del “soggetto automatico” poiché appunto trasformano se stessi in brand. La relazione autoritaria non è abolita in quanto lasciata a una relazione esteriore, ma collocata nell’interiorità degli individui come relazione autoritaria. Così come ognuno è il suo stesso capitalista e il suo stesso lavoratore, ognuno è anche la propria star, il proprio eroe e il proprio fan; e anche il proprio fan club, in quanto personalità multipla, per via della moltiplicazione virtuale. Si potrebbe anche dire: ognuno è la sua stessa industria culturale fatta in casa e anche la maggior parte delle sue creazioni si rende di conseguenza penosa. Ma non c’è nulla di male, poiché nella comunità degli internauti comunque non se ne accorge nessuno.

Così come la virtualizzazione della quotidianità è vissuta in modo differente dagli uomini e dalle donne, lo stesso accade anche con la virtualizzazione e con il mezzo “interattivo”. Più precisamente: il patriarcato reificato, la dissociazione sessuale, si riproduce in modo differente nell’”interazione” mediatica individualizzata, a somiglianza dell’industria culturale in generale e fin dall’origine. E così come il “lavoro astratto” è strutturalmente connotato come mascolino, malgrado le donne da molto tempo siano anch’esse “impiegate” in questa sfera funzionale, ciò vale anche per lo spazio virtuale delle auto-messe in scena. Qui anche il sesso può essere cambiato con un click del mouse, e ancora una volta sono gli uomini che desiderano assumere la falsa forma della virtualità femminile per essere “tutto” nella loro immaginazione. La parte effettiva di donne tra giocatori di ruolo nel Net deve essere per questa ragione presumibilmente minore di quanto appare.

Il “puro nulla” segnalato da Adorno e Horkheimer è, in quanto riflesso del “lavoro astratto”, analogamente strutturato come mascolino e, proprio a causa del suo nulla, disponibile per la violenza latente. Poiché il puro niente della soggettività stordita e virtualizzata può trascendere il suo stadio di monade solo attraverso aggressioni moleste e caccie alle streghe. Certamente anche le ragazze partecipano al fin troppo deplorevole mobbing digitale; ma di solito questo è soprattutto uno sport di giovani di sesso maschile. Ciò diventa più evidente nelle chat-rooms virtuali per adulti. Per il mobbing digitale che periodicamente prende forma dall'"interattività" mascolina, del resto, le donne sgradite costituiscono l'oggetto preferito. 
Questa indole fascista latente, da truppa d’assalto nello spazio virtuale, può perfettamente irrompere nella realtà sociale e diventare violenza materiale immediata. In ciò consiste spesso il consenso e la “capacità di realtà” tecnologicamente “interattiva” di comparse ai video digitali autoprodotti.

Il prezzo alto di una cultura gratis

L’industria culturale come settore della valorizzazione del capitale presuppone ovviamente il carattere di merce dei suoi prodotti, espressione reificata delle relazioni umane che, com’è noto, fu descritta da Marx nel suo concetto di feticcio. L’oggettività del valore delle merci culturali nella produzione per il puro profitto richiede evidentemente la ri-trasformazione “realizzatrice”, cioè l’espressione di queste merci come “ricchezza astratta”, cioè come denaro, attraverso l’atto della vendita. Ecco che qui si riaffaccia l’apologia postmoderna dell’industria culturale, almeno per quanto riguarda Internet. I contenuti di ogni tipo qui offerti non costano nulla o comunque costano molto poco, benché si tenti continuamente di consolidare forme di pagamento digitale o di introdurre restrizioni all’accesso. Ciò non dimostrerebbe che, perlomeno l’industria culturale digitale, senza volerlo, si colloca già al di là della forma merce e del denaro? Non si dovrebbe considerare questo fatto un grande potenziale emancipatorio, se non addirittura l’emersione di un comunismo del gratis al di là dei “beni pagati”?

Ora di quel che succede non è che, siccome nel 1944 Internet ancora non esisteva, non sia stato previsto nulla nel capitolo del L’Industria Culturale. Di fatto molte merci dell’industria culturale, per esempio riviste, vinili o cd, dovevano allora come oggi essere acquistate nel modo consueto; e anche il cinema è un servizio culturale offerto per essere messo in vendita, così come un biglietto per le montagne russe o l’entrata in un cabaret. Ma radio e televisione non possono più entrare come merci isolate nella campo della valorizzazione e del realizzo sul mercato. Che per il loro mantenimento siano riscosse tasse dallo Stato, non implica una metamorfosi della regolare produzione capitalista di merci, poiché si tratta comunque di una determinazione da quella forma derivata. Lo Stato sovvenziona questi settori socializzati dell’industria culturale in quanto di “diritto pubblico”, così come altre infrastrutture, e recupera una parte di questi costi con le tasse. Il carattere di merce di tutta l’organizzazione non è dunque minimamente smentito, neanche se i programmi dovessero essere ottenuti a buon mercato o quasi gratis. A maggior ragione questo vale per le emittenti private nate in epoca neoliberale, finanziate esclusivamente dalla pubblicità.

Adorno e Horkheimer non intervengono più di tanto su un’analisi politico-economica del contesto della forma dell’industria culturale e sulle metamorfosi del processo sociale della valorizzazione, ma riflettono sul carattere quasi gratuito di radio e televisione principalmente sul piano psicologico-sociale e su quello dei simboli culturali: “Già oggi le opere d'arte vengono opportunamente arrangiate - come se si trattasse di parole d'ordine politiche - dall'industria culturale, che le infligge a prezzi ribassati a un pubblico recalcitrante e rende il loro uso accessibile al popolo come quello dei parchi delle ville patrizie. Ma la dissoluzione del loro genuino carattere di merce non significa già che esse siano custodite e salvate nella vita di una società libera”.

Questo significa che il consumo divenuto più o meno gratuito di una porzione crescente dei prodotti dell’industria culturale non rappresenta affatto un “superamento” dell’intero sistema produttore di merci, ma continua a esserne del tutto parte integrante. Che la propaganda politica, benché inerente alla forma merce, sia diffusa gratuitamente tra la gente, vale anche per il consumo dei prodotti culturali dei media. Essi non sfuggono alla forma denaro di “beni pagati”, è solo la mediazione con il sistema nel suo insieme ad essere diversa; ossia, il finanziamento è basato sulla copertura da parte dello Stato mediante tassazione sui redditi capitalistici, sul sistema del credito o sulla pubblicità, il cui sostegno privilegiato all’industria culturale si presenta ovvio. Nella misura in cui le preferenze monitorate degli acquirenti (per es. su Facebook) danno occasione ad ulteriori nuovi annunci pubblicitari, gli utenti in modo presuntivamente gratuito collaborano involontariamente al finanziamento. In questa misura soltanto sul piano dell’apparenza immediata o dell’esperienza particolare dei consumatori si può parlare della “dissoluzione del genuino carattere di merce” di questi prodotti, dal momento che essi in realtà rimangono, secondo il loro carattere sociale, merci, merci il cui contesto formale decade solo nelle istanze di mediazione.

Questo carattere si riverbera non solo sul contenuto ma anche sull’aspetto sociale e psicologico, tanto più insistentemente sugli individui consumatori quanto più esso non è più solo immediatamente economico come atto di compera, come Adorno e Horkheimer osservano criticamente in contrasto alla pseudo-emancipazione del poco costoso o del gratuito: “La soppressione del privilegio culturale che si realizza in tal modo, mediante liquidazione e svendita delle opere, anziché introdurre le masse ai domini che erano loro un tempo accuratamente preclusi, serve solo, nelle condizioni della società esistente, ad accelerare lo sfacelo della cultura e a promuovere l'avvento della mancanza barbarica di ogni rapporto”. Così Adorno e Horkheimer involontariamente affermano che il “privilegio culturale” borghese era solo un’illusione nella quale già risiedeva come reale impulso la tendenza alla “messa in liquidazione”, alla “decadenza” e alla “mancanza barbarica”, che nell’industria culturale diviene semplicemente manifesta. Quella cultura borghese che ancora aveva un prezzo non rappresentò altro che il lusso di un’autoriflessione affermativa che non era scolpita nella pietra e che fu necessaria ai tempi della costituzione capitalista, ma che perdette i suoi momenti di eccesso nella misura in cui si immerse nel quotidiano di massa come deformazione dell’industria culturale.

Qui ancora una volta è necessario prendere in considerazione la logica economica funzionale che in Adorno e Horkeimer rimane come sfondo senza essere esplicitamente chiamata in causa. L’industrializzazione dell’educazione e della cultura è sottomessa alla stessa legge della concorrenza degli altri settori del capitale. Tuttavia il fattore determinante è l’imperativo economico, non quello tecnologico. La lotta per la quota di mercato (anche in un’area secondaria come la pubblicità in quanto settore economico proprio, per il quale il prodotto dell’industria culturale costituisce il piano di sostegno) richiede la riduzione dei prezzi che può avvenire solo attraverso la riduzione dei costi di produzione. Ma se i costi di produzione vengono brutalmente abbassati la qualità ne risente ancora di più che nel caso delle industrie di produzione materiale. Il prodotto è allora un “bidone” o ancor peggio. Poiché è possibile “razionalizzare” la produzione intellettuale o artistica come chi razionalizza la produzione di parafanghi e bielle solo a costo del completo svuotamento del suo contenuto. Essa perde il suo valore d’uso con l’incorporazione diretta nel sistema del “lavoro astratto”, come già Adorno e Horkheimer misero in chiaro nel caso del rovesciamento o comunque della non-distinguibilità tra contenuto redazionale e pubblicità. E’ quel che si vede per esempio nei giornali pubblicitari gratuiti i cui contenuti redazionali, nella misura in cui sono strettamente interrelati o anche apertamente miscelati con la pubblicità, mostrano in modo particolarmente crasso la “decadenza” della riflessione come espressione culturale e la “mancanza barbarica“ della cultura capitalista trasmessa gratuitamente.

Internet mostra questa natura di una produzione capitalista di contenuto e cultura che ormai si paga solo indirettamente e proprio per questo perde il proprio “valore d’uso”, trasformandosi in un’organizzazione di massa individualizzata. Qui non si tratta in alcun modo di una liberazione emancipante della “creatività” ma piuttosto di una sorta di “privatizzazione” neoliberale della produzione di massa normalizzata dall’industria culturale in una scala mai vista prima. Che ognuno divenga la propria industria culturale non va più inteso solo come metafora ironica ma preso alla lettera con tutte le sue implicazioni. La forma tecnologica corrispondente all’equipaggiamento del soggetto postmoderno provoca una piena di presenzialismi completamente dequalificati che non possono essere valutati né rifiutati da una qualsiasi istanza redazionale.

Pertanto ognuno diventa il proprio mezzo, la propria rivista, il proprio cinema e programma televisivo. A differenza della produzione professionale, qui di fatto non è più necessaria qualsiasi “razionalizzazione” mediante la preformazione capitalista per abbassare il prezzo dell’oggetto fino al punto da poterlo offrire gratuitamente. Le sciatte creazioni di ogni tipo sono comunque determinate dalla condizione dei loro autori, i quali non riescono a coinvolgersi in nulla e sono mossi dalla pressione della concorrenza, dalla fretta di un servizio in astratto e da un controllo della loro riserva di tempo, condizione che esclude qualsiasi concentrazione sui contenuti. Chi su questo sfondo si “connette” “interattivamente” con dispositivi esterni che non richiedono né possono richiedere spese materiali o sforzo intellettuale, nemmeno ha bisogno di abbassare i propri costi. Quel che è il risultato della catena di montaggio della reale industria culturale è già presupposto nel caso delle autorappresentazioni individuali, vale a dire l’indifferenza, la vacuità e l’inutilità dell’oggetto. Ognuno è il proprio giornale pubblicitario gratuito.

Il disprezzo per ogni criterio di eccellenza e l’avversione per ogni contenuto, hanno posto in chiara luce la cultura borghese proprio lì dove essa è divenuta apparentemente “gratuita”. Già agli albori di questa situazione, Adorno e Horkheimer hanno interpretato questo “progresso”, questo declino del valore del denaro, come una svalutazione cinica di tutti i contenuti e non come emancipazione dalla forma merce: “Chi, nel secolo scorso, e ancora all'inizio del nostro, spendeva qualcosa per assistere a un dramma o per ascoltare un concerto, era indotto a tributare allo spettacolo almeno altrettanto rispetto che al denaro versato”. Nella cultura del gratuito di Internet ormai niente e nessuno viene rispettato. Né si può parlare di rispetto di sé. Chi in seno del capitalismo esalta la completa assenza di significato dei suoi prodotti artistici e intellettuali ammette anche la nullità dei propri contenuti. Poiché il niente assoluto può solo produrre il niente assoluto.

In una situazione in cui non si è soltanto sostenuti dalla pubblicità ma si è al tempo stesso la stessa cosa da pubblicizzare è naturale che il finanziamento secondario si mantenga entro limiti molto stretti. Dal proprio giornale pubblicitario gratuito non si guadagna un centesimo da terzi, poiché non si hanno altri contenuti oltre quelli che non siano già in vista ovunque. Così i soggetti dello scambio gratuito su Internet ispezionano reciprocamente la rispettiva assenza di valore. Soggettività svalorizzata ma non superata – Adorno e Horkheimer in un certo senso previdero anche questo stadio di un culturalismo svalorizzato: “L'arte ha ancora contribuito a tenere il borghese entro certi limiti finché è stata cara. Ora tutto ciò è finito. La sua assoluta prossimità, che non è più mediata dal denaro, a quelli che sono esposti alla sua azione, porta a termine l'estraniazione e assimila l'una all'altra (vicinanza ed estraniazione) nel segno della reificazione più totale. Nell'industria culturale viene meno, insieme alla critica, anche il rispetto… Non c’è più nulla di caro per i consumatori, anche se essi, di fronte a questo stato di cose, non possono fare a meno di sospettare che tanto meno si regali loro qualcosa quanto meno essa viene a costare”.

Un vero regalo comporta uno sforzo e per questo è qualcosa in sé. Liberare gli sforzi dai costi non solo nel caso particolare personale, ma fondamentalmente dalla loro forma feticista del valore funzionerebbe tuttavia solo per l’insieme della società e per tutti i beni, e non avrebbe niente a che vedere con il carattere individuale di un regalo, ma sarebbe semmai un modo differente di riproduzione sociale. La cultura dello pseudo-gratis su Internet non è né una né l’altra cosa. Il soggetto postmoderno dell’auto-messa in scena, armato di tecnologia della “comunicazione” ma vuoto o indifferente, tanto socialmente quanto ai contenuti, produce solo cripto-merci in larga misura a costo zero proprio perché non viene pagato nulla per esse e nel capitalismo non si possono sopportare sforzi non pagati.

E appunto perché non esiste alcun modus rivoluzionato di utilizzazione delle risorse al livello di tutta la società, che se vi fosse sarebbe valido anche per la produzione culturale, che gli attori del gratuito virtuale si illudono con il loro scambio di pacchetti vuoti in una ”economia del dono”. Nella misura in cui di fatto esistettero nelle formazioni premoderne strutture sociali di reciprocità conosciute come “del dono”, strutture che qui sono solo grossolanamente ideologizzate, queste furono comunque espressione di una mobilitazione reale delle risorse e non avevano nulla a che vedere con cose apparenti. Il fatto che un contenuto intellettuale o culturale possa essere divulgato “senza costi” grazie a un click del mouse non significa affatto che esso sia prodotto senza l’applicazione di risorse intellettuali e materiali; se così fosse non andrebbe oltre un contenuto nullo.

Gli economisti del dono interattivo scambiano tra loro un puro niente che corrisponde al loro stadio sociale e intellettuale, e in verità lo sanno, o perlomeno lo presentono, come Adorno e Horkheimer già osservarono. Quel che accade ai consumatori-produttori digitali non è differente da quel che accadeva ai precedenti semplici consumatori, la cui attitudine nel capitolo de L’Industria Culturale è così descritta: “La duplice diffidenza verso la cultura tradizionale come ideologia si mescola con quella verso la cultura industrializzata come truffa consapevole. Ridotte a semplice omaggio, regalato in soprappiù, le opere d'arte pervertite e degenerate vengono segretamente respinte dai consumatori insieme alle porcherie a cui il mezzo le assimila. Essi possono felicitarsi per il fatto che ci siano tante cose da vedere e da ascoltare”. Essi partecipano in massa di un’offerta indifferenziata, senza costi, indifferente e reciproca, in cui nessuno prende sul serio se stesso né prende sul serio gli altri. Per questa ragione chi ha avuto la cattiva sorte di attivare costi reali e caricare un contenuto effettivo viene livellato senza pietà dallo stesso nulla mediatico che è sorvegliato gelosamente dai propri titolari. Ogni sforzo sul contenuto è “pervertito” e il suo risultato diviene rassomigliante a “paccottiglia” a buon mercato, e appunto per questo i “destinatari” sanno intimamente che si stanno raggirando reciprocamente, e per questo considerano sempre tutto un inganno.

Comunque non si può omettere che Adorno e Horkheimer, anche nella critica radicale della cultura del falso gratuito, avevano in mente come immagine idealizzata ugualmente falsa i vecchi eroi della cultura piena e superiormente borghese che ancora effettivamente vendevano autentici contenuti e nello stesso tempo si potevano permettere di disprezzare questa relazione di compravendita. Così affermano poche pagine dopo nel capitolo de L’Industria Culturale: “Beethoven mortalmente ammalato, che getta via un romanzo di Walter Scott esclamando: ‘Questo furfante scrive per denaro’, e nello stesso tempo, ancora nello sfruttamento degli ultimi quartetti, che rappresentano il non plus ultra del rifiuto di ogni concessione al mercato, si rivela un uomo d'affari quanto mai esperto e ostinato, offre l'esempio più eloquente e più grandioso di questa unità degli opposti (mercato e autonomia) nell'arte borghese. Vittime dell'ideologia sono proprio quelli che occultano la contraddizione invece di assumerla, come Beethoven, nella coscienza della propria produzione”.

Non si può non osservare, e ciò testimonia il mantenimento del carattere sociale dell’antica borghesia culturale in entrambi gli autori, che essi pensino sia esistita l’“unità degli opposti (mercato e autonomia) nell'arte borghese” di cui gli “esempi più grandiosi” si dovrebbero riconoscere proprio nella capacità di rivelarsi “uomo d'affari quanto mai esperto e ostinato”. Se nelle condizioni capitalistiche di riproduzione non si può rinunciare al pagamento monetario delle spese, nella misura in cui queste secondo la riserva di tempo e le risorse materiali vanno al di là di una semplice relazione di hobby per giungere a una produzione di contenuti, tanto meno si può invece far passare l’astuzia dell’uomo d’affari e l’esperienza della valorizzazione come rovescio dell’”autonomia” artistica e teorica. Quest’ultima deve stare sempre sul piede di guerra contro la prima; qualsiasi abilità negli affari divora la riserva di tempo e le risorse, ponendosi dunque inevitabilmente come una deviazione dalla concentrazione sulla cosa stessa. Tale disposizione non mira al contenuto come malgrado tutto “il più estremo rifiuto del mercato”, ma semmai in ultima istanza verso un’eteronomia inerente a ogni valorizzazione, anche quella dei quartetti.

La nostalgia ideologica di Adorno e Horkheimer appartiene al residuo della ragione borghese illuminista nella quale mercato e autonomia sono identici nell’arte e non soltanto nell’arte. La critica e la storicizzazione negativa di questa ragione non sono portate fino alla fine nella Dialettica dell’Illuminismo, quando gli autori di fatto riconoscono l’”opposizione” di mercato e autonomia, tuttavia intendendo attribuirgli un’”unità” riconciliata, o comunque fondamentalmente riconciliabile, in un passato idealizzato della borghesia culturale. Nella conservazione incerta della ragione borghese, già prima riconosciuta come negativa e distruttiva, essi hanno cercato la quadratura del cerchio; l’apprezzata astuzia negli affari è quella della logica hegeliana, in cui le contraddizioni non conducono alla rottura e all’esplosione, ma piuttosto alla falsa riconciliazione positivamente superata nella forma dell’eterno soggetto della circolazione.

Tuttavia la concezione di Adorno e Horkheimer,
comunque, malgrado il deficit di questo excursus, formula  una critica cosciente del problema contro la cultura del gratuito nelle comunità di “utenti”, a maggior ragione falsa e menzognera quando si fa notare che “vittime dell’ideologia” sono proprio quelli che “occultano la contraddizione invece di assumerla… nella coscienza della propria produzione”. Non si tratta ovviamente di un’immaginaria unità di contenuti che rimanga alla forma valore, da un lato, e all’abilità per gli affari monetari della circolazione, dall’altro, la cui idealizzazione “occulta la contraddizione”, ma semmai innanzitutto del fatto che emerge in tutta chiarezza l’inconciliabilità della contraddizione e la necessità della rottura storica (invece del “superamento” positivo) nella “coscienza della propria produzione” in cui la forma merce o la forma denaro come male necessario sotto condizioni oppressive inficia quell’interpretazione minimizzante o perfino nobilitata.

Il limite interno del capitale e la crisi economica dell’industria culturale

Per quanto sia attuale la concezione dell’industria culturale anche all’inizio del XXI secolo, c’è oggi un’importante differenza rispetto al 1944. Allora si era ancora di fronte alla grande prosperità del dopoguerra. Nella transizione storica dall’epoca delle guerre mondiali alla breve epoca storica della produzione e del consumo di massa del fordismo, Adorno e Horkheimer non potevano percepire l’industria culturale in formazione dal punto di vista della crisi oggettiva o del limite interno storico del processo di valorizzazione. Il complesso dell’industria culturale che nebbiosamente si rivelava doveva apparirgli come una fatalità, come forma di controllo totale o autocontrollo e sottomissione della coscienza alla macchina del fine in sé capitalista.

Oggi invece l’industria culturale pienamente sviluppata si riproduce sotto il segno di un maturato limite obiettivo del capitale mondiale. La stessa Internet è del tutto parte integrante della tecnologia di crisi della terza rivoluzione industriale, i cui potenziali di valorizzazione conducono allo svuotamento della sostanza del valore. Anche in questo caso non è la tecnologia come tale che autonomamente avrebbe effetto sulle relazioni e sarebbe la vera ragione dalla loro trasformazione rivoluzionaria. La razionalizzazione, che conduce all’estinzione del fuoco del “lavoro astratto”, segue le sue stesse leggi; la liberazione dalla forza lavoro superflua costituisce il rovescio della moneta della sua sussunzione al capitale. Nel senso del feticismo sociale, “autonomo” è solo l’automovimento sciolto del “soggetto automatico” dal quale nasce la tecnologia di crisi in generale, la quale dà espressione all’autocontraddizione interna del sistema. Il capitalismo non si scontra con un limite tecnologico da esso indipendente, ma con il suo stesso limite (economico) interno. Nel complesso dell’industria culturale, questo limite generale del capitale emerge in una maniera specifica che indica allo stesso tempo il meccanismo di crisi e le sue forme di sviluppo.

La virtualizzazione culturalista della quotidianità corrisponde alla virtualizzazione economica del capitale. I due momenti non rappresentano alcun nuovo grado di sviluppo del modo di produzione e del modo di vita capitalista, ma il processo della loro desostanzializzazione e pertanto di loro reale autodistruzione. La desostanzializzazione del capitale attraverso la riduzione sproporzionata della forza lavoro regolare, l’unica che produce valore, ha creato la famigerata economia delle bolle finanziarie in cui il capitale è passato dall’accumulazione reale a un’accumulazione meramente simulativa. Questa rappresenta per così dire il proprio avatar economico nel mondo apparente del cielo finanziario scollegato. Ma lo spazio virtuale di Internet non si limita a riflettere in senso simbolico-culturale il capitale fittizio senza più la copertura della valorizzazione reale, ma appartiene anche a questo impero economico spirituale.

Internet, come complesso ibrido dell’industria culturale, non produce merci reali ma solo virtuali. Nemmeno produce un volume apprezzabile di prodotti immateriali intellettuali o artistici, che in forma di merce potrebbero partecipare della massa della sostanza sociale del valore, ma divulga soltanto elettronicamente tali contenuti associati a spese obiettive, in quanto i contenuti genuini emersi direttamente nel Net, sia oggettivamente che economicamente perlopiù senza valore, non contribuiscono alla massa di sostanza reale di valore né partecipano di essa, nella misura in cui rimangono “gratis” in questo modo falso.

Ora, se la pubblicità è determinante per l’industria culturale non solo quale forma d’espressione dell’estetica delle merci, ma anche come base finanziaria dell’economia del Net, questo fatto chiarisce allora il suo intreccio nella riproduzione capitalista. La pubblicità come settore secondario, a sua volta capitalisticamente improduttivo, che non porta alcun contributo alla massa di sostanza sociale reale del valore, rappresentando semmai una sottrazione da questo, può solo espandersi in una dimensione senza precedenti nella storia del capitalismo sulla base rigonfiata delle bolle finanziarie e dell’indebitamento emersi dagli anni ’80. Solo su questo sfondo è potuto nascere il complesso tecnologico-culturale di Internet nella sua attuale ampiezza. Servizi, possibilità di accesso o di presentazione e contenuti gratuiti messi a disposizione possono in termini capitalistici essere descritti solo come supporti della pubblicità. Quanto più l’industria culturale si sposta nello spazio virtuale, più precaria diventa questa dipendenza.

Allo stesso tempo questo spazio esige anche un poderoso e ben reale aggregato infrastrutturale di consumo energetico, cablaggio, batterie di server etc. che a sua volta grava come fattore di costi. Gran parte di queste attrezzature tecnologiche devono inoltre essere finanziate dalla pubblicità, o richiedono una parte delle loro entrate. Questo vale pure per i networks promossi o messi a disposizione dallo Stato, i cui incassi rappresentano di nuovo una sottrazione dalla massa sociale del valore; così come per le altre sue funzioni anche questa è sempre più finanziata a credito. Sia quella che sia la mediazione, il complesso dell’industria culturale virtualizzata è essenzialmente una creatura del capitale fittizio e delle sue diverse forme che nel loro insieme rappresentano un’anticipazione sempre più irreale della futura creazione reale di valore sempre più procrastinata. Il limite interno di tutta l’organizzazione diviene manifesto nella stessa misura in cui il sistema del credito eccessivamente esteso collassa, le catene del credito si rompono e si rivela la non-finanziabilità sociale della cultura del gratis virtuale. Il totale spostamento del problema al credito statale non cambia nulla al riguardo.

Quando dunque i presupposti economici nascosti coleranno a picco si mostrerà che la mentalità del gratuito degli “utenti” non costituiva affatto un’anteprima dell’abolizione della forma merce e della forma denaro. Si tratta piuttosto di una coscienza che spesso vive solo a credito e pensa perfino solo nel credito. Così come una riproduzione non-monetaria appare “senza costi” anche nel dispendio materiale e sociale in quanto “smaterializzazione” illusoria, così anche la propria esistenza virtualizzata appare essere qualcosa per cui non si paga, qualcosa i cui costi dovranno essere sostenuti da altri, soprattutto quando non si ha bisogno di sapere nulla a tal proposito. Il postmodernista ecologicamente illuminato è sempre a favore del bene e contro il male, fintantoché ha la corrente elettrica nella presa e fintantoché gli artisti hanno di che mangiare a un livello da gourmet, senza che le condizioni sociali di un lusso qualitativamente differente e realmente generalizzato divengano un problema serio. Il consumo futuro della sostanza del valore, lo spostamento dei crediti inesigibili altrove e la scomparsa tecnica del denaro reale dalla quotidianità prendono le sembianze di un “mondo senza denaro” che è diventato molto più abbordabile. Non si tratta della rivoluzione contro la “ricchezza astratta”, ma piuttosto di una condizione in cui ciascuno è la propria bad bank. Anche dal punto di vista politico-sociale, al posto di rivoluzionari appaiono procacciatori di occasioni digitali. Né è bene chiedere come reagirà la coscienza dell’industria culturale al collasso del suo mondo di illusioni e auto-illusioni.

Il cammino di esaurimento delle riserve culturali

Il limite e lo stallo economico corrispondono al limite e allo stallo culturale. In questa situazione la questione dell’innovazione nell’industria culturale e delle sue fonti deve essere messa da parte. Perfino come settore secondario e improduttivo del capitale, seppur economicamente alimentato dalla massa di sostanza sociale di valore, l’industria culturale è tanto astratta ed in sé indifferente ai contenuti quanto tutta la valorizzazione nel suo insieme. La completa indifferenza di fronte qualsiasi contenuto materiale, poiché il suo oggetto è il valore astratto, obbliga quindi a liquidare le risorse culturali che non coincidono immediatamente con il fine in sé della “ricchezza astratta”; esattamente come le risorse naturali, materiali e umane, che devono essere reclutate dall’accumulazione astratta come supporti il cui contenuto concreto è indifferente.

Durante il movimento storico ascendente del capitale atto a determinarne la sua forma trasversale e planetaria, emersero una cultura e un’arte genuinamente borghesi formatesi originariamente soprattutto come precoce opposizione capitalista e protocapitalista sul terreno di relazioni solo parzialmente sviluppate in senso capitalista. Così come la filosofia illuminista e la scienza di questo periodo, quest’arte e questa cultura erano un prodotto del capitalismo nella struttura e nel contenuto, ma solo nelle loro forme del pensare e del rappresentare, come mobilitazione ideologica e anticipazione ideale del valore, e non ancora come oggetto immediato della valorizzazione; si trattava del resto di un prodotto di lusso per i patrocinatori delle corti assolutiste o dei circoli privati, a questo scopo finanziato. Anche la sfera pubblica borghese fu un presupposto della trasformazione dell’industria culturale, principalmente come prototipo.

Solo in questo stadio intermedio “elevato”, contraddicendo la sua stessa logica anche se solo formalmente, la cultura borghese poté acquisire la sembianza di un contesto di riflessione determinato dai contenuti e dalla capacità di espressione con i celebri “momenti di eccesso”, in cui si riunì un fondo di vera “oggettività culturale” che era una riflesso dell’oggettività del valore, ma non ancora questa stessa, dal momento che aveva conquistato solo alcuni domini della riproduzione materiale. La coscienza della borghesia culturale volle sempre mantenersi in questo stadio intermedio e legarsi all’illusione di arte, scienza etc. “alte”, non corrotte dalla vile economizzazione, benché il modo di pensare, le forme di rappresentazione e i contenuti già affermassero quella logica che ridicolizza la pretesa autonomia dell’arte o della cultura e che presto avrebbe trovato la sua espressione simbolica nel “Quadrato Nero” di Malevich.

Oggi è evidente che l’industria culturale solo incipiente nel XX secolo ed evolutasi fino alla virtualizzazione della quotidianità nei limiti del capitalismo nel XXI secolo, non poté mai alimentarsi di contenuti a partire da se stessa, ma solo vampirizzando prima di tutto quelli del passato di una cultura e di un arte borghesi ancora non possedute dalla propria logica. L’avventura della storia dell’imposizione del capitalismo, le cui narrative e creazioni ancora non erano entrate nella valorizzazione (dal classicismo e romanticismo borghesi, passando per il realismo, fino al “classico moderno”) crearono l’apparenza di un contenuto culturale indipendente, ma si esaurirono nel raggio di pochi decenni. L’industria culturale non riuscì a creare più niente di nuovo a partire da sè. La sua creatività è consistita sempre nell’adattamento di materiale preesistente.

Ci fu però ancora una seconda ondata dalla quale la sete vampiresca dell’industria culturale poté dissetarsi. Furono le controculture e sottoculture dei movimenti sociali e dei milieus, orientati soggettivamente contro il capitalismo o contro le sue forme di manifestazione e che diedero espressione intellettuale e artistica all’esistenza emarginata, a forme di vita anticonformiste o alle devianze sociali. Queste culture o quantomeno sottoculture contestatarie costituirono il campo di riferimento per un’invocata contrapposizione “non commerciale” all’industria culturale. Di fatto, erano comunque troppo deboli nel loro potenziale sovversivo per essere in grado di costituirsi come una seria opposizione; in realtà soprattutto perché la loro critica si trattenne a una critica della forma,
limitata al fenomenico e socialmente particolare, senza arrivare ad includere l’universalità sociale. Così come la statualità capitalista riuscì sempre a catturare, adattare, distorcere e a recuperare come risorse politiche proprie le tendenze “politiche” emancipatorie a breve raggio (dal vecchio movimento operaio fino alla “nuova sinistra” del ’68), anche le culture della contestazione e le sottoculture “non commerciali” furono a breve o a lungo raggio trasformate in una risorsa dell’industria culturale.

Quel che si presentò come sovversione culturale e controcultura costituiva, in realtà, allo stesso modo della vecchia alta cultura borghese in un certo senso ancora esterna, una specie di riserva naturale per il capitale dell’industria culturale, riserva che venne periodicamente falciata o trinciata. Successivamente alla seconda guerra mondiale entrambe le risorse persero la loro relativa autonomia; l’alta cultura borghese semplicemente morì e potette ormai essere utilizzata solo come legna da ardere, mentre le sottoculture divennero sempre più vivai capitalistici. Così come nella sequenza della rivoluzione tecnologica e della globalizzazione tutti gli orizzonti si riducono, anche il processo di mutazione dell’industria culturale si accelera, dalle creazioni subcommerciali o protocommerciali fino alla scomparsa dell’oggetto.

Adorno e Horkheimer descrivono il vampirismo culturale solo tenendo conto della decadenza della vecchia alta cultura borghese e comunque con imprecisioni; ma la questione delle sottoculture rimase fuori dal loro orizzonte o fu immediatamente sussunta al concetto di industria culturale. A partire da questa lacuna nell'analisi si chiarisce parzialmente l’errore di giudizio negativo di Adorno sul jazz, le cui origini e qualità proprie furono ignorate. Adorno, in questo punto, condizionato in pieno dalle idiosincrasie di “buon gusto” della borghesia culturale classica, non volle vedere il jazz nella sua specificità anteriore all’industria culturale, ma solo un prodotto genuino della macchina culturale capitalista. Egli non vide che questa macchina necessita di un materiale non inerente a se stessa poiché riesce solo a dilaniare ciò che le viene portato. Il suo prodotto necessita della materia prima o semilavorata culturale che gli preesiste. Queste risorse non erano ancora completamente esaurite a metà del XX secolo.

Si potrebbe concedere che Adorno conoscesse solo o tenesse solo in mente il jazz già orientato all’industria culturale, per esempio le show band degli anni ’40. In questo senso Adorno in un certo modo finisce per avere ragione e soprattutto in quel che riguarda la previsione, che tuttavia non può riferirsi specificamente al jazz o alla musica pop. Si tratta delle creazioni culturali in generale, a prescindere dalla specialità e del livello artificiale. Insieme alla terza rivoluzione industriale come tecnologia di crisi universale e come conseguente processo di crisi globale, anche l’industria culturale ha raggiunto il suo limite storico. Il suo apice, che coincide con la totalizzazione dell’estetica delle merci, coincide anche con lo svuotamento delle sue risorse esterne. In un certo senso si può parlare di un’analogia con lo svuotamento delle riserve energetiche e con la distruzione delle basi naturali della vita, così come della crisi della relazione tra i sessi. Anche in questo senso il capitalismo distrugge i propri presupposti. Nella stessa misura in cui l’astrazione del valore segue la propria dinamica interna e completa davvero il programma della sua totalizzazione, dissolve non solo la sua sostanza lavoro, ma anche i suoi fondamenti naturali, sessuali e culturali, i quali si trasformano da presupposti muti in contraddizioni evidenti.

Il postmodernismo evidenzia involontariamente il limite culturale quando dissocia le attitudini della cultura contestataria e della sottocultura dal loro intento ideologico di “non commerciale” o “anticommerciale” e le sposta direttamente verso l’industria culturale, nella misura in cui vorrebbe scegliere per sé momenti presuntivamente sovversivi per acquistarli al supermercato o per il download in un’Internet sovvenzionata. Il contenuto di questa interpretazione è che, almeno negli effetti sociali, non si tratta più di creazioni relativamente autonome, ma solo di prodotti che sono a priori dell’industria culturale in quanto oggetti di “autovalorizzazione” e di possibile acquisto. La “sovversione”, che ovviamente non esiste più, deve essere trasferita verso il modus del semplice consumo di merci (fosse anche ovviamente una merce “gratuita”).

A questa ideologia di un consumo “creativo” o anche “critico” si accompagna il completo rifiuto di prendere come fuoco della critica la forma merce come tale (con il che il postmodernismo nel suo insieme regredisce dietro il marxismo del movimento operaio, invece di trascenderlo). Il problema non risiede più nel fatto che la forma merce come male necessario si aggrappa anche i contenuti della sua critica, in modo tale che la forma merce possa essere articolata in generale e riprodotta nei suoi presupposti materiali, ma piuttosto che il carattere di merce è accettato o ignorato e il contenuto è positivizzato come contenuto della valorizzazione, anche se solo in senso solo simbolico.

Ma se la “creatività” ormai consiste solo nel tipo e nella combinazione del consumo di merci,
ciò allora conduce a una crisi del valore d’uso, perché non esiste più alcun rifornimento di contenuti. Dopo la morte della vecchia alta cultura borghese la sottocultura subisce lo stesso destino. Ormai ci sono solo pseudo-sottoculture, a questo punto orientate all’industria culturale. Anche la più stupida banda di teen ager ormai aspira sin da subito al successo commerciale o perlomeno al capitale culturale per “apparire” nell'hit parade, e dà fondamentalmente più valore all'“aspetto” che al contenuto innovatore che non possiede. Questo vale per ogni settore culturale, eccezioni a parte. Così come la sostanza del valore è solo simulata, visto che avviene un riciclaggio del denaro a partire dalle bolle finanziarie, anche l’industria culturale vive solo del riciclaggio di vecchi contenuti successivamente riadattati, finché non soffoca nell’insipidità dell’eterno riscaldato. Questa situazione diventa sempre più esplicitamente quella barbarie di cui parla il capitolo del L’Industria Culturale.

Il mondo non è un accessorio. Perché è impossibile una “rivoluzione culturale” separata

Il cerchio della riflessione critica si chiude se torniamo alla complementarità polare tra la pseudo-critica elitaria culturalmente pessimista e l’affermazione postmoderna della superficialità. La superficie è il mondo dei fenomeni immediati; culturale è il vestiario, il design, il guardaroba. Se la borghesia culturale denuncia pubblicamente la superficialità, essa si riferisce solo al vestiario immediatamente apparente, alle forme di presentazione e manifestazione assurde o provocatorie. La scorta residua della coscienza culturale elevata, anche se possiede un quadro di Kandinskij appeso alla parete, in un aspetto non è così tanto lontana dal filisteo piccolo borghese arricchito e bevitore di birra a cui piace mostrare liberamente il proprio disgusto per l’”arte degenerata”, la “musica negra” e il movimento pop “americano”. L'ostilità di entrambi non è diretta tanto alla superficialità in sé, ma solo ad “erronei” vestiti e suoni, metafore di un design sociale che si rifiuta. Dietro ciò giace la paura per lo straniero, il perdente o le “classi pericolose”.

Anche se il culturalismo postmoderno coltiva e romanticizza proprio fenomeni e forme di espressione aborrite dai vecchi filistei culturali, comunque solo come accessori, arbitrariamente e senza contenuto, esso rimane alla stessa struttura di percezione e costituisce una coscienza di classe media, soltanto da una
posizione differente. La contesa in questo campo non supera la noia e gli interventi sono fin troppo prevedibili. Tutto ciò di cui si avrebbe bisogno per diventare chic è appendere “avanguardisticamente” alla parete, con effetto sorpresa, la famigerata testa di un cervo ruggente; presto le gallerie d'arte ne saranno piene, da New York a Berlino. Il riciclaggio che l’industria culturale fa di tutte le forme d’espressione cancella com’è noto anche la differenza tra arte e kitsch. In fin dei conti tutto cominciò già con le presentazioni dadaiste dell’insensato come oggetto d’arte; quel che fu considerato come motivo di irrisione è trattato da molto tempo con serietà accademica come problema di storia dell’arte.

Con questo non si vuole negare che l’”espressione” abituale debba trovare una forma nella società, nell’universo vitale e nella cultura quotidiana. Ogni formazione storica si è espressa artisticamente, anche se non esisteva una sfera isolata dell’arte; gli individui decorano gli spazi dove vivono e si presentano con i loro abiti etc.. Queste molteplici forme di espressione a diversi livelli non sono mai puramente individuali, ma determinate dalla rispettiva società, dalle sue contraddizioni e dal suo sviluppo. Per quel che riguarda il modo di produzione e di vita capitalista, tuttavia, è necessario tener presente che sono stati il vuoto e l’indifferenza quanto ai contenuti, che sono inerenti ai suoi meccanismi quanto lo svuotamento e il prosciugamento culturale, che hanno finito per essere realizzati dalla sua dinamica specifica, che hanno portato al dominio e all’autonomizzazione grottesca dell’esteriore. Così come la forma astratta della merce si autonomizza di fronte al contenuto concreto, degradando questo alla sua mera “forma di manifestazione”, così accade analogamente al già menzionato capovolgimento tra contenuti culturali e intellettuali e la loro “forma di presentazione” esteriore.

Questo vale anche per la cosiddetta cultura quotidiana, che si è sviluppata fino a quella che Marx indicò come “religione del quotidiano”; tuttavia ben oltre il carattere ideologico indicato da Marx. Non si tratta più di mere “opinioni” e interpretazioni ideologiche del mondo, ma di forme di espressione e di auto-interpretazioni concepite esistenzialmente. Il “puro nulla” deve presentarsi sotto un mantello nelle sue relazioni con i propri simili e deve ostentare il suo outfit in senso lato. Il tanto invocato pluralismo degli stili di vita è completamente uniforme in quel che riguarda il suo carattere come mezzo di guadagno di distinzione, situazione in cui la pluralità si dissolve nuovamente in un “mainstream”; seppur appaia correre in diverse direzioni.

La questione decisiva qui è che anche i più semplici ornamenti esteriori di per sé abbastanza irrilevanti sono caricati con formalità arbitrarie e “questioni di gusto” dall’importanza esagerata. Il fatto che nessuno possa sfuggire alle tendenze sociali che operano su questo piano, se non al prezzo della pura commedia, non rappresenta nulla di essenziale. Così abbiamo indossato negli ultimi quarant’anni, non la toga ma i jeans; anche se non gli stessi, poiché l’usura del materiale ci obbliga a sprecare tempo per l’acquisto di altri pantaloni. Se i jeans e i capelli lunghi dei giovani o la musica rock furono considerati come il segno della contestazione giovanile, è da molto tempo che si è dimostrata l’innocuità e il carattere affermativo di questa pseudorivolta. Essa divenne solo una moda generale dei pantaloni da cui anche i più anziani furono sopraffatti. Naturalmente tali fenomeni si ripetono
in un modo o in un altro a ogni generazione in fase di pubertà. La novità è nel fatto che hanno assunto una rilevanza sociale generalizzata.

Devo comprare pantaloni che possano andar bene a un elefante in modo che nessuno veda che ho un sedere grosso? O un paio di pantaloni che blocchino la circolazione sanguigna così che tutti possano vedere che non ho un sedere grosso? Tali alternative esistenziali nei nostri tempi postmoderni ormai non sono limitate ai giovani sotto i quindici anni, ma entrano nella categoria di quasi ideologie politiche. Che gli individui sviluppino preferenze nel vestiario, nel mangiare e nel bere, nel sesso, nella sensibilità corporale o nell’arredamento di casa non costituisce più una questione naturale e innocente. Se tatuaggi o piercing, cucina vegetariana o vegan e cose di questo tipo si trasformano in una specie di visione del mondo, per mezzo della quale gli individui si distinguono o si riconoscono come appartenenti a una determinata cerchia, come prima con le insegne di partito, allora questo indica il carattere dell’ideologia dello stile quale procedura di sostituzione con il quale si cerca di sostituire il vuoto sociale e ideale.

Tali procedure di sostituzione simbolica e della cultura quotidiana stanno diventando sempre più importanti per l’amministrazione della crisi e le sue ideologie di disciplinamento. Le campagne contro i fumatori che includono m
isure amministrative al divieto o la denuncia delle abitudini alimentari “non sane” dei ceti più poveri non ha nulla a che vedere con la preoccupazione per il benessere. Piuttosto è che così si devia l’attenzione dalle disuguaglianze sociali, dalla povertà, dagli abusi sociali e dallo stress del lavoro verso il figurativo, verso la “performance” personale, come se il problema fosse solo di mutazioni sul piano delle abitudini o degli atteggiamenti culturali quotidiani che non avrebbero niente a che vedere con una relazione sociale coercitiva. Tale ideologia dell’amministrazione degli esseri umani può essere sicuramente indirizzata alle anime omologate delle personalità dedite alla vuota auto-messa in scena, le quali cercano di realizzarsi nel culto della superficialità e che si rendono sempre più permeabili ai meccanismi di disciplinamento tanto più questi si presentano come offerta di design.

Il culturalismo postmoderno e la sua iperaccentuazione dell’apparenza ha già avuto un precedente storico sotto un duplice aspetto. Filosoficamente, si tratta della corrente irrazionalista del pensiero borghese, a partire dalla svolta anti-hegeliana nel XIX secolo, che va dalla filosofia vitalista fino all’esistenzialismo. E’ il controprogramma borghese formulato da Nietzsche e Heidegger, contro Marx e Adorno, che anche la sinistra postmoderna considera come suoi riferimenti principali. Collegato ad esso, c'è stato sempre un atteggiamento o un modo di percezione conosciuto con il nome di “estetizzazione”. L’orrore della guerra e della distruzione, il terrore della normalità, la sofferenza e la miseria divengono “belle immagini”, viscere e pance gonfiate dalla fame o ferite purulente diventano opere d’arte. L’”estetica del terrore”, da Walter Benjamin definita come fascismo soggettivo, costituisce il precedente ed è segretamente parte integrante della svolta culturalista postmoderna contro la critica del capitalismo contenutistica, sociale e categoriale.

Anche la messa in scena de “l’arrivo di Hitler”, messa in opera da Leni Riefenstahl nell’estetica cinematografica al congresso del partito del Reich, con la raffigurazione di masse serrate nei ranghi, appartiene a questo programma. L’individualizzazione postmoderna di questa forma non cambia nulla nell’essenza della cosa; e può in ogni momento sfociare in sordi tumulti collettivi, come dimostra il mobbing digitale. L’indifferenza di fronte al contenuto nella sua acutizzazione postmoderna dà luogo ad un programma estetizzante ancora più profondo di quello dell’inizio del XX secolo, che non è neanche percepito come tale poiché rappresenta un senso generale della vita.

Questa estetizzazione militante, che ora fa della forma del design pubblicitario una matrice totalitaria, è un’arma molto più efficace contro la critica radicale delle semplici costruzioni del pensiero dell’ideologia. Non si tratta della cosa in sé ma dello stile. Al posto della critica spuntano trattati del tipo “come impoverire con stile”. Lo styling non riconosce altro criterio di verità oltre il numero di commenti “mi piace” nel Net. E quel che è pubblicizzato è quel che è apprezzato come outfit. L’oggettività negativa deve essere occultata da un “soggettivismo estetico”; al posto della rivoluzione sociale spunta la pseudo-rivoluzione senza dolore del “sembrar bello” – l’estetizzazione dell’esistenza di tutti e di ciascuno. Sono estetizzate non solo la guerra e le atrocità, ma anche la crisi, la nuova povertà e la catastrofe ambientale. Si tratta al tempo stesso di un’estetizzazione della verità che corrisponde al paradossale “realtivismo assoluto” del postmodernismo.

L’ideologia dell’estetizzazione divenuta forma di vita reale non deve essere confusa con l’estetica in sé. La questione non è se ogni contenuto possa trovare la sua adeguata forma d’espressione o di esposizione, per la quale si possono sviluppare criteri. E’ invece la forma estetica che si autonomizza a detrimento del contenuto e degrada questo alla sua forma di manifestazione accidentale e non essenziale. E’ in questo rovesciamento, stabilito e compiuto dalla forma totalitaria della merce nell’arte e nella cultura, che consiste il programma dell’estetizzazione.

Si tratta di un processo storico che culmina con l’estetica delle merci dopo la seconda guerra mondiale e che può solo portare, come “mancanza barbarica” in quanto qualità del mercato mondiale, a una nuova estetizzazione della politica essa stessa da tempo oggetto di derealizzazione. Il terrore è ora molto più agghiacciante di prima dal momento che manifesta tutti i tratti della stupidità. E’ stato proprio il nuovo centro, verde, socialdemocratico e social-ecologico, che non solo ha stretto il laccio emostatico dell’amministrazione della crisi e ha messo in atto l’Hartz IV, ma allo stesso tempo ha condotto freneticamente il suo “marketing” democratico come pantomima del design pubblicitario. Non è un caso che siano stati i quadri e i sedicenti “rivoluzionari della cultura” della vecchia sinistra del ’68 a produrre tale sviluppo. Essi già allora assunsero precocemente il postmodernismo di sinistra e oggi ne mostrano il futuro, benché non si ottengano più cariche ministeriali ma semplicemente mandati da parte del “partito dei pirati”. L’attuale generazione dei figli e dei nipoti del “nuovo centro” ormai invecchiato non necessita di alcun passato radicale di sinistra per il design della sua entrata in scena.

La metamorfosi delle vecchie messe in scena che ben presto permisero ai rappresentanti comunali e ai combattenti in strada di maturare come uomini di Stato, involontariamente
mostra che non ci può essere una “rivoluzione culturale” autonoma nel senso di una semplice rivoluzione dell’atteggiamento, dell'outfit, della “modalità del discorso”, dello “stile di pensiero” e del quotidiano, o dell’acconciatura, del consumo anche alimentare etc.. Se la generazione politicamente cresciuta col risveglio del ‘68 si permette una modernizzazione e una democratizzazione “culturale rivoluzionaria” della RFT, in quanto mancò come rivoluzionaria, ciò dimostra che lo pseudo-radicalismo performativo produce solo culture di protesta fiacche e superficiali che servono a superare la pubertà e anche per “rivoluzionare” il capitalismo stesso e il suo stile di management. Una bohème della classe media che si autorappresenta come arte del quotidiano, sperimentalismo sessuale e rivolta permanente ha sempre interpretato questo ruolo. Questa “rivoluzione culturale” in tal modo limitata della nuova sinistra è stata tuttavia l’ultima della sua specie poiché non c'è più nulla da rivoluzionare in termini economici e culturali a causa della mancanza di sostanza reale di valore e il convoglio della sinistra pop postmoderna ormai da tempo è uscito dai binari.

Si avrà
in futuro una “rivoluzione culturale”  solo se sarà allo stesso tempo espressione di un movimento sociale rivoluzionario con effettivo potere di intervento, piuttosto che caratterizzato da performance meramente simboliche. Un movimento di questo tipo attualmente non esiste e quindi neanche può svilupparsi alcuna estetica della critica, ma solo una critica dell'estetica dominante, in quanto critica dell’industria culturale. Non si può indossare un vestito senza un corpo per esso. Il culto postmoderno della superficialità, nel suo atteggiamento di critica apparente a cui gli stessi protagonisti non credono, è tanto senza sostanza quanto la valorizzazione virtualizzata del capitale nella postmodernità. La condizione per una nuova integrazione del movimento sociale con il movimento culturale rivoluzionario è che penetri nella coscienza di massa una nuova critica radicale del contesto della forma feticista, cosa di cui la sinistra non vuole saper nulla.

Il servizio che il culturalismo ideologico può ancora offrire al capitale è unicamente ed esclusivamente l’indebolimento interno della stessa critica categoriale. Poiché questa corre il rischio di trasformarsi in un oggetto puramente estetico attraverso la ricezione parziale dell'apparentemente benvenuta critica del “lavoro”, del valore e della dissociazione sessuale, ossia in un ornamento effimero dell’auto-messa in scena, presentata senza alcun tipo di coinvolgimento. La totalizzazione del design pubblicitario si accompagna alla sussunzione generale di tutti i contenuti alla corrente cieca dello spirito del tempo e della moda. Non è questione solo di vestiti alla moda, ma anche di delitti alla moda, di malesseri alla moda e di ideologie alla moda, fino alle indecenze alla moda. Proprio la sinistra postmoderna sta diffondendo
ovunque le sue volgari massime  attraverso il suo paesino intellettuale di provincia. Per questo le personalità sociali postmoderne sono per principio persone inaffidabili; non possiamo aspettarci da loro alcuna posizione salda e coerente, nemmeno in relazione alla critica categoriale, per quanto essi presumano di appropriarsene.

Proprio come il vecchio patriarca verde del ‘68 Joschka Fischer periodicamente espande il perimetro della sua pinguedine e poi lo restringe ancora come una fisarmonica, trasformandosi da obeso in maratoneta e viceversa, così anche gli strateghi individualizzati dell’immagine trasformano periodicamente il loro comportamento, i loro atteggiamenti e le loro convinzioni senza alcuna coerenza interna. Ognuno sa che ogni contenuto che emerge sarà prima o poi rimosso. Periodi interi della vita appassiscono nel giro di un’estate, o anche in quello di una serata; tutte le relazioni si dissolvono già quasi prima di cominciare. Vale lo slogan di Berlusconi: “Sono stato molte volte sincero”. Dal momento che il puro nulla non può rimanere insieme al puro nulla, egli non impara nulla, neanche la propria madrelingua. Il cittadino del mondo postmoderno non parla bene il tedesco, né può parlare bene l’inglese; non sa bene nulla, ma ha già provato tutto una volta o l’altra.

Come antidoto a questa sgradevole situazione si raccomanda un completo rifiuto senza compromesso dell’estetizzazione e della moda, il che implica una critica radicale del culturalismo postmoderno. Al contenuto deve essere riconsegnato il suo diritto prioritario. Ciò vale tanto riguardo alla critica superficiale della superficialità effettuata dal residuo della coscienza della borghesia culturale quanto riguardo allo speculare polo opposto postmoderno. Il mondo non è un accessorio; il culto della superficialità deve essere coperto di vergogna e maledetto. L’industria culturale non può essere abolita da un’iperaffermazione postmoderna della sinistra, ma solo attraverso la svalorizzazione militante del mero design in qualsiasi senso. Le pubblicazioni della critica radicale dovrebbero a volte incoraggiare i testi pesanti e nelle questioni di immagine la semplicità cosciente.

Non possiamo riferirci al capitolo de L’Industria Culturale della Dialettica dell’Illuminismo senza rotture, ma la ricezione critica della concezione ivi sviluppata rimane indispensabile. Il postmodernismo, che si è considerato al di sopra di queste cose, non ha più nulla da dire nel mondo della crisi del XXI secolo. Resta la speranza che si appresti a sollevarsi una generazione che dica in tutta simpatia agli ideologi pop appassionati alla propria carriera giovanile che sono ora loro i vecchi insopportabilmente noiosi di ieri e che è arrivato il tempo di sottoporli a un’interruzione della loro trasmissione.



Originale: KULTURINDUSTRIE IM 21. JAHRHUNDERT. Zur Aktualität des Konzepts von Adorno und Horkheimer in revista EXIT! Krise und Kritik der Warengesellschaft, 9 (03/2012) 

traduzione by lpz



Citazioni da La Dialettica dell'Illuminismo

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