venerdì 24 ottobre 2014

L’estetica della modernizzazione



Dalla separazione all’integrazione negativa dell’arte


La separazione tra vita e arte è un vecchio tema della modernità. Tutti gli artisti che vogliono dare verità all’espressione – e che si consumano esistenzialmente nelle loro creazioni – finiscono sempre per soffrire di questa separazione. Che mostri la bellezza o estetizzi il brutto, che eserciti la critica radicale o ricerchi la riscoperta della ricchezza delle forme della natura, che abbia un orientamento realista o di fantasia: l’arte sarà sempre separata dalla società da una parete che può essere di vetro trasparente, ma rimane impenetrabile. Le sue creazioni, o sono sempre ignorate oppure sono celebrate in tutto il mondo già dalla nascita come oggetti morti e museali. L’artista appare come una figura della tragedia antica: così come l’acqua e la frutta si ritraevano sempre da Tantalo, così dall’artista si ritrae la vita; così come Re Mida restava affamato poiché tutto quello che toccava si trasformava in oro, anche l’artista deve rimanere affamato come essere sociale, poiché il suo tocco trasforma tutto in pura esposizione. E come Sisifo fa rotolare invano la sua pietra – la sua opera rimane senza mediazione con il mondo. 

Tutti i tentativi dell’arte di uscire dal suo ghetto hanno fallito. Le arti plastiche montate industrialmente, così come i dipinti nelle pareti degli uffici, sono sempre corpi estranei. Readings letterari nelle chiese o nelle scuole non hanno mai superato il loro carattere di obbligatorietà. Quando i dadaisti trasformarono il dubbio in un mezzo di provocazione, mettendo tubi arrugginiti e orinatoi nelle sacre sale dell’arte per deridere la borghesia, questa proposta fu accolta con feroce serietà come oggetto estetico, catalogato come le sculture di Michelangelo o i quadri di Picasso. La definizione tautologica è: l’arte è tutto quello che la società a priori percepisce in una riserva denominata “arte” e che in questa condizione può quindi essere collezionata, senza considerazione per il contenuto, così come i francobolli o i coleotteri appuntati. Poco importa quel che l’arte stessa pretende e come lo rappresenta: tutto è già banalizzato e reso inoffensivo. Per le élites capitaliste l’artista non è più il buffone di corte, ma piuttosto – e nel migliore dei casi – un fornitore speciale di vini o di pasta. Qualcuno, insomma, da cui non si comprerebbe una macchina usata e che non si vorrebbe come genero. Questo è, in ogni caso, lo status dell’artista nella modernità classica. 

La società moderna è solita guardare al suo modo di esistenza e alle sue categorie come se si trattasse di qualcosa di sovrastorico e umano in generale. Se qualcosa è marcio e realmente insopportabile in questo sistema, ciò non dev’essere mai considerato un problema storico, superabile per mezzo della critica, ma sempre una condizione insopprimibile dell’esistenza con la quale l’umanità deve purtroppo vivere. E’ attraverso la lente di questa ontologizzazione che la modernità percepisce anche il dilemma della separazione tra arte e vita. Tutto è visto come se l’artista nella Grecia Antica fosse stato, come oggi, un venditore delle sue possibilità, e come se gli Antichi Egizi avessero esibito le loro pitture in gallerie e in musei, o nelle aste, con l’etichetta del prezzo.

Ma le antiche civiltà non avevano né “arte” né “cultura”, nel senso con cui le intendiamo oggi. Ciò significa che la struttura moderna – fatta di sfere separate e indipendenti tra loro, che determinano anche il nostro linguaggio e il nostro pensiero – è completamente estranea alle società antiche. Benché avessero carenze umane, problemi e relazioni di dominio sociale la loro esistenza non era scomposta in aree funzionalmente separate. La moderna teoria dei sistemi considera ciò come un’assenza di “differenziazione”, col che si insinua un fattore di primitivismo: quanto più integrata la società, tanto più è primitiva; quanto più “differenziata”, tanto più è “sviluppata” e tanto maggiore è il numero di opportunità che essa offre – così afferma il sistema di pensiero tardo-borghese. Come sempre a partire dall’Illuminismo, la modernità capitalista appare come il culmine della storia, anche se c’è qualcosa di patetico nel vedere nella più alta e insuperabile acquisizione dell’evoluzione sociale l’uomo ridotto a una funzione che rappresenta solo un punto di intersezione delle strutture sistemiche. 

In realtà le società premoderne non erano primitive, ma anzi altamente differenziate; il punto è che questo tipo di differenziazione non corrisponde a quella della concezione moderna. Le società antiche, prevalentemente agrarie, non avevano cultura, bensì erano cultura. Ciò si esprime nella nostra utilizzazione scientifica del linguaggio, il più delle volte in maniera irriflessiva: parliamo sempre più della “cultura” dell’Antico Egitto, della Mesopotamia e dell’Antichità, volendo con ciò riferirci tanto ad artefatti speciali e a rappresentazioni artistiche (della scultura, della pittura, della letteratura etc) quanto, d’altro lato, alla rispettiva società come un tutto e alla sua struttura sociale. Quando però parliamo della “cultura moderna”, intendiamo riferirci sempre a un aspetto specifico delle forme di espressione, mai al sistema sociale come un tutto. Così “sappiamo” immediatamente e incoscientemente che la “cultura” era il tutto e non una sfera funzionalmente separata per l’edificazione del museo domenicale degli uomini che guadagnano denaro. 

Infatti, il senso della parola latina “cultus”, che dà origine al concetto, è legato tanto a “piantagione”, “agricoltura”, quanto a “servizio divino”, “socialità”, “formazione” e perfino ad “abbigliamento” (in certe occasioni). Questa concettualizzazione multi-stratificata indica il carattere di integrazione delle antiche società agrarie. I contenuti e le forme differenziate, così come il “metabolismo con la natura” (Karl Marx), così come le relazioni sociali e l’estetica, non erano separati tra loro come “sottosistemi”, ognuno con una “logica propria”, ma erano sempre l’espressione di un modo di esistenza culturale unico e coerente. In termini moderni, la descrizione di questa esistenza culturale dovrà apparire, confusamente, in tal modo: la produzione era estetica, l’estetica era religiosa, la religione era politica, la politica era culturale, la cultura era sociale e via dicendo. In altre parole: gli attributi sociali, per noi oggi distinti, erano intrecciati gli uni agli altri, ogni momento della vita era in un certo modo contenuto negli altri. 

Si potrebbe a volte tentare di parlare di una costituzione religiosa di queste culture agrarie, poiché apparentemente la religione si presenta come il momento di integrazione più forte della “società come cultura”. Com’è noto, non solo tutti i tipi di oggetti artigianali, ma anche il teatro e le competizioni sportive apparivano in qualche modo come azioni culturali, cioè integrate a un culto. Per essere più precisi: esse erano azioni culturali di un tipo particolare. Gli stessi compiti del tutto comuni del quotidiano avevano basicamente un carattere cultuale; anche l’umorismo e l’ironia erano associati al culto. Tuttavia, sarebbe un errore elevare “la religione” a momento sistemico determinante di tali società, poiché così cadremmo nell’errore di interpretare di nuovo con il nostro concetto funzionale moderno di sfere separate. Anche la religione non era una religione in senso moderno, non era pura “credenza”, né l’occasione limitata per un pensiero trascendente, e ancor meno una “questione privata”. 

Non possiamo quindi pensare al carattere religioso delle culture antiche semplicemente come a una relazione coercitiva limitatrice e irrazionale. Religioso era anche il pubblico, la cosiddetta politica, la forma del dibattito. Non a caso la parola latina "privatus" ha un significato negativo e peggiorativo, che ci è ancora più chiaro nel concetto greco antico corrispondente: colui che non partecipa della vita quotidiana e quindi pubblica è l’idiota. Ma se il religioso è allo stesso tempo la forma del pubblico e riguarda il quotidiano, ciò non vuol dire necessariamente che qui si rivela il limite di questa società, come pretende l’ideologia apologetica dell’auto-legittimazione moderna. Si potrebbe anche dire, al contrario, che una tale società-cultura aveva molta più vita pubblica e dibattito del sistema moderno. Come ci voltiamo indietro e distorciamo i fatti, non possiamo concepire attraverso la nostra auto-rappresentazione moderna l’esistenza di una società culturalmente integrata. Non abbiamo concetti per questo. 

Questa moderna cecità verso il carattere delle relazioni premoderne ha prodotto un altro grande equivoco. Al centro di quel che chiamiamo “religione”, in tutte le culture, c’è fondamentalmente il problema della caducità umana e della morte come processo, evento e “fine della vita”. Insieme alla religione, la modernità ha bandito in una sfera funzionale particolare anche la morte, separandola – come l’arte – dalla vita. In questo modo, la moderna secolarizzazione della società non permette che si tratti la morte in altra forma e che ci si rifletta sopra, piuttosto la rimuove e la ignora. Quel che la religione significava nelle società antiche non è stato superato positivamente, ma soltanto ridotto funzionalmente a residuo irrazionale nel senso privato degli individui astratti. Per quanto riguarda la morte fisica, la modernità è andata perfino oltre: così come gli individui più vecchi ed “inutili” alla riproduzione capitalistica appaiono come un “vecchio fardello” per i loro figli, venendo chiusi in case di cura e separati dalla vita normale, anche i morti vengono “smaltiti” come spazzatura e scarti industriali. 

Con l’aver represso la morte, la modernità doveva concepire l’antica integrazione tra la vita e la morte solo come una terrificante “relazione con la morte”. Che gli Antichi Egizi conferissero grande valore alle loro tombe e all’imbalsamazione dei loro morti, è comunemente interpretato come un sinistro culto della morte, quasi che gli Egizi non si occupassero di altro. Allo stesso modo, l’uomo moderno mostra ripugnanza per il costume del neolitico di sotterrare i resti dei morti sotto il focolare della dimora. In realtà, tutti questi uomini dovevano avere un’eccezionale disposizione per la vita – come, del resto, dimostrano, da diversi punti di vista, le scienze che studiano l’Antichità. La naturale integrazione della morte nel quotidiano ci sembra strana, perché il problema della nostra mortalità è stato “rimosso” in un luogo invisibile alla nostra vita comune. Diversi critici della cultura hanno fatto di questa separazione tra la vita e la morte, così come della separazione tra l’arte e la vita nella storia della modernizzazione, un tema sempre più doloroso, senza tuttavia mai aver criticato radicalmente la struttura sociale sottostante alla cosa. 

In una "società come cultura", capace di integrare anche la morte, l’"arte" era necessariamente una componente della vita quotidiana, e come tale era totalmente impensabile come espressione di una sfera sterilizzata e morta "sotto vetro". Ma proprio per questo, essa non era l’arte come arte, ma piuttosto un determinato momento di un contesto sociale integrato. L’"artista", quindi, poteva essere riconosciuto come tale solo per la sua capacità tecnica e non come rappresentante sociale “dell’” arte. Il problema delle separazioni funzionali, che tanto occupa la modernità, è emerso insieme alla modernità è non era mai stato formulato prima. Sarebbe allora il caso di chiedersi da dove proviene, in realtà, questa “differenziazione” sistemica. 

Il processo di modernizzazione non ha diviso la società in modo uniforme o con valori uniformi. Al contrario, un determinato aspetto della riproduzione umana – la cosiddetta economia – si è separata da tutti gli altri aspetti e principalmente dalla vita. Così come per l’arte o per la religione, non si può parlare, per quanto riguarda le antiche civiltà rurali, di un’economia nel senso che diamo oggi a questa parola, benché il concetto ci venga dagli Antichi. Ma nella Grecia Antica, come in tutte le antiche civiltà premoderne, la "oikonomia", come economia domestica integrata in un contesto culturale, era un presupposto materiale e un mezzo per finalità di culto e quindi sociali ed estetiche. Al contrario, nella modernità l’economia si è sviluppata come un assurdo fine in sé e come contenuto centrale della società: il denaro è diventato capitale che ritorna a sé stesso, come un “soggetto automatico” cieco (Karl Marx), presupposto spettralmente a tutti gli obiettivi umani e culturali.

Nella misura in cui questa “valorizzazione del valore” (Karl Marx) o massimizzazione astratta del profitto economico imprenditoriale si separa dalla vita, comincia a emergere una “sfera funzionale” separata e indipendente, come un corpo estraneo alla società, che comincia a diventare centrale e dominante. E’ a partire dall’esistenza di questo settore, allo stesso tempo separato e dominante, che tutti gli altri aspetti restanti della riproduzione sociale dell’economia capitalistica appaiono come “sottosistemi” separati, in cui ognuno di essi, senza eccezione, assume un mero significato secondario, subordinato al fine in sé economico presupposto. 

Sotto la dittatura dell’economia indipendente, l’attività produttiva si tramuta in “lavoro” astratto, uno spazio funzionale separato ed estraneo alla vita, che viene regolato solo secondariamente, anche sotto la coazione incontrollabile dei “sistemi legali”, dalla sfera separata e particolare della politica. Anche tale “politica”, separata dalla società culturalmente integrata, doveva essere sconosciuta alle civiltà premoderne, tanto quanto l’”economia svincolata” (Karl Polanyi) del fine in sé capitalistico con il suo rispettivo concetto positivo di “lavoro” astratto, estraneo a un contesto di vita integrato. La politica moderna e le rispettive istituzioni dello Stato e del diritto non possono essere comparate con le istituzioni premoderne apparentemente equivalenti che, come la “religione”, non avevano il carattere di settori funzionali separati. E’ stato soltanto dal processo di disintegrazione sociale moderno innescato dall’”economia svincolata” che sono emerse la politica, lo Stato e il diritto nel senso che gli attribuiamo oggi, come “sottosistemi” complementari di secondo ordine e, conseguentemente, come meri servitori (ministri!) dell’economia capitalistica tacita a priori. 

Se il contenuto centrale e l’obiettivo della società diventano un fine in sé separato, allora la vita degenera in un mero residuo. Le espressioni della vita al di là delle scissioni sistemiche e delle sfere funzionali complementari del mercato e dello Stato, dell’economia e della politica, della concorrenza e del diritto, sono degradate a scarto del “tempo libero”; e in qualche luogo di questo residuo diffuso non c’è soltanto la religione, ma anche l’arte e la cultura, collocate in sfere particolari. Tutte le cose che un tempo erano decisivamente importanti per gli uomini, tutte le questioni esistenziali e così tutte le finalità e forme di espressione estetica legate a queste questioni si sono trasformate in questo “residuo” insignificante, e i suoi rappresentanti devono lottare per le briciole che cadono dalla tavola del mostruoso fine in sé. La situazione dell’arte e dell’estetica diventa particolarmente assurda. Benché ogni aspetto in sé della vita contenga sempre un momento estetico per l’essere umano, il capitalismo ha negato questo fatto elementare e ha collocato l’estetica in un luogo separato, così come del resto tutti gli altri momenti. Il “lavoro” non è estetico, la politica non è estetica, solo l’estetica è estetica. Come se l’estetica delle cose avesse un’esistenza propria, astraibile e spettrale, fuori e al lato delle cose; esattamente come la socializzazione dei prodotti contiene un’esistenza particolare astraibile al lato dei prodotti, nella forma astratta del denaro diventato fine in sé, la logica formale astratta, come il “denaro dello Spirito” (Marx), passa al lato e diventa indipendente dalla logica concreta dei contesti reali. 

La prigione di vetro dell’artista consiste esattamente in questa scissione strutturale dell’estetico. L’arte si muove impotente di qua e di là dentro questa gabbia; essa non è più la forma artistica di un contenuto sociale, ma piuttosto una “forma di coscienza” separata, forma senza contenuto o contenuto come mera forma. L’arte deve, pertanto, scimmiottare il fine in sé del capitale, che vorrebbe emanciparsi da ogni contenuto materiale nella sua forma astratta e autoreferenziale (denaro) , senza poter mai realizzare tale assurdità. L’”arte per l’arte” è semplicemente solo il culmine dell’arte come caricatura involontaria del capitale, senza poter risolvere il dilemma di fondo del sistema capitalistico.

Ma se essa si è trasformata per sua sfortuna in un fine in sé, delirante e narcisistico, può allora nella sua separazione non-superata, generare un hybris sociale: invece di concettualizzarsi come prodotto di un sistema di scissioni e mobilitare la critica radicale contro questa struttura distruttiva di finalità in sé, l’arte avvia la sua stessa scissione ed “estetizza” quello che inventa. Non è solo il suo stesso dilemma che diventa un oggetto estetico ma tutta la gridante schizofrenia del capitalismo. Quando la struttura capitalistica, tuttavia, non è criticata, ma estetizzata, i corpi dilaniati dalle granate, le donne violentate, i bambini affamati e le oscenità del potere appaiono come semplici oggetti estetici. L’estetica non si volta ai contenuti sociali, ma li illumina appena in una riflessione cinica. Un’”estetizzazione della politica” all’interno del sistema capitalistico non porta all’emancipazione ma direttamente alla barbarie. La politica esteticamente messa in scena fu il segreto del successo del fascismo e Hitler fu il prototipo dell’artista come politico, che non reintegra le sfere separate, ma stilizza soltanto la loro disintegrazione in una sanguinaria opera d’arte totale. 

La precaria situazione dell’arte nella struttura capitalista delle scissioni contiene anche un lato sessuale. Affinché l’”economia svincolata” del fine in sé capitalistico potesse stabilirsi e generare la moderna separazione delle sfere, era necessaria una condizione preliminare elementare: tutto quello che non cadeva in questo sistema di scissioni doveva essere, a sua volta, separato previamente. E così è avvenuto con tutti i momenti della vita che erano culturalmente integrati ma che sono stati assegnati alla donna moderna: famiglia, “lavoro domestico”, educazione dei figli, cura infermieristica, “amore” etc, insieme con le caratteristiche corrispondenti che anche apparterrebbero a una presunta speciale ricettività estetica: la donna, come “bellezza naturale”, adorna sé stessa e la casa dei suoi cari. Questo spazio sociale, che non può essere totalmente assorbito dalle strutture capitalistiche rimanendo tuttavia necessario alla riproduzione umana, appare come una privato separato di un nuovo tipo, in contrasto con la struttura sociale totale del capitale e delle scissioni interne in esso contenute. Sorge così una paradossale “scissione del sistema totale delle scissioni” (Roswitha Scholz), che forma la “retroguardia oscura” ed è connotata come “femminile”, mentre, all’inverso, il sistema ufficiale come un tutto è occupato e dominato dalla forma “maschile”. 

Questa coscienza elementare e primaria della scissione dei generi, generata dalla coscienza femminista, riporta a una strana relazione dei generi tra il privato e il pubblico, che colpisce anche la sfera separata dell’arte e della cultura. Nelle società premoderne culturalmente integrate, si avevano di fatto momenti fortemente patriarcali, ma non nella forma acuta e “differenziata” della modernità. La differenziazione culturalmente integrata, per la quale non possediamo più i concetti, non separava il “pubblico” e il “privato” nel senso in cui intendiamo noi. Detto in concetti moderni: molto di quello che oggi si considera privato era pubblico – e viceversa; e quand’anche il pubblico fosse stato “maschile”, questo era limitato, o si avevano sfere pubbliche “maschili” e “femminili” simultaneamente e parallelamente nel contesto culturale. 

Le forme paradossali della disintegrazione sulla base dell’”economia svincolata” separano doppiamente il pubblico e il privato dal punto di vista dei generi. Da un lato esiste lo spazio intimo del privato, nel quale “la donna”, il cosiddetto gentil sesso, è responsabile per il calore del nido, per il conforto del Signore di casa, per la dedizione amorosa, etc – ed esattamente per questo è considerata “inferiore” e “debole di spirito”. In contrappunto a questo privato inferiore, tutto il sistema del capitalismo, con l’"economia svincolata", appare come la sfera del “maschile” del mondo pubblico borghese e come la società autentica. D’altro lato, tuttavia, avviene ancora dentro questa struttura “maschile” ufficiale una seconda scissione interna tra la sfera pubblica e quella privata: l’attività per il fine in sé senza soggetto del sistema appare qui, in forma assurda, come la sfera privata ”maschile” del soggetto d’interesse del capitalismo, l’”homo economicus” guadagnatore di denaro, mentre la sfera “maschile” complementare della politica è definita come la sfera pubblica. La sfera separata dell’estetica o dell’arte e della cultura rappresenta solo un’appendice di questa sfera pubblica interna allo pseudo universo “maschile” capitalista.

Per questo, l’"artista" è, in linea di principio, un essere maschile dentro la sfera pubblica capitalistica, anche se in un luogo particolarmente precario. Di fatto esistono anche donne artiste, così come politiche, imprenditrici, scienziate etc – ma prima di tutto come eccezioni che confermano la regola sociologica; e in secondo luogo si adattano sempre alle regole del gioco “maschile”, ciò che dimostra che non si tratta di condizioni biologiche, ma di attribuzioni storico-sociali. L’artista strutturalmente “maschile”, nella sua gabbia di vetro dell’estetica separata, diventa un essere particolarmente schizofrenico: da un lato egli è sempre più “uomo” capitalista e guadagnatore di denaro, poggiando sul privato borghese del primo ordine e necessitando della “donna” come essere votato ai carichi minori nella sua retroguardia, come un qualsiasi venditore di automobili; d’altro lato, rappresenta dentro la sfera pubblica borghese “maschile”, nella figura dell’estetica, egli stesso un elemento “femminile” separato, che non appartiene al sistema funzionale ma che malgrado ciò è parte della sfera pubblica capitalista. 

Il "femminile" può apparire nello pseudo-universo maschile solo nella forma dell’oggettualità artistica separata, sterile e museologica. L’artista è così l’uomo capitalistico che esibisce certi lati femminili singolari e che eventualmente può anche essere omosessuale - ma solo in quanto deviato sociale dentro l’estetica narcisisticamente autoreferenziale, rubando alla “donna” gli attributi ad essa ascritti; e quindi diventa il super-maschio (Übermann) che degrada sia il “femminile”, incorporandolo nella forma maschile, che la “donna”, come modello, oggetto o musa, mero oggetto di bellezza. Allo stesso tempo, la società borghese vede la sua rappresentazione del femminile nel maschile come una lacuna e l’”inferiorità femminile” le pesa, così che egli viene considerato come un elemento esotico della società dai suoi colleghi venditori di automobili e non è preso veramente sul serio. 

Ma questa struttura delle scissioni, che costituisce l’essenza della modernità, oggi è ormai percepita come passato storico. La dinamica capitalista è esplosa nella sua stessa forma sociale e il suo processo si pone in modo ancor più sfrenato. La cultura di massa e i nuovi media sembrano “appianare” la “differenziazione” sistemica: ciò che la critica da mezzo secolo denunciava come “industria culturale" (Adorno), oggi è festeggiato dai postmoderni come una reintegrazione dell’arte nella vita. La medializzazione ormai varrebbe di per sé come emancipazione dalle coercizioni della realtà capitalista; il mondo si esplica attraverso il gioco digitale. Ovunque ormai è pieno di “opportunità” che possono essere interpretate nel senso di una “democratizzazione” mediatica. E nel divertito e abituale ballo in maschera dei sessi l’ammirevole mondo nuovo postmoderno crede di aver superato la scissione tra i sessi. Il travestito ormai è quasi proclamato un nuovo soggetto rivoluzionario. 

La retorica delle opportunità dell’ottimismo di professione culturale postmoderno, anche se spesso è legata al radicalismo di sinistra, fa ricordare in modo sospetto il linguaggio orwelliano degli economisti neoliberisti. Di fatto, l’arte non ritorna nella società come “cultura di massa democratica”; ma, inversamente, il mercato supera i suoi limiti e rinnova la sua pretesa alla totalità più vigorosamente che mai. Dopo che l’economia capitalista si è separata dal contesto culturale della vita e i resti si sono trasformati in sottosistemi separati, la sua dinamica non poteva fermarsi a questo stadio di disintegrazione. Benché dall’inizio i settori dell’arte della cultura, dello sport, della religione, del “tempo libero” etc parevano poter affermare una certa logica propria contro il sistema dominante dell’”economia svincolata”, d’ora in avanti essi vengono successivamente “economicizzati”. 

Questi campi erano inizialmente dipendenti e secondari: se il contesto sociale è determinato dal fine in sé separato del denaro, allora anche il sacerdote, l’atleta e l’artista devono “guadagnare denaro”, sia direttamente come venditori nel mercato, sia indirettamente con il denaro erogato dallo Stato prelevato dai processi di mercato. Ma ciò ha costituito per molto tempo soltanto una dipendenza esterna. Benché l’arte non ceda nella propria produzione alle leggi economiche del mercato, essa non può diventare una merce totalmente capitalista, ma solo qualcosa di supplementare nella circolazione. Ma il fine in sé capitalista è tanto affamato quanto insaziabile, e così deve divorare, da ultimo, lo stesso resto ormai mutilato della vita: l’arte e la cultura separate, tanto quanto il “tempo libero” miserabile e la limitata intimità familiare. 

L’arte torna alla vita solo nella misura in cui la vita ormai si dissolve nell’economia. Ora l’arte non ha più un’esistenza propria, né ormai è più in quanto sfera un’estetica separata, ma diventa un oggetto immediatamente economico e per questo la sua produzione ormai si realizza sotto i punti di vista del marketing. In generale tutti gli obiettivi della vita e del mondo smettono di avere qualsiasi valore qualitativo proprio nel capitalismo senza limiti della fine del 21° secolo, mantenendo solo il loro valore economico, che gli conferisce vendibilità. 

Ciò che i postmoderni adorano annusare come fosse un’opportunità emancipatrice dell’arte e della cultura di massa capitalistica è in realtà la loro distruzione. Se gli "allegri positivisti" della postmodernità (nei termini di Michel Foucault) vogliono riferirsi oggi a questa visione profetica di Adorno vicina al pessimismo culturale conservatore, allora essi dimostrano solo di essersi arresi senza condizioni di fronte all’imperativo economico, e non di essere meno affermativi dei conservatori apparentemente critici. Mentre il pessimismo culturale conservatore critica la distruzione dell’arte da parte dell’industria culturale capitalista solo dal punto di vista del suo passato, quando essa era ancora un’estetica con un fine in sé nella modernità classica, i postmoderni ingannano sé stessi riguardo l’impulso finale della dissoluzione dell’arte nell’economia come sua riappropriazione autentica da parte della società. E se la critica culturale conservatrice piange per la famiglia borghese e per i soggetti elitari dell’antica formazione culturale borghese, la postmodernità interpreta la miseria mediatica solitaria del “soggetto decentrato” come la primavera dell’emancipazione. Gli uni aderiscono al passato capitalista, gli altri al presente capitalista, ed entrambi rinunciano a una nuova prospettiva anticapitalista per il futuro. 

In questo senso, uomini e donne, artisti e venditori di automobili diventano oggi del tutto identici come se tutti avessero adottato la stessa identità vuota dell’”homo economicus” e si fossero trasformati in agenti senza volontà del “soggetto automatico”. La “differenziazione” delle soggettività settorialmente separate dall’economia di mercato è schiacciata, fino al punto che ognuna di esse si trasforma in venditrice di automobili, a prescindere da quel che fa. La fede ingenua nella democrazia dei consumatori dell’industria culturale postmoderna fa una figura ridicola di fronte alla dittatura dell’offerta capitalista. L’industria culturale non va criticata allora in quanto cultura di massa, ma perché si consuma nella forma alienata dell’”economia svincolata”. La sua estetica non è l’estetica degli uomini, ma l’estetica delle merci. 

Nella democrazia delle merci gli individui in quanto individui non hanno più nulla di dirsi. L’estetica delle merci non integra gli individui disintegrati, ma le merci come pseudo-oggetti spettrali. Essa non è la forma estetica di un contenuto, ma piuttosto il “design” dell’astrazione economica. Questo stadio finale dell’estetica moderna può essere descritto su diversi piani:

- In primo luogo, si tratta di un’estetica del particolarismo. Contesti e relazioni non sono presi in considerazione. Viene ignorato che il tutto è più e qualcosa di qualitativamente diverso dalla somma delle parti. Il design è l’estetica splendente delle merci astratte particolarizzate per il consumo degli individui astratti particolarizzati, mentre il paesaggio, le città e lo spazio sociale sono trasformati in discariche maleodoranti.

- In secondo luogo, questo design corrisponde a un’estetica dell’arbitrarietà. La forma e il contenuto smettono di essere in relazione tra loro, perché il contenuto è definito come forma. Al capitale poco importa se si valorizza per mezzo di carne di maiale, mine o lassativi. Di conseguenza, anche per l’arte economifizzata del design deve diventare indifferente ciò che essa produce, purché si presenti vendibile e atta alla messa in scena mediatica. Ciò elimina qualsiasi canone. Benché in un’integrazione culturale cosciente è sempre necessario sviluppare canoni, anche se si conosce la loro relatività e la possibilità di alterarli, l’estetica della merce è a priori destituita di canoni – il che si adatta al “soggetto decentrato” postmoderno, che è letteralmente uno “qualunque”. Un mondo senza modelli di misura, in cui tutto diventa indifferente, può generare una sola cosa: la noia infinita.

- In terzo luogo, l’arte e la cultura degradata dal design del mondo delle merci si esibisce come estetica della simulazione. L’idea delirante postmoderna di una derealizzazione del reale attraverso i media (Jean Baudrillard e le sue comparse) vorrebbe credere con il più grande piacere all’apparenza del design, poiché essa stessa la produce. La simulazione dei media tenta di costruire un mondo parallelo, virtuale e smaterializzato, nel quale il capitalismo non incontra più barriere naturali e sociali, e nel quale la crescita dell’”economia svincolata” possa proseguire senza fine. I mondi apparenti virtuali dei media corrispondono economicamente al capitalismo da casinò degli ultimi 15 anni: i mercati finanziari svincolati simulano un’accumulazione del capitale che da molto tempo non ha terreno economico sotto i piedi. Il capitalismo, per così dire, prosegue la sua corsa nell’aria dopo aver incrociato i bordi del precipizio. In questo ambiente economico di “capitale fittizio” (Karl Marx), di "boom" delle azioni, indebitamento, giochi al rialzo e sociologia del “rischio” (Ulrich Beck), si è sviluppato uno spirito del tempo che cerca di vincere l’insopportabilità delle imposizioni del capitalismo con un “fare come se…”. Nella posa simulativa di un’auto-estetizzazione mediatica gli individui agiscono “come se” fossero competenti, di successo, belli e visibili, benché le loro relazioni reali collassino. 

Il particolarismo, l’arbitrarietà e la simulazione denunciano che l’arte distrutta dalla sua mutazione in estetica delle merci può solo integrarsi negativamente nella vita sociale, senza avervi più vita. Il vecchio problema della separazione tra l’arte e la vita non è risolto, ma diventa inesistente, senza oggetto (gegenstandslos), poiché lo stesso individuo sociale è stato desoggettivato (gegenstandslos). Ma questa desoggettivazione si rivela come mera apparenza, in cui il “soggetto automatico” in un certo modo si fa illusioni su sé stesso nella testa degli individui. La realtà capitalista deve divenire irreale poiché è giunta, senza via d’uscita, alla fine assoluta del suo sviluppo, senza che gli individui sistematicamente condizionati vogliano ammettere questa crisi storica. Ma dietro il puro design dell’estetica delle merci si rivela inesorabilmente la loro vera esistenza negativa. Essi non possono fuggire dalla loro sofferenza reale, anche quando tentano la loro derealizzazione mediatica. 

L’"economia svincolata" può solo integrarsi tautologicamente in sé stessa, ma la sua pretesa di totalizzazione senza attriti deve fallire, poiché essa rende veramente negativa la vita reale e sensibile, ma non può assorbirla nel suo mondo surreale delle astrazioni indipendenti, così come è incapace di “derealizzare” o abolire la morte. Ciò che è represso non torna, ormai rimane sempre lì. Solo nella superficie del design il sistema delle scissioni appare dissolto nell’economifizzazione del mondo. Dietro questa apparenza, tuttavia, il mondo reale disintegrato diventa insopportabile. Così come la scissione dei generi non scompare nei travestiti, nel frattempo, anche l’”inselvatichimento postmoderno del patriarcato” (Roswitha Scholz) carica primordialmente sulle spalle delle donne il peso della crisi sociale dopo la decomposizione della famiglia borghese, e allo stesso modo neanche la miseria estetica del mondo funzionalmente orientato scompare nel design dell’estetica delle merci, ma emerge in modo ancora più denso nella desolazione dello spazio pubblico economicizzato.

Se la crisi reale non può più essere repressa, la derealizzazione dei media prosegue con l’”estetizzare” la miseria insuperata e dolorosamente percepita, anche quando questa estetizzazione della crisi non assume le forme politiche degli anni ’30, ma appare anche nella stessa politica “economicizzata”. Intanto, la medializzazione commerciale ed estetico-mercantile della povertà, della violenza e dell’inselvatichimento delle relazioni tra i genere si apre ai sorrisi falsi dei motivi del fascismo. L’estetica della derealizzazione per i media e per l’arbitrarietà senza canoni è l’estetica della guerra civile e della barbarie, visto che essa elimina, in ultima istanza, i freni civilizzatori. 

Un ritorno alla modernità classica è oggi tanto poco possibile quanto un ritorno alle forme agrarie della società culturalmente integrata. Ma la sopravvivenza della disintegrazione capitalista è tantomeno possibile. L’arte stessa può essere superata positivamente solo quando coscientemente si trasforma in un momento di un nuovo movimento sociale che trascenda il vecchio marxismo del movimento operaio e metta a nudo le radici che hanno prodotto il sistema delle scissioni e separazioni funzionali. Un’integrazione culturale della società a nuovi e più elevati gradi di sviluppo sarà possibile solo quando sarà distrutto il fine in sé dell’economia e superata la scissione di base tra i sessi. Il presupposto di un nuovo dibattito emancipatorio è oggi la legittima difesa contro l’economicizzazione capitalista del mondo. 

Originale Die Ästhetik der Modernisierung; Robert Kurz (gennaio 2002)

Traduzione by lpz


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