Orientamento simbolico
e nuova critica sociale
Ci potranno ancora essere
obiettivi culturali per il 21° secolo? Malgrado la crisi sociale mondiale, o
forse proprio a causa sua, non si tratta più, in questo cambio di secolo, di
conquistare nuovi orizzonti. E’ vero che il pozzo dei desideri senza fine della
modernità continua a ricevere le sue monetine, ma pochissimi sono quelli che
ancora gli danno credito. Per iniziare qualcosa di nuovo sarebbe necessario
procedere a un appassionato dibattito sui progetti sociali cui si aspira. Ma le
passioni sociali, politiche e culturali sembrano estinte, i discorsi dei media
si trascinano stancamente. Né nella relazione sociale, né in quella con la
natura sono proposte nuove sfide. L’idea di un grande “compito dell’umanità”
non è solo antiquata ma anche ingenua e decisamente inappropriata.
Ciò che oggi viene lodato come
nuovo e promettente non ha più un contenuto o un fine qualsiasi, ma è semplice
forma, semplice mezzo, apparato spogliato di ogni spirito. Intenet ne è il
migliore esempio. Quanto più rapidamente evolve la tecnologia della
comunicazione, tanto meno si hanno contenuti che valga la pena trasmettere. Se il
mezzo tecnologico spodesta il contenuto, la stessa “ragione strumentale”
conduce all’assurdo. Nello stadio finale di questo processo, gli esseri umani
equipaggiati di mezzi di comunicazione perfetti non hanno più nulla da dirsi.
Questa illimitata assenza di
contenuto e di obiettivo annuncia l’esaurimento intellettuale e culturale del
sistema sociale dominante. Se l’essere umano può realizzarsi come individuo solo
dentro la società, come individuo egli può coltivare solo contenuti e obiettivi
sociali. L’individuo rivolto esclusivamente a sé stesso è per forza di cose
vuoto, incapace di forgiare contenuti propri; i suoi progetti si perdono in
banalità insignificanti. Alla fine del XX° secolo la modernità è immersa in un
tedio mortale. In questo senso, nell’aspetto propriamente culturale, la
microeconomia estremista, l’atomizzazione sociale e la perdita di solidarietà
hanno ottenuto la loro vendetta sul capitalismo. Poiché si allontanano le une
dalle altre, le monadi sociali ormai non riescono a imporre obiettivi comuni; e
poiché non hanno più una relazione di contenuto tra loro, si allontano sempre
più le une dalle altre. Una società incapace di sfide comuni, tuttavia, è
condannata al deperimento.
Per poter formulare un obiettivo,
un progetto comune, diventa urgente un "senso" culturale, un
orientamento spazio-temporale della società. Questo orientamento non riposa
solo nella tecnica o nell’economia, ma anche nella psiche sociale,
nell’immaginario sociale, nella relazione tra i sessi e nella “voglia di
vivere”, per non parlare della relazione con la storia. Chiaro: anche il
capitalismo ha posseduto un tale orientamento simbolico-culturale. Ma in quanto
sistema sociale che ha raggiunto i suoi limiti, ora non riesce più a
intravedere alcun obiettivo e perde ogni orientamento nello spazio e nel tempo.
Il dovere, propagandato senza tregua da tutti i media, di conformarsi al
processo cieco del mercato mondiale, non rappresenta un obiettivo sostanziale
di attiva riconfigurazione, un “progetto umano” positivo: è solo la mera
identificazione meccanica con una struttura che da tempo si è fatta indipendente,
che a priori converte ogni contenuto e ogni obiettivo, o progetto, allo status
di indifferenza. Di qualunque cosa si tratti, non gode di alcun senso autonomo,
fornisce solo materiale all’ordinario processo di valorizzazione del capitale.
Che la cosiddetta postmodernità,
in questo punto decisivo, non abbia né superato la modernità, né creato nulla
di nuovo è ormai dimostrato dalla mancanza di contenuto della sua stessa
concezione, che rimanda a un “futuro” vuoto. La postmodernità, oltre a non
fornire alcun orientamento culturale, innalza il disorientamento a virtù. Il
sistema produttore di merci, pietrificato in un’accelerazione senza obiettivo, dovrebbe
scampare dal suo stato di esaurimento culturale per continuare a roteare con moto d’inerzia per l’eternità. La
teoria postmoderna è, in un certo modo, la caricatura di una guida, nella
misura in cui indica tutte le direzioni nello stesso momento ed è quindi priva
di significato.
E’ facile vedere che un nuovo
orientamento simbolico-culturale e nuovi obiettivi sociali possono essere
plasmati solo dalla critica radicale dell’ordine sociale agonizzante; e la
critica radicale rappresenta proprio ciò che la postmodernità rifiuta come impensabile.
Ora, la critica socialista della società, con il suo oggetto, si è esaurita perché
essa stessa era, di fatto, la quintessenza del capitalismo. Il capitalismo
statale dell’Est, costituendo un mero sottoprodotto del capitalismo privato
dell’Occidente, ha condiviso con esso il suo immaginario culturale e il suo
codice simbolico. La critica sociale del XIX° e del XX° secolo si era fermata ai
confini del moderno sistema produttore di merci; era essa stessa un ramo della
“ragione strumentale”, finendo per esserne
catturata e inghiottita.
Che un nuovo orientamento
culturale possa essere ottenuto solo mediante una critica radicale della
società vale anche inversamente: una tale critica dell’ordine dominante può
essere formulata solo nel XXI° secolo per mezzo di una codificazione simbolica
fondamentalmente differente della percezione dello spazio e del tempo. Chi
vuole rompere il “terrore dell’economia” deve infrangere con piena coscienza anche
il codice simbolico del capitalismo; la critica dell’economia può essere realizzata
solo se accompagnata da una critica dell’ordine simbolico e dell’orientamento
culturale inerente a questo sistema, ossia, se attira l’attenzione e le
speranze in un’altra direzione e soprattutto se ribalta l’”immagine del mondo”.
Finora tale problema è stato poco
discusso con la dovuta ampiezza e profondità quanto la critica delle categorie
economiche; è per questa ragione che la sinistra batte di nuovo in ritirata,
mentre l’esaurimento del mondo capitalista diviene sempre più esplicito. In cosa consiste, al dunque, l’orientamento
culturale ormai obsoleto del capitalismo? Il suo asse del tempo è senza dubbio
una dinamica rivolta unilateralmente verso il futuro. La modernizzazione è
sinonimo di svalutazione permanente del passato, della storia. "Il nuovo",
la moda, lo sviluppo economico incessante, la perpetua mobilità come valore in
sé prevalgono indipendentemente dalla loro qualità. La concezione moderna della
storia, così come la filosofia dell’illuminismo l’ha forgiata, è definita da
questo codice nel quale l’umanità appare in un certo qual modo come un razzo
sparato che percorre la sua orbita in un movimento storico ascendente,
meccanico. In questo turbamento, il passato emerge solo come resti carbonizzati
del presente, e il presente come resti del futuro.
La presunta controparte reazionaria,
vale a dire un’idealizzazione immaginaria del passato, non è che l’altra faccia
della medaglia. In essa non si coglie il valore specifico delle culture passate
né l’aspetto distruttivo della dinamica capitalista, ma viene solo mistificata
e proiettata nel passato la relazione capitalista del dominio impersonale. E’
il proprio passato che il capitalismo idealizza nelle moderne ideologie
conservatrici e reazionarie, con l’intenzione di bandire repressivamente le
conseguenze catastrofiche della sua dinamica cieca e dei suoi antagonismi
sociali interni. Quanto a questa idealizzazione, si tratta in realtà di un modo
diverso di svalutare la storia. Pessimismo culturale reazionario e ideologia
liberale progressista rappresentano i due poli culturali dello stesso ripudio
capitalista della storia, del resto intercambiabili: il pensiero fascista
contiene entrambi gli aspetti in eguale misura.
Nell’era postmoderna questa
polarità di "progresso" e "reazione" immanente al
capitalismo è collassata su sé stessa, ciò che viene festeggiato di buon grado come
superamento della contrapposizione tra “sinistra” e “destra” ma che in realtà,
a fianco dell’esaurimento culturale, annuncia anche l’esaurimento politico ed
ideologico del capitalismo. Il "progresso" borghese è caduto in un
movimento circolare, vuoto di senso, con il quale si identifica la “reazione”.
La svalutazione del passato ora avviene solo in un’unica maniera, trasformando
anche la storia, le culture, le idee e le relazioni passate in merci che
possono essere consumate apparentemente a piacere. Tale contemporaneità
allucinata, che immerge tutto lo spazio della storia umana nella luce fredda
del mercato e sopprime tutte le differenze, tanto più quando si parla di
“differenza”, dà alla cultura postmoderna la sconfortante immagine di scimmie che
giocano in una biblioteca facendo confusione strillando sui libri.
Un nuovo orientamento della
cultura legato alla critica radicale del capitalismo può consistere soltanto nel
porre fine alla permanente svalutazione della storia, non nel senso di un’idealizzazione
di un passato qualsiasi, né come suo consumo, ma come ricerca critica delle
tracce che il capitalismo ha sistematicamente cancellato. Si tratta di scoprire
la storia del disciplinamento moderno e dell’addestramento umano, della
trasformazione storica della vita in materiale per gli imperativi economici, al
fine di mettere in dubbio l’apparente naturalezza di questo modo di vita. Oggi,
ogni manager, politico, stella del calcio, alla domanda sui suoi scivoloni e
sulle relative cause, risponde sempre con la frase stereotipata: “Noi guardiamo
avanti”. L’inversione di questa prospettiva sarebbe, in qualche modo, un
orientamento simbolico verso una retrospettiva critica, un rifiuto della legge
del moto capitalista, uno “sparare agli orologi” (Walter Benjamin).
Per conquistare un altro futuro,
il passato sepolto è paradossalmente più importante del futuro vuoto. Il
progresso dell’emancipazione può essere salvato
solo se il pensiero critico si emancipa dal codice simbolico della filosofia
illuminista borghese, cioè da un concetto di storia che implica un orientamento
futuro permanente, “automatico”, guidato dalla “mano invisibile” dell’economia.
Oggi progressista è fermare il passo e voltarsi indietro, allo scopo di
guardare in retrospettiva le macerie della modernità. Si tratta dunque di una
nuova comprensione della storia, di un ribaltamento dell’immagine storica
mondiale. La società può tornare a sé solo quando sviluppa una certa passione
per un’archeologia radicalmente critica della modernità esaurita.
Una tale inversione di
prospettiva comporterebbe anche conseguenze per un orientamento psicologico.
Questo perché la svolta critico-emancipatoria retrospettiva, con lo scopo di
accertarsi della storia, comporta anche una mutazione nella relazione
simbolico-culturale tra “interno” ed “esterno”. Nel capitalismo l’essere umano
è “guidato esternamente” da criteri di prestigio e di bella apparenza, così
come vengono suggeriti dalla pubblicità, , dalle confezioni, dall’”autopresentazione”.
Anche qui, però, l’inversione del senso culturale non favorirebbe il rovescio
reazionario della medaglia, una mistificatoria “vita intima” o una
“contemplazione esoterica” atta a rifugiarsi in un immaginario “io”, al riparo
delle contraddizioni sociali. Al contrario, l’”introspezione” emancipatoria
consiste nel rivelare la storia rimossa e la falsa oggettivazione delle
coercizioni capitaliste anche nella psiche e nel linguaggio, per mezzo di una
sorta di ”archeologia interna” della modernizzazione, tanto sul piano personale
quanto su quello psicosociale, al fine di rilevare il processo di
“interiorizzazione” psichica di queste coercizioni. La psicoanalisi,
prematuramente dichiarata morta, e la critica femminista del linguaggio offrono
inesauribili possibilità per una tale ricodifica.
Infine, non deve passare sotto
silenzio anche l’orientamento nello spazio di questa radicale mutazione del
paradigma simbolico-culturale. Così come temporalmente la dinamica capitalista
è ciecamente orientata verso il futuro, spazialmente essa è orientata “verso
l’alto”. Già agli inizi del secolo passato, il poeta futurista Marinetti
desiderava che l’automobile decollasse come un razzo; e qualche decennio più
tardi infatti un uomo sbarcò sulla luna. Che quest’immagine “rialzata” del
capitalismo si definisca per criteri maschili già si rivela, rasentando il
ridicolo, nello stesso formato del razzo quale simbolo del fallo. La direzione
verso lo spazio aereo e siderale, che non a caso si fonde con tratti militari,
contiene l’immagine di una sessualità maschile “svincolata” e che in un certo senso
ha preso il volo.
Ma questo codice simbolico si è
esaurito da molto tempo. Il viaggio nello spazio è diventato tanto monotono
quanto il futuro vuoto del mercato. Sui pianeti raggiungibili si trovano solo
deserti fisico-chimici. E comunque il loro sfruttamento capitalista come fonte
di risorse rimane illusorio poiché i costi stratosferici del trasporto divorerebbero
il possibile bottino. La tecnologia dei combustibili fossili su cui si basa il
modo di produzione capitalista è troppo primitiva per un’”aurora nello spazio”.
I cosmodromi Canaveral e Baikonur sono oggi rovine della virile civiltà
produttrice di merci, solo che non ce se n’è ancora resi conto.
Una radicale ricodifica simbolica
della relazione con lo spazio avrà lo sguardo “vero il basso” (perché non è soltanto in un senso archeologico che
la nostra storia si trova sotto i nostri piedi), in vista delle sfide e delle
esigenze tecnologiche della riproduzione sociale. Oltre l’interno della Terra,
buona parte della superficie terrestre resta ancora inesplorata, sia nel
sottosuolo che nelle profondità oceaniche. Che il dispendio di risorse e
competenze qui sia minimo in confronto ai viaggi aerei e spaziali mostra la
profonda dipendenza dello sviluppo tecno-scientifico dai codici simbolici
obsoleti del capitalismo. Se l’essere umano è un essere culturale, dovrà
cercare un nuovo orientamento culturale nello spazio, nel tempo e nella psiche;
e nel secolo XXI° forse questa svolta rivoluzionerà tanto la società quanto la
crisi sociale ed economica.
Originale Die Kulturelle Richtung
des 21 Jahrhunderts ; pubblicato in Folha de Sao Paulo 1999/11/28
Traduzione by lpz