Il cammino della società senza riflessione
Non è affatto ovvio che una
società rifletta “su” sé stessa. Questo è possibile solo quando una società può
confrontarsi criticamente con altre società del passato e del presente, ma
soprattutto in situazioni nelle quali una società diventa discutibile tanto dall’interno
che dall’esterno, contenendo una contraddizione che, nella sua struttura ed
evoluzione, punti al di là di essa.
Questo certamente non vale per
tutte le società premoderne. Queste società non erano ancora planetarie, non
possedevano coscienza storica né disponevano della storia come una serie di
processi di evoluzione e di formazioni economico-sociali. E tanto meno si
trovavano in conflitto con sé stesse, con la loro stessa forma. Una dinastia
poteva sostituirne un’altra, ma la forma sociale come tale non poteva essere
messa in discussione; per poterlo fare non c’erano criteri. Tali società erano
capaci di riprodursi per periodi incredibilmente lunghi (nel caso dell’antico
Egitto per vari millenni) senza sgretolarsi dall’interno; il loro declino era
semmai condizionato principalmente da cause esterne.
Sulla base di tali presupposti, la
società appariva sempre come “società in generale”, non come una forma specifica che avrebbe potuto anche
essere diversa. E anche quando nell’antichità nacque, relativamente tardi, la
riflessione sulle varie “forme di governo” (monarchia, oligarchia, democrazia,
tirannia), questa distinzione rimase indifferente ai corpi economico-sociali
della società; essa non appariva dunque, per esempio, come una storia evolutiva
lineare della società stessa, ma come un eterno ciclo di forme del dominio
meramente estrinseche che sorgevano le une separate dalle altre. Lo stesso vale
per l’idea dello “Stato ideale” (Platone), che rappresentava solo una figura
idealizzata della società già esistente, concepita come insuperabile.
Tuttavia, queste civiltà agrarie
premoderne non si riducevano ciecamente al loro “funzionamento”; in effetti non
mancarono di produrre una riflessione che superava il loro esistere immediato. Ma
questa riflessione non consisteva in una “critica sociale”, ma piuttosto era una
riflessione “direttamente sugli Dei” o sull’universo, sulla posizione dell’uomo
nel cosmo, sul mistero della morte. Era dunque necessariamente una riflessione
in forma religiosa e con contenuti religiosi. Questa sorta di pensiero “su” sé
stesso, benché come pensiero dell’uomo e della sua società non rivolto a sé
stessi, ma agli Dei e al cosmo, rimase vincolato alla sottostante struttura
socioeconomica acriticamente presupposta. Infatti, nonostante la sua
indiscutibilità, questa struttura non era “muta” nella sua cieca positività, ma
completamente legittimata dalla riflessione; tuttavia non come oggetto in sé,
ma in quanto componente secondaria dell’ordine divino dell’universo.
Riflessione religiosa, studio
della natura e relazioni economico-sociali costituivano dunque un’unità
indissolubile rappresentata e riprodotta in forme rituali, tanto nel pensiero
quanto nelle attività e nelle relazioni sociali. Perciò, nei tempi remoti,
l’intelligenza funzionale e l’intelligenza riflessiva (o, in termini
sociologici, le élites funzionali e le élites di riflessione) erano
immediatamente identiche (dio-re, monarchi-sacerdoti). Solo relativamente tardi,
funzione e riflessione si separarono in sfere distinte.
Si insediò così il germe di un
conflitto che al principio, comunque, si manifestò solo sporadicamente (per esempio
nella “lotta delle investiture" tra l’imperatore e il papa nell’Età Media)
senza travalicare una disputa sulle competenze dei poteri superiori all’interno
di un ordine universalmente condiviso.
Nella misura in cui il pensiero
riflessivo in queste società si affrancava dai severi rituali religiosi (quali
quelli della filosofia antica e medievale), si rivolgeva direttamente alla
natura - in origine, del resto, la scienza naturale era parte integrante della
filosofia – o all’essere umano come un essere “semi-naturale”. Dal momento che
la forma sociale e l’ordine sociale non potevano, come tali, essere messi in
discussione, la riflessione “su” l’uomo sociale si limitava a due temi. In primo
luogo l’”etica”, la dottrina delle “virtù” e della condotta moralmente corretta
che fornirebbero all’uomo un modello di comportamento, senza discutere
criticamente i “fondamenti ultimi” della società. Per questa metafisica, il
nesso tra le sue nozioni normative e le forme economico-sociali rimase oscuro;
essa vide sempre l’uomo isolato, chiaramente non ancora l’individuo astratto,
ma l’uomo nella sua determinazione socialmente “pietrificata” - in fondo si
trattava di una riflessione
dedicata esclusivamente agli “uomini di potere”: il destinatario (e
dunque “l’uomo”) era di solito il pater familias proprietario terriero.
In secondo luogo, la riflessione
filosofica con gli stessi destinatari sviluppò, al lato dell’”etica”, una
dottrina della “buona vita”, della “felicità” dell’uomo dentro un ordine
presupposto senza discussione. Questa filosofia dell’”arte di vivere” si
occupava, per esempio, delle diverse forme di piacere, come la relazione tra
piacere e astinenza (Diogene!) etc; e, in ultima analisi, di ciò che costituisce
una “vita di successo”. Questo aspetto della filosofia antica prevedeva
un’”estetizzazione” dell’esistenza, il cui nesso con le relazioni
economico-sociali rimaneva tanto oscuro come nell’”etica” metafisica. Diventare
a sé stessi, alla propria vita, un’opera d’arte, senza abbracciare con lo
sguardo l’insieme della società e, allo stesso tempo, seguire quanto più possibile
una dottrina normativa del comportamento: a questo si riduceva il carattere
sociale di questo pensiero.
Solo nella modernità iniziò la
lotta per la forma sociale propriamente detta e nacque per la prima volta una
“critica sociale”, una coscienza delle formazioni economico-sociali, della
crisi e della trasformazione della società. Ma questo nuovo tipo di riflessione
non fece si che la società raggiungesse la coscienza critica di sé stessa. Piuttosto
si trattava solo di dare una cornice intellettuale alla dinamica cieca scatenata
dalle esigenze della moderna rivoluzione economica. In questo capovolgimento,
la forma astratta del denaro, fino allora un fenomeno marginale e limitato a
nicchie della società, fu riagganciata a sé stessa in un processo cibernetico:
la vita sociale fu sottomessa al movimento della valorizzazione del denaro,
movimento che divenne un fine astratto in sé. Nella misura in cui dava soltanto
espressione a questo processo cieco, il nuovo pensiero riflessivo, così come il
pensiero precedente, rimaneva ancora attaccato alla metafisica, anche se ora si
trattava di una metafisica secolarizzata e staccata dalla religione: in luogo
della metafisica celeste di un cosmo divino, la metafisica terrestre del denaro
senza freni.
La metafisica, così come la sua
base sociale, non fu solo secolarizzata, ma anche dinamizzata. I concetti di
rivoluzione, di processo, di movimento etc già indicano la differenza decisiva tra
questa nuova società moderna e tutte le precedenti: essa si era staccata dal
vecchio ordine ma non poteva riposare su sé stessa come invece le antiche
civiltà agrarie e religiose. Fin dalle sue origini essa si trova in
contraddizione con sé stessa poiché il processo di valorizzazione è insaziabile
e si riproduce in forme sempre nuove, in stadi evolutivi sempre più elevati. La
macchina cibernetica del denaro diventato “principio motore” trasforma la
società in un proiettile che percorre un tempo lineare. Di conseguenza, il
nuovo pensiero della “critica sociale” ha inventato la storia lineare e il
progresso, guardando al futuro e criticando ogni situazione raggiunta in quanto
mero stadio di passaggio a una situazione successivamente nuova e
apparentemente “superiore”. E’ solo in questo contesto che si vanno a
contrapporre, in maniera sistematica e strutturale, l’intelligenza funzionale e
l’intelligenza riflessiva, poiché la riflessione secolarizzata assume il ruolo
di critica progressista contro il “funzionamento” che persevera nel rispettivo
stadio di sviluppo.
Ma questa critica rimase sempre legata
alla moderna metafisica del denaro; essa non fu altro che l’espressione intellettuale
della contraddizione interna della società moderna con sé stessa. Furono
criticate non le forme basiche, categoriali della società come tale, ma
soltanto la loro inadeguatezza e il loro “sottosviluppo”. Da un lato, la
critica sociale si occupò ancora per lungo tempo della crescente dissoluzione
dei lacci che la legavano ancora all’antico ordine agrario e religioso;
dall’altro, essa riflettè il processo dinamico del nuovo ordine propriamente
detto e proclamò, in questo senso, l’obiettivo dello “sviluppo”. Questo vale
anche per il marxismo. Marx, in realtà, fu l’unico teorico moderno a sviluppare
i rudimenti di una critica radicale della modernità, ossia una riflessione “sulla”
metafisica del denaro. Ma questo pensiero non era in grado di essere sostenuto.
Mentre avanzava lo sviluppo dinamico del sistema sociale moderno, egli era
ansioso di vedere “quello che sarebbe seguito”. Oggetto della disputa teorica
era la fase seguente dello “sviluppo”, non il principio metafisico, la natura o
la logica in sé di questo “sviluppo”.
A quanto pare, la situazione si è
modificata radicalmente alla fine del ventesimo secolo. Il concetto di progresso
ha perso ormai da molto tempo il suo fascino e ora è la stessa teoria critica
della società che viene vista come obsoleta, non solo quella marxista, ma la
teoria in generale. In ogni caso, la
postmodernità considera tutto quello che fino ad oggi nella storia della
modernizzazione è stato considerato come teoria, le cosiddette “grandi
narrazioni” o “grandi teorie”, sospetto di “propositi totalitari”. Non si
vuole più considerare l’insieme della società e pertanto si ripudiano i “grandi
concetti”, in cambio del conforto dell’”incertezza” teorica. La teoria critica viene
sostituita dal gioco intellettuale non vincolante.
Da dove viene questa sorprendente
torsione, questo "disarmo della teoria"? Sorge il sospetto che la
riflessione teorica si sia fermata perché la dinamica sociale soggiacente sta
scomparendo. Su scala planetaria non c’è più alcuna società tradizionale di cui
sia possibile disfarsi. E allo stesso tempo sembra che non ci sia più “posto”
per un nuovo stadio di sviluppo sociale all’interno della modernità, perché il
processo di valorizzazione economica comincia ad esaurirsi. Il processo
continua, ma soltanto come processo negativo, come processo di crisi che non
può più essere riempito con speranze positive.
Lo sviluppo tecnico diventa
incompatibile con la moderna metafisica del denaro. Ma questo livello di
riflessione il moderno pensiero metafisico lo rifiuta spaventato, perché implica
dover superare i propri limiti. Proprio nel momento in cui il totalitarismo del
denaro domina come mai la realtà, la stessa teoria sociale è denunciata per la presunta
pretesa totalitaria dei suoi propositi. Essa avrebbe compiuto il suo dovere, ma
ora dovrebbe lasciare in pace l’insieme sociale proprio nel bel mezzo della
crisi. La contraddizione sociale reale, ormai non più gestibile, deve
semplicemente essere bandita dal pensiero. Il triste esito dello sviluppo
moderno è assurdamente festeggiato come transizione verso un “pragmatismo disilluso”.
Insieme alla critica sociale, è il pensiero riflessivo in generale che volge al
termine.
L’intelligenza riflessiva
scompare. Ma l’intelligenza funzionale non ha vinto, è solo rimasta orfana. Benché
esposta alla critica della riflessione teorica, essa ne ha anche sempre
estratto nuovi orientamenti e legittimazione, e la fine del suo opposto
strutturale la porterà alla sua stessa crisi. Le élites funzionali non
dispongono di nulla, il loro funzionamento non è più capace di contenere la
crisi della realtà e sfocia nel grottesco. Ma questo non risalta agli occhi perché
anche la coscienza quotidiana si trova in uno stato totalmente privo di
riflessione. La tanto decantata capacità dell’individuo moderno di riflettere
su sé stesso, di “uscire dalla propria pelle” e contemplare come da fuori le
sue stesse azioni si dissolve rapidamente. Questa capacità scompare perché era
legata allo sviluppo positivo della società moderna. Proprio alla sua fine,
questa società è diventata identica a sé stessa in modo inquietante. Le
generazioni postmoderne non comprendono più i concetti della riflessione, dato che
in pochi anni hanno cominciato a suonargli tanto estranei quanto il culto dei
morti dell’antico Egitto. Sono quel che sono e niente di più. Sono immediatamente identici al loro
agire banale, tanto più impossibile questo agire diventa.
La crisi della realtà è rimossa
dalla postmodernità, una volta che essa tenta di sostituire la critica sociale
con un riciclaggio simulato della coscienza premoderna: la filosofia disarmata
vorrebbe tornare candidamente ai paradigmi dell’”etica” e dell’”arte di
vivere”. Ma si dimentica che non esistono più le condizioni sociali di quel
pensiero. Il pensiero premoderno acritico era possibile solo a condizione che
la società riposasse staticamente su sé stessa e che il pensiero riflessivo si
riferisse non al vuoto ma ad un ordine divino. Non si può tornare indietro a
questa condizione. Nel suo stadio terminale, il sistema moderno diventa,
quindi, la prima società della storia totalmente priva di riflessione. Insieme
con la capacità di auto-riflessione, essa perde anche una condizione basilare
dell’esistenza umana. Una società che si limita soltanto a funzionare, smette
di essere umana e finisce per non essere più capace di funzionare. In un
movimento puerile, che ha perso ogni senso e obiettivo trascendente, il
pensiero normativo dell’”etica” si affanna senza risultati poiché non è più
ancorato a nulla. E la filosofia della "vita di successo", dell’individuo
come "opera d’arte" di sé stesso diventa una triste farsa, poiché
ignora la crisi della metafisica moderna. Si proclama come “post-metafisica”,
malgrado la vera metafisica sociale della modernità rimanga inviolata. L’auto-estetizzazione
postmoderna si svolge in una casa in fiamme.
Originale Das Ende der Theorie.
Pubblicato su Folha de São Paulo il 09.07.2000 con il titolo Filosofia come
farsa
Robert Kurz
Trad. by lpz