martedì 18 novembre 2014

IL MITO DELLA PRODUTTIVITA’



Sviluppo tecnologico, razionalizzazione e disoccupazione

Robert Kurz



C’è una concezione ingenua, però sensata, sulla produttività: quanto più essa cresce, così pensa il senso comune, tanto più sollievo porta alla vita in comune. La maggiore produttività permette più beni con meno lavoro. Non è meraviglioso? Tuttavia, nella nostra epoca sembra che l’aumento della produttività, oltre a creare una quantità esagerata di beni, provochi una valanga di disoccupazione e miseria.  

Dalla fine degli anni ’70, i sociologi spesso parlano di una disoccupazione tecnologica o “strutturale”. Ciò significa che la disoccupazione si sviluppa indipendentemente dai movimenti congiunturali dell’economia e cresce anche nei periodi di boom. Negli anni ’80 e ’90, la base di questa disoccupazione strutturale, di ciclo in ciclo, è divenuta ogni volta maggiore in quasi tutti i paesi; secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro a Ginevra nel 1995, il 30% della popolazione economicamente attiva in tutto il mondo non possiede un lavoro stabile. 

Questa triste realtà, oltre ad essere incompatibile con il senso comune, ha suscitato una curiosa reazione degli economisti. I dottori in scienze economiche procedono come se il fenomeno irrazionale della disoccupazione di massa non avesse assolutamente nulla a che vedere con le leggi dell’economia moderna; le cause, secondo loro, devono essere ricercate in fattori estranei all’economia, soprattutto nella politica finanziaria equivoca dei governi. 

Allo stesso tempo, gli stessi economisti sostengono che l’aumento della produttività non diminuisce il numero dei posti di lavoro, ma è responsabile invece della loro crescita. Ciò sarebbe confermato dalla storia della modernità. Quello che per l’osservatore imparziale assomiglia alla causa della malattia dovrebbe quindi essere la ricetta per la cura. Gli economisti operano con un’equazione che sembra un sofisma. Dov’è l’errore? 

Un assioma della teoria economica afferma che l’obiettivo della produzione è sopperire alla mancanza di beni della popolazione. Ora, questa è una pura banalità. Tutti sanno che l’obiettivo della produzione moderna è originare un profitto nell’economia d’impresa. La vendita dei beni prodotti deve rendere più denaro di quello che è costato per la loro produzione. Qual è la relazione interna tra questi due obiettivi? Gli economisti dicono che il secondo obiettivo è solo un modo (in realtà il miglior modo) per raggiungere il primo obiettivo. Tuttavia, è evidente che entrambi gli obiettivi non sono identici: il primo si riferisce all’economia come un tutto, il secondo all’economia delle imprese. Da ciò derivano contraddizioni che, fin dal principio, rendono instabile il sistema economico moderno. 

L’idea così naturale secondo cui l’aumento della produttività facilita la vita degli uomini non tiene conto della razionalità specifica delle imprese. Si tratta in realtà di sapere quale sarà l’uso di una maggiore capacità produttiva. Se la produzione mira a soddisfare le necessità, l’evoluzione dei metodi e dei mezzi sarà utilizzata semplicemente per lavorare meno e godere di maggior tempo libero. Un produttore di beni per il mercato, tuttavia, può avere la brillante idea di lavorare tanto quanto ora e utilizzare la produttività addizionale per produrre una quantità ancora maggiore di merci, allo scopo di guadagnare più denaro invece di approfittare dell’ozio. Un amministratore di imprese è ugualmente costretto ad arrivare a quest’idea, poiché non gli serve a nulla che i salariati conquistino un maggiore spazio di tempo libero. Per lui, la produttività addizionale rappresenta in qualche modo un asso da giocare contro la concorrenza, venendo trasformata nel beneficio della diminuzione dei costi d’impresa, e non in favore della maggiore comodità dei produttori. 

E’ per questo che nella storia economica moderna la giornata di lavoro è diminuita in una proporzione molto minore rispetto all’aumento corrispondente della produttività. Al giorno d’oggi, i salariati ancora lavorano di più e più a lungo dei contadini del medioevo. La diminuzione dei costi, dunque, non significa che i lavoratori lavorano meno mantenendo la stessa produzione, ma che meno lavoratori producono più prodotti. L’aumento della produttività ripartisce i suoi frutti in forma estremamente diseguale: mentre i lavoratori “superflui” sono dimessi, crescono i profitti degli imprenditori. Ma se tutte le imprese entrano in questo processo, esiste la minaccia che sorga un effetto che non era preso in considerazione dagli interessi ottusi dell’economia d’impresa: con la crescente disoccupazione, diminuisce il potere di acquisto della società. Chi comprerà allora la quantità sempre maggiore di merci? 

Le corporazioni di artigiani nel medioevo percepirono questo pericolo. Per esse era un peccato e un crimine far concorrenza ai colleghi per mezzo dell’aumento della produttività e cercare di condurli a tutti i costi alla rovina. I metodi di produzione erano perciò rigidamente fissati e nessuno poteva modificarli senza il consenso delle corporazioni. Quello che impediva uno sviluppo tecnologico non era tanto l’incapacità tecnica ma questa organizzazione sociale statica degli artigiani. Essi non producevano per un mercato in senso moderno, ma per un mercato regionale limitato, libero dalla concorrenza. Questo ordine della produzione durò più tempo di quello che generalmente si suppone. In gran parte della Germania, l’introduzione delle macchine fu vietata dalla polizia fino alla metà del 18° secolo. L’Inghilterra, come si sa, fu la prima ad eliminare questo divieto. La strada, così, fu libera alle invenzioni tecniche quali il telaio meccanico e la macchina a vapore, i due motori dell’industrializzazione. E subito irruppe la catastrofe sociale: in tutta l’Europa, nel passaggio dal 18° al 19° secolo, si diffuse la prima disoccupazione tecnologica di massa.

Tutto questo è il passato, dicono gli economisti: l’evoluzione posteriore non ha dimostrato che i timori erano infondati? Infatti, nonostante l’espansione continua delle nuove forze produttive del ramo industriale, la disoccupazione tecnologica di massa è scesa rapidamente. Ma per quale motivo? Inseguiti dalla concorrenza reciproca, gli industriali furono costretti a restituire ai consumatori parte dei loro guadagni nella produzione. Le macchine hanno quindi reso i prodotti essenzialmente più economici al consumatore. Molte persone che impiegavano anni per pagare i loro vecchi vestiti, improvvisamente si potevano permettere nuovi vestiti più volte l'anno. Il mercato si è ampliato in questo modo a passi da gigante. Sebbene per la produzione di una certa quantità di prodotti tessili fosse necessaria una forza di lavoro minore di prima, la domanda di vestiti e tessuti a buon mercato crebbe al punto che, al contrario delle aspettative, un numero considerevole di lavoratori fu impiegato nelle nuove industrie tessili. Con ciò però il problema non è stato risolto alla radice. Ogni mercato, a tempo debito, raggiunge un limite di saturazione che lo rende incapace di conquistare nuove fasce di consumatori. Solo a un certo stadio di sviluppo l’aumento della produttività conduce alla creazione di più impiego per la società, malgrado la minore quantità di lavoro necessaria per ogni prodotto. 

In questa fase, i metodi sviluppati deprezzano il prodotto e lo preparano al grande consumo di massa. Prima di arrivare a questo stadio, l’aumento della produttività getta l’antico modo di produzione in una profonda crisi, come mostra l’esempio degli artigiani tessili nel 19° secolo. All’altro estremo dello sviluppo, la crisi è ugualmente una minaccia (basata sulla produzione industriale stessa), quando lo stadio di espansione è superato e i mercati periferici diventano saturi. Ma questa stessa espansione può anche essere trasferita ad altri settori. Per tutto il 19° secolo, le antiche roccaforti artigianali furono progressivamente industrializzate. Sempre più prodotti ebbero i loro prezzi ridotti e permisero l’esplosione del mercato. Il processo subì una tale accelerazione che gli artigiani “superflui” furono immediatamente assorbiti dal lavoro industriale, evitando così che si ripetesse la grande crisi sociale degli antichi produttori tessili. Ormai non erano solo gli oggetti del quotidiano che potevano essere comprati dalle classi più povere; anche i prodotti di lusso, prima riservati alle selettive classi superiori entrarono sempre più nel consumo di massa. Anche Karl Marx riconobbe questo deprezzamento generale dei prodotti di fabbrica zione industriale come “opera civilizzatrice” del capitalismo. Le crisi, benché inevitabili, parvero solo transizioni dolorose per raggiungere nuove vette di prosperità. Ma che succede quando tutti i rami della produzione ormai sono industrializzati e tutti i limiti di espansione del mercato sono ormai raggiunti?

Lo sviluppo economico parve rifiutare anche questo timore. L’industria non solo assorbì gli antichi rami della produzione artigianale, ma creò da sé stessa nuovi settori produttivi, inventò prodotti mai immaginati e infuse la sete di acquisto nei consumatori. Il processo di aumento della produttività, espansione e saturazione dei mercati, creazione di nuove necessità e nuova espansione pareva non avesse limiti. Economisti come Joseph Schumpeter e Nikolai Kondratieff formularono, a partire da queste idee, la teoria delle cosiddette “onde lunghe” nello sviluppo ciclico dell’economia moderna. Secondo questa teoria, una certa combinazione raggiunge sempre il suo limite storico di saturazione, invecchiamento e comincia a restringersi, dopo una fase di espansione impetuosa. Imprenditori innovatori, nella condizione di “distruttori creatori” (Schumpeter), inventano tuttavia nuovi prodotti, nuovi metodi e nuove industrie che liberano il capitale dai vecchi investimenti stagnanti dandogli nuovo respiro in un corpo tecnologico rinnovato. 

Esempio lapidario di questa nascita di un nuovo ciclo è l’industria automobilistica. Nel 1886, l’ingegnere tedesco Carl Benz aveva già costruito la prima automobile; ma fino alla prima guerra mondiale, tale merce rimase un prodotto di lusso estremamente costoso. Come fosse uscito dalle pagine del libro di testo di Shumpeter, arrivò l’imprenditore innovatore Henry Ford. La sua creazione non fu l’automobile stessa, ma un nuovo metodo di produzione. Nel 19° secolo, la produttività crebbe soprattutto grazie al fatto che i rami artigianali furono industrializzati per mezzo dell’installazione di macchine. L’organizzazione interna della stessa industria ancora non era oggetto di grandi attenzioni. Solo dopo il ‘900 l’ingegnere nordamericano Frederick Taylor sviluppò un sistema di "amministrazione scientifica dell’impresa", al fine di sviluppare le aree di lavoro specifiche e aumentare la produzione. Ford scoprì grazie a questo sistema riserve insospettabili di produttività nell’organizzazione del processo produttivo. Osservò, per esempio, che un operaio della linea di montaggio perdeva in media molto tempo nel cercare viti. Queste allora furono trasportate direttamente al locale di lavoro. Parte del processo diventò “superfluo” e, in seguito, fu introdotto il tapis roulant (a esteira rolante). 

I risultati furono sorprendenti. Fino alla prima guerra mondiale, la capacità produttiva di una fabbrica di automobili di medie dimensioni era rimasta a circa 10mila auto all’anno; a Detroit, la nuova fabbrica di Ford produsse, nell’esercizio finanziario del 1914, la fantastica cifra di 248mila unità del suo celebre "Modell T". I nuovi metodi scatenarono una nuova rivoluzione industriale. Ma tale rivoluzione ”fordista” avvenne troppo tardi per poter evitare la crisi economica mondiale (1929-33), innescata dai costi della guerra e dal declino globale del commercio. Dopo il 1945, però, sopravvenne l’”onda lunga” della produzione industriale di massa di automobili, apparecchi domestici, divertimenti elettronici etc. Basato sul vecchio modello, solo che ora in dimensioni ben maggiori, l’aumento della produttività creò un numero impressionante di nuovi posti di lavoro, giacché l’espansione del mercato di automobili, frigoriferi, televisori etc, esigeva, in termini assoluti, più lavoro di quanto i metodi “fordisti”, in termini relativi, economizzavano in ogni prodotto.

Negli anni ‘70, le industrie fordiste raggiunsero il loro livello storico di saturazione. Da allora viviamo la terza rivoluzione industriale, della microelettronica. Pieno di speranze, qualcuno si ricordò immediatamente di Schumpeter. Infatti, i nuovi prodotti attraversarono un processo simile di deprezzamento, alla maniera delle automobili e dei frigoriferi: il computer, prima un apparecchio costoso e destinato alle grandi imprese, si trasformò rapidamente in un prodotto del consumo di massa. Questa volta, però, lo slancio economico non causò il corrispondente aumento dei posti di lavoro. Per la prima volta nella storia della modernità, una nuova tecnologia è capace di economizzare più lavoro, in termini assoluti, di quello necessario per l’espansione dei mercati di nuovi prodotti. Nella terza rivoluzione industriale, la capacità di razionalizzazione è superiore alla capacità di espansione. Il precedente effetto di una fase espansiva, creatrice di posti di lavoro, ha cessato di esistere. La disoccupazione tecnologica dell’antica storia dell’industrializzazione fa il suo ritorno trionfale, solo che ora non si limita a un ramo della produzione, ma si diffonde in tutti i settori, in tutto il pianeta. 

Lo stesso interesse economico delle imprese porta all’assurdo. Ormai è tempo, dopo 200 anni di era moderna, che l’aumento della produttività serva a lavorare meno e a vivere meglio. Il sistema del mercato, però, non è stato fatto per questo. La sua azione si limita a trasformare l’eccedenza produttiva in più produzione e, di conseguenza, in più disoccupazione. Gli economisti non vogliono comprendere che la terza rivoluzione industriale possiede una qualità nuova, in cui la teoria di Shumpeter non è più valida. Invano, aspettano ancora l’”onda lunga” della microelettronica. Sono in attesa di Godot. 

traduzione by lpz, rivista da M. Maggini

Originale Der Mythos der Produktivität in www.exit-online.org. Publicado na Folha de São Paulo de 11.02.1996 com o título O TORPOR DO CAPITALISMO e tradução de José Marcos Macedo