martedì 27 ottobre 2015

Perché l’anarchismo non rappresenta alcuna alternativa



La critica non-concettuale dello Stato di Bakunin & c. 


[Estratto da “Non c’è Leviatano che vi salvi”; 2011]




L’evidenza di contraddizioni e carenze riguardo la teoria dello Stato in Marx ed Engels porta inevitabilmente alla memoria l’anarchismo, l’eterno rivale della dottrina marxista nella critica sociale radicale. Ogni bambino sa che il pensiero anarchico pone come questione centrale quella del rifiuto per principio di ogni e qualsiasi statalità. Questa è anche la ragione per cui i rampolli dei genitori marxisti della classe media attraversano frequentemente una fase anarchica, per far sentire una protesta contro la soddisfazione ideologica dei loro genitori, che può entrare in frizione molto facilmente (e con piena giustificazione) contro il conformismo civico borghese in cui caddero molti prima e dopo il ’68, come clientela democratica rosso-verde. L’animosità anarchica contro lo Stato può costituire un appropriato emblema provocatorio, con l’obiettivo di permettere che il conflitto generazionale si apra nel focolare dei sentimenti borghesi di sinistra. La questione, tuttavia, è sapere se così si può esigere una supremazia teorica che permetta di fatto il superamento delle carenze della critica dello Stato, indipendentemente dalla motivazione edipica. 

A prima vista la dottrina anarchica sembra più logica della teoria di Marx nella negazione della statalità, quantomeno nel proposito. Ovviamente, per quanto ben intenzionato sia il proposito, non vale niente se ad esso non corrisponde un contesto di fondazione sufficiente che permetta di dargli compimento. Può facilmente affermarsi un impulso antistatale legato visceralmente e superficialmente a manifestazioni ed esperienze negative (repressione, burocrazia, autoritarismo etc.), senza con ciò raggiungere un concetto della cosa, la quale viene negata in modo meramente astratto. Per evitare malintesi: l’opposto della negazione astratta non è un’affermazione concreta pseudo-dialettica, che avrebbe “superato” positivamente (come in Hegel) quella negazione astratta, ma piuttosto una negazione concreta che penetri la cosa in sé, l’unica che sarà davvero annichilente. In questo senso è doveroso mettere sulla bilancia l’antistatalismo anarchico. A tal fine si può prendere come esempio l’opera principale di Bakunin, Stato e anarchia (1873), che spesso è più conosciuta per il titolo che per essere stata effettivamente letta.

L’argomentazione di Bakunin sorprende immediatamente per consistere soprattutto in esposizioni ridondanti e congetture sulla politica quotidiana, sulle strategie e sui personaggi più o meno sordidi delle potenze europee del diciannovesimo secolo. Si tratta soprattutto di una miscela di volgare “psicologia etnica”, di supposizioni sui diversi avvenimenti politici, così come di pettegolezzi e intrighi nelle associazioni e nei circoli di immigrati dalle città capitali. Invano si cerca una definizione concettuale e un’analisi della statalità; si trovano solo asserzioni non-concettuali, invettive e dichiarazioni retoriche. Bakunin è ovviamente tutto meno che un teorico, è piuttosto un “politico da caffè”, come Marx lo considerava. Tanto più patetico per l’anarchismo che sia considerato uno dei suoi più importanti rappresentanti nella critica dello Stato. Ci vuole più di  qualche sforzo per riuscire a leggere in tutto “Stato e anarchia” qualcosa di simile a un ragionamento fondato.

La grande questione di una teoria critica dello Stato, la relazione tra capitale e statalità, non può essere seriamente posta da Bakunin nemmeno dai suoi presupposti, perché ormai il concetto di capitale è sotterraneo. Per lui la “formazione del capitale”, che non è oggetto di qualsiasi ulteriore definizione, consiste essenzialmente nella “speculazione bancaria”, e “questo non significa se non il trionfo del dominio giudaico (?), dell’alta finanza, con il potente appoggio del potere finanziario, amministrativo e poliziesco”. Per questa “formazione del capitale” sotto forma di “speculazione bancaria, la quale in ultima istanza divora la stessa formazione del capitale”, secondo Bakunin “si rende necessaria la centralizzazione violenta attraverso lo Stato… per il suo ulteriore e completo sviluppo”. La statalità, pertanto, deve consister da subito nel garantire il “dominio giudaico” degli speculatori bancari, che sono considerati i veri rappresentanti del capitale. 

In realtà già basta verificare questa definizione antisemita del capitale e della statalità per rendere definitivamente impossibile la presa in considerazione della critica anarchica dello Stato. Questa sentenza può essere pronunciata con coscienza tanto più tranquilla dal momento che lo stesso secondo padre fondatore dell’anarchismo, Pierre Joseph Proudhon, riduce il suo concetto di capitale al capitale che rende interessi, cioè alla statalità, considerata la sua pretesa di potere, e prova a descrivere come contro-programma una celebrazione (“cooperativa”) post-statale della forma merce, con una “moneta del lavoro”. Anche nel caso di Proudhon sarebbe un eufemismo parlare di “critica riduttiva del capitalismo”, considerato che, tale e quale a Bakunin, si perde in invettive antisemite. Al contrario di Marx, in entrambi i casi non si tratta della strumentalizzazione metaforica parziale di stereotipi antiebraici (come in La questione ebraica), ma piuttosto di essenziali segni strutturali di una visione del mondo nel suo complesso antisemita.

Il secondo piano concettuale di Bakunin riguardo lo stato, sorge nel significato di “psicologia etnica”, in quanto stato di spirito “pangermanico”, perché l’orientamento statale sarebbe inerente “al sangue tedesco, all’istinto tedesco”. La giusta critica dello sviluppo storico in Germania, dove si formò una convinzione profondamente radicata nell’autorità dello Stato nel contesto della ragion di Stato assolutista dopo la fine sanguinosa delle rivolte contadine protomoderne, in Bakunin non solo viene mistificata come “istinto del sangue” (seguendo qui la stessa “ideologia tedesca”, semplicemente in una versione negativa), ma allo stesso tempo amalgamata con il concetto di Stato in generale. 

Di conseguenza Bakunin ricerca il polo contrario antistatalista in rapporto alla “psicologia etnica” o “di sangue” e lo trova nelle regioni del suo paese natale. Gli “slavi” sarebbero “dominati da passioni completamente opposte”, “non avrebbero mai creato uno Stato di loro iniziativa”, sono sempre stati “un popolo di contadini amanti della pace”. Al contrario dei “pangermanisti”, essi dovrebbero “cercare la liberazione fuori dallo Stato”. Mentre Bakunin dichiara che non si tratta di “panslavismo” ma semmai di “fratellanza dei poveri” generalizzata, ciononostante cristallizza la polarizzazione astratta tra statalismo e antistatalismo in una lotta finale tra la mentalità “germanica” e quella “slava”.

Come coronamento di questo costrutto non-concettuale, in Bakunin statalità, pangermanesimo e “dominio giudaico” si fondono in un complesso globale; tedeschi ed ebrei sono designati in blocco come immagine del nemico. L’atmosfera del pogrom antisemita in Russia e negli altri paesi europei, ideologicamente accettata apertamente da Bakunin, gli offusca ciò che molto meno di Marx riesce a percepire del contenuto profondamente antisemita dell’Ideologia tedesca”, in modo tale che egli stesso consuma incoscientemente una solidarietà con l’odiato “pangermanismo”.

In tutte queste esposizioni destrutturate di Bakunin non si arriva a scoprire che poco o nulla sulla relazione tra statalità e capitale. Di tanto in tanto si suggerisce ulteriormente che talvolta una classe statale burocratica in associazione (male spiegata) con i banchieri ebrei potrebbe sviluppare un proprio interesse di dominio. Ebrei, tedeschi, borghesia, speculatori, agenti di Stato, teste incoronate: per Bakunin tutto ciò è più o meno la stessa “casta di sfruttatori”. Così, la pomposamente proclamata “annichilazione di tutto quello che si chiama Stato” comprende come obiettivo secco e astratto nulla più che un’”autonomia economica”, ignorando completamente qualsiasi determinazione critica della forma, ma soprattutto l’idea di fondo della democrazia volgare di una “completa organizzazione federativa diretta dal basso verso l’alto”.

Di fatto tutto il programma si riduce a una misera contrapposizione entro le strutture sociali “dall’alto verso il basso” (potere borghese) e “dal basso verso l’alto” (potere popolare). L’illusione della “democrazia di base”, rimasticata fino a oggi e fino alla nausea, che astrae conseguentemente dalla forma feticista e presuppone un concetto di dominio meramente esteriore, ha qui la sua origine, senza tuttavia voler saper nulla delle implicazioni nazionaliste e antisemite. 

Proprio come nel caso dei fratelli nemici del marxismo del movimento operaio, anche nel pensiero di Bakunin, Proudhon & c. è l’eterno “lavoro” da realizzare “collettivamente” che è presupposto ciecamente come forma fondamentale di una federazione post-statale di comunità di base. Il fondamento di questo “mondo dell’uomo lavoratore libero” è tuttavia ancora peggio, poiché la “liberazione del lavoro” secondo Bakunin, anticipando la fraseologia della filosofia della vita, deve rendere possibile “il potente flusso della vita popolare”, “per dunque creare le nuove forme di una società libera a partire dal fondo dell’essere di un popolo”. Oggi abbiamo di nuova negli esponenti di un post-operaismo teoricamente disarmato lo stesso sussurro esistenzialista/della filosofia della vita, che d’altra parte entrò anche nel pensiero fascista, e che sostituì i concetti con le canzoni. 

Come se non bastasse, anche in Bakunin l’antistatalismo astratto è accompagnato da una fondamentale ostilità per la teoria. La liberazione dalla statalità per mezzo della “democrazia di base” non deve trovare il proprio fondamento in “una qualche teoria erudita”, con la quale Bakunin non vuole avere a che fare, “ma piuttosto a seguito di uno sviluppo completamente naturale (!) delle necessità di ogni tipo che risultano dalla vita stessa (!)”. Da queste sarebbero stati purtroppo fuorviati i lavoratori tedeschi a causa di “leader di tendenza letteraria ed ebraicizzante”. Dal momento che l’”obiettivo principale” di Marx e Lassalle, così come di Bismark, sarebbe lo Stato (vale a dire lo Stato ebraico pangermanico), l’ebreo Marx avrebbe cercato di affermarsi insieme ad altri “letterati ebrei” come capo di Stato e “dittatore tedesco”, per sottomettere e sfruttare signorilmente le masse popolari attraverso “una minoranza privilegiata” di intellettuali. 

E’ evidente che una “critica dello Stato” tanto orripilante non è per nulla appropriata per penetrare e rivedere criticamente le contraddizioni della teoria dello Stato di Marx ed Engels. Per far questo mancano le determinazioni concettuali elementari, qui sostituite da turpi attacchi ideologici. Quel che appare come antistatalismo in Bakunin (così come in altri esponenti dell’anarchismo) regredisce molto indietro rispetto alle formulazioni di critica dello Stato e della politica nella polemica del giovane Marx con la filosofia dello Stato e del diritto di Hegel. Per il pensiero anarchico, la mediazione di questa critica della statalità con la critica dell’economia politica e delle sue categorie non è solo una conseguenza non realizzata, come in Marx, ma semmai un’impossibilità logica. 


taduzione by lpz