lunedì 20 ottobre 2014

Lo stato d’eccezione molecolare



Coscienza di crisi e "theological turn" della postmodernità

Robert Kurz


Il postmodernismo è alla fine. Il concetto è comunque sempre stato una farsa: doveva suggerire qualcosa di socialmente nuovo e invece non diceva proprio nulla. La vacuità delle autodefinizioni risale al fatto che la postmodernità non è nient’altro che il capitalismo moderno in uno stadio di carenza concettuale e in una forma tarda di futile auto-riflessione. Il soggetto vuoto si diletta nel culto del mediale e nell’“anything goes”. Dagli anni ’80, questa virtualizzazione ha corrisposto socialmente, sotto l’aspetto tecnologico, al computer personale, ai nuovi media e alle tecnologie della comunicazione (particolarmente Internet) e, sotto l’aspetto economico, alle bolle finanziarie speculative sviluppatesi nei mercati azionari e immobiliari.

Ma alla fine dei conti il nocciolo duro del capitalismo non può essere ammorbidito con delle simulazioni. Al suo centro sta la categoria del “lavoro”, che nelle sue stesse radici è determinato come “maschile, bianco e occidentale”. Ciò implica una svalutazione delle donne, alle quali sono stati delegati tutti i momenti della riproduzione sociale separati dal “lavoro”, ad esso non riducibili. Allo stesso modo, nel codice di disciplina destinato alle imposizioni del “lavoro”, è inscritta una svalutazione degli individui non-bianchi, considerati prototipi della mancanza di sottomissione alla ragione moderna, mentre le crisi interne del sistema sono attribuite costantemente a un potere soggettivo estraneo, come quello con cui furono identificati gli “ebrei” nel contesto della storia europea. Per questo motivo, già dall’epoca della filosofia dei Lumi, il sessismo, il razzismo e l’antisemitismo sono trasmessi insieme alla positività del lavoro, il quale costituisce la sostanza del processo di valorizzazione del capitale e non rappresenta null’altro che il “lavoro astratto”, concepito negativamente da Marx. Tutte le altre categorie della società della merce (mercato, Stato, nazione, politica etc) sono determinate da questa relazione essenziale. Limitandosi a una “lotta per il riconoscimento” all’interno della “gabbia d'acciaio” (Max Weber) costituita da queste categorie, il marxismo tradizionale ha finito per riconoscere il “lavoro astratto” e la sua disciplina, sostenendolo ideologicamente per mezzo di un'’”ontologia del lavoro” metastorica.

Ma con la terza rivoluzione industriale è il capitalismo stesso che ha reso obsoleto per la prima volta il “lavoro”. Questa barriera interna storica della valorizzazione è stata dribblata dall’economia delle bolle finanziarie degli anni ’90, e in questo clima il postmodernismo simulativo è potuto ascendere a ideologia “mainstream”. La sinistra postmoderna non vuole porsi il problema di una critica categoriale delle forme sociali del moderno sistema produttore di merci (che includa una critica del “lavoro”); di conseguenza non è in grado di percepire le dimensioni profonde, storiche e strutturali del sessismo, del razzismo e dell’antisemitismo. Questa sinistra non è andata oltre la vecchia “lotta per il riconoscimento” sociale e nazionale all’interno del mondo borghese, ingannando se stessa quando si è distanziata dal marxismo tradizionale. Nel contesto della virtualizzazione economica e culturale generale, essa coopera nel processo di derealizzazione del mondo; anche la critica dell’economia politica dovrebbe venir “smaterializzata”. In fin dei conti, Antonio Negri e Michael Hardt hanno dato a questa tendenza, con il concetto di “lavoro immateriale”, un’espressione esteriormente elegante. In generale, i concetti dell’analisi e della critica non sono stati rinnovati e sviluppati, ma solo virtualizzati.

La lotta di classe e per l’indipendenza, un tempo reali ma che da lungo appartengono al passato, si riproducono come programmi di simulazione. La sinistra socializzata dai media ha voluto credere che se le sue performance apparivano in televisione come immagini in movimento ciò avrebbe comportato cambiamenti sociali. Sulla base del “lavoro immateriale”, il capitale appariva capace di accumularsi illimitatamente e fittiziamente per mezzo delle bolle finanziarie, come Jean Baudrillard aveva già affermato negli anni '70 con una terminologia filosofica vaga; di conseguenza, la sinistra postmodernizzata ha promosso tentativi di “lotte” fittizie e puramente simboliche come in un teatro per studenti. Il capitalismo, così pareva, era semplicemente una specie di “film”.

Con il crollo della “new economy” nel 2000/2001, il concetto di "lavoro immateriale" ha fatto una pessima figura. Il "lavoro", anche il cosiddetto lavoro intellettuale, è sempre un “dispendio materiale di nervi, muscoli e cervello” (Marx). Il "lavoro astratto” nel capitalismo non è una mera cosa del pensiero ma l’astrazione dell’economia dal contenuto concreto, la quale esegue, come irrazionale fine in sé, la spremitura dell’energia umana. Non è con cianotipi, idee “creative” o click del mouse che il capitale si valorizza, ma soltanto grazie a masse reali di “lavoro astratto” impiegato ripetitivamente, giorno dopo giorno. La tanto evocata società della conoscenza, in cui ci si distanzia dalla produzione, come Marx previde, non è possibile nella forma capitalistica.

Il crollo di intere economie nazionali dall’inizio degli anni ’90, lo scoppio delle bolle finanziarie in Asia e le crisi finanziarie in molti paesi, si sono lasciate dietro “terra bruciata” in termini sociali. Ciononostante, l’economia simulata del capitale fittizio sembrava poter ancora prosperare nelle metropoli; nell’Europa continentale ci si sentiva ancora protetti grazie al Welfare State; ovunque i ceti qualificati, specialmente nei rami della tecnologia dell’informazione e dell’high-tech, si illudevano di essere al sicuro. Per la coscienza postmoderna, la miseria degli altri non era che un “film”. Ma l’esplosione della bolla formata dalla “new economy” ha rovinato un gran numero di “conoscitori” postmoderni svalutando il loro sapere. Propagandosi nelle metropoli, la crisi divora il Welfare State europeo a una velocità incredibile. La nuova classe media decade; improvvisamente per molti si tratta di un film lacrimevole sulla loro stessa vita reale. I simulatori di sé stessi si trovano a doversi confrontare con il fatto che il denaro non cresce sugli alberi e che non si può scaricare la manna da Internet.

Il crollo della realtà negativa nello spazio virtuale della simulazione, tuttavia, non è digerito in modo critico, bensì retrogrado. Data la durezza dell’economia che la supera, la coscienza riduzionista del culturalista pare indulgere a una sorta di svolta apocalittica. Il nichilismo trascendentale del capitale e della sua “forma vuota” viene denunciato a gran voce ma senza mediazione analitica. Dato che la postmodernità tende generalmente a logorare la contingenza e a far scomparire la differenza tra critica e affermazione, anche qui viene lasciato nel vago ciò a cui ci si riferisce. La scoperta del carattere nichilista dell’economia potrebbe anche significare: la postmodernità si è appassionata del nulla. Dal momento che si decade socialmente, che lo si faccia allora con stile. Il carattere realmente metafisico delle categorie capitalistiche si manifesta nella riflessione solo come fantasma. La designazione di “mistero dell’economia” quale “paradigma teologico-economico” da parte del filosofo italiano Giorgio Agamben è talmente criptica che diventa una mistificazione invece che l’inizio della demistificazione. Il momento quasi religioso del capitalismo, come Marx indicò con il suo concetto di feticismo delle merci, non è criticato oltre Marx, ma teologizzato. Qui ormai si parla di un "theological turn" [svolta teologica] del postmodernismo.

Se Agamben, il suo collega francese Alain Badiou o il polivalente postmoderno sloveno Slavoj Zizek scoprono, in tutta serietà, che l’apostolo Paolo fu una specie di Lenin, in ciò c’è certamente del metodo. Naturalmente, in quanto atei istruiti, essi non si recano a testa china alla scuola domenicale di Benedetto XVI. Semmai il 13º apostolo è usato come paradigma del tentativo dal presunto successo, nel mezzo di una crisi del mondo, di diventare il creatore di un nuovo mondo, ricorrendo soltanto a “gesti senza precedenti”. Paolo avrebbe scoperto il metodo di dissolvere la “legge antica” per mezzo di una “politica della verità” auto-postulata, facendo della morte banale di Gesù l’”evento del Cristo”. Tale "verità" sarebbe senza fondamento, non avrebbe niente a che vedere con leggi, condizioni e sviluppi sociali. E così la prassi della vita sociale deve sbocciare, anche oggi, grazie a una politica infondata della verità e dell’evento. Abusando di alcune formulazioni di Walter Benjamin si autonomizza in qualche modo un momento “messianico” del marxismo tradizionale.

Naturalmente niente di tutto questo è nuovo. I motivi presi dai postmoderni dall’esistenzialismo di Heidegger sono adesso armati di "teologia politica" grazie alla filosofia dell’evento, nel bel mezzo dell’esperienza reale della crisi. Le mediazioni sono definitivamente cancellate dalla mappa, al loro posto deve subentrare l’atto che genera sé stesso. Già i situazionisti intorno a Guy Debord non vollero concretizzare in termini teorici e pratici il loro malessere in relazione al “lavoro astratto” e al feticismo della merce, ma piuttosto inventare “situazioni” a sorpresa per revocare, almeno per alcuni istanti, l’ordine stabilito. Adorno definì questo modo di pensare e procedere “falsa immediatezza”. In realtà lo stesso soggetto è mediato in termini capitalistici e proprio per questo esso non può stabilire un’altra verità, in forma incondizionata e assoluta. Anche Paolo fu nella sua epoca socialmente condizionato e non l’inventore di una politica della verità autopoietica. 

Oggi è necessaria una “contro-mediazione” cosciente e tenace che si dia per scopo quello di svolgere criticamente la storia della costituzione capitalista, di decifrare la metafisica reale moderna quale nesso interno delle forme economico-politiche e di concettualizzare negativamente la costituzione del soggetto borghese nel suo divenire. Ciò vale anche per la prassi della resistenza sociale; anche la minima azione sindacale può essere efficace solo mediante un complesso processo di mediazione. Il “gesto senza precedenti” come sostituto della contro-mediazione critica è un mito miserabile, con il quale i postmoderni sperano di fuggire illesi in modo tanto indolore quanto arrogante. La coscienza simulativa vorrebbe volentieri consumare come evento anche l’apocalisse sociale del mondo, per poi tornare tutta eccitata a casa. Però, visto che il proprio impoverimento e la propria degradazione sociale non possono essere virtualizzati, la teologizzazione del capitalismo presuppone un decorso maligno.

Agamben, nel suo libro "Homo Sacer", ha chiarito la nascita e il processo di modernizzazione per mezzo del concetto di stato d’eccezione, dando un contributo significativo a una nuova critica storica. Ma rifiutando di collegare questa conoscenza a una concreta critica categoriale dell’economia politica e, invece, nel saggio “Profanazioni”, teologizzando la modernità in modo puramente associativo, il suo pensiero si apre a un’interpretazione oscura e barbara. La reinterpretazione della liberazione sociale con la filosofia dell’evento, come un escatologico avvenire della salvezza reso profano, si rivela compatibile con la “teologia politica” del teorico del diritto Carl Schmitt, il quale era vicino al nazional-socialismo di Hitler. “Sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione” – questa famigerata formulazione di Schmitt è del tutto simile al “theological turn” postmoderno. Se Agamben in "Homo Sacer" ancora poteva essere interpretato come critico di Schmitt, si fa notare ora per un’inquietante ed evidente convergenza. Ciò che hanno in comune è la manifesta mancanza di fondamento della “decisione”. Anche la liberazione sociale necessita della volontà di decidere, ma questa decisione può essere pensata solo a partire da fondamenti coscienti e da condizioni criticamente analizzate.

Se il soggetto maschile, bianco e occidentale non vuole ammettere ancora, nella sua decadenza, che la propria costituzione è condizionata da forme sociali e dalla rimozione del femminile, e se invece gli “eventi” infondati devono essere posti dalla politica della verità attraverso il “lampo della decisione”, allora, nella crisi, si può riprodurre, e dolorosamente, solo la determinatezza capitalista. Nei limiti del sistema del "lavoro astratto" però ormai manca la forza per una generalizzazione sociale complessiva. Mentre l’amministrazione statale della crisi gestisce il contesto sociale, la società frammentata decade in una “guerra civile molecolare” (Hans Magnus Enzensberger). Con le sue mistificazioni, la teologizzazione postmoderna del capitalismo va preparando la barbarie; essa si converte nella vuota e distruttiva “volontà che vuole sé stessa” (Hegel).

La risposta neo-esistenzialista e neo-situazionista al nichilismo della modernità si rivela così una risposta essa stessa nichilista. L’”individualizzazione” (Ulrich Beck) postmoderna, che negli Stati Uniti e in Germania è più avanzata, diventa sempre più obsoleta. Ma gli individui atomizzati che devono abdicare come re da sé stessi nel regno del consumo personale delle merci, non diventano socievoli. Il risultato è un agglomerato casuale che alimenta la feccia. Non è solo l’incitamento razzista e antisemita che trova una nuova occasione a livello mondiale, in molte forme di manifestazione, sotto le condizioni della crisi globale. In ogni dove si radunano quelli che sentono di essere rimasti dietro, che non possono più soddisfare la loro ambizione e che non sono più solventi. Solo che non si aggregano per solidarietà, ma piuttosto per l’autoaffermazione, tanto compromessa quanto militante, in contesti mafiosi, cioè del tutto indipendenti da qualsiasi contenuto.

Le leggi del "milieu" criminale si generalizzano in tutti i gruppi e istituzioni sociali. Si tratta ben più della mera corruzione tradizionale. Nell’impresa, nei partiti politici, nell’attività scientifica e anche nei circoli teorici di sinistra, la personalizzazione dei problemi, l’intrigo, la patologizzazione reciproca e la messa in scena dello scandalo sono all’ordine del giorno. A livello del quotidiano, la guerra di tutti contro tutti si converte in stato di “eccezione molecolare”. L’”evento” non appare come azione emancipatrice, ma come putsch e golpe per istituire, su un terreno sociale modello Disneylandia, una “sovranità” disperata, inconsistente già nella sua base. Nella disgregazione della modernità, la storia della fondazione si ripete come farsa in scala micrologica.

La crisi dell’identità maschile nel capitalismo della terza rivoluzione industriale si manifesta come “vendetta dei piccoli uomini” contro i “famosi” che devono venir degradati; tuttavia appare anche come nuovo sessismo. Non a caso fu San Paolo, presunto inventore della politica della verità, a emettere lo slogan secondo il quale le donne devono tacere in chiesa. Adesso gli uomini postmoderni svalorizzati pretendono di essere paradossalmente donne migliori. Posizioni e creazioni femminili nella società devono essere espropriate per salvare la supremazia maschile. Paolo come “Lenin”: questo è un paradigma dei problemi dell’auto-valorizzazione dei soggetti maschi, bianchi e occidentali durante la crisi del “lavoro astratto”, soggetti che vorrebbero predare con le unghie il femminile separato, considerandolo "capitale culturale" (Pierre Bourdieu). Il carosello dello "stato d’eccezione molecolare" gira nell’auto-fondazione senza fondamento di soggetti deformati che stilizzano la loro mancanza di prospettiva convertendola in una filosofia dell’evento. Così è sollecitata la “decisione” heideggeriana sprovvista di contenuto: essi sono sempre determinati, senza però sapere per che cosa.


Originale tedesco DER MOLEKULARE AUSNAHMEZUSTAND. Krisenbewusstsein und "theological turn" der Postmoderne.

Pubblicato in Folha de São Paulo il 14 agosto 2005, in una versione leggermente abbreviata, con il titolo DOPO LA FINE.


Traduzione by lpz


tedesco

portoghese