martedì 17 giugno 2014

Il post-marxismo e il feticcio del lavoro



Sulla contraddizione storica nella teoria di Marx

Robert Kurz

Se il marxismo come forma storica (e a essere storicizzata) della riflessione teorico-sociale non deve oggi essere portato avanti integralmente né semplicemente scartato come “errore” storico, ma va prima superato (aufzuheben), rimane allora da sapere con l’ausilio di quali contenuti e criteri si deve procedere a questo atteso superamento. Com’è noto, un marxismo integrale, unitario e incontrovertibile non è mai esistito, neanche durante la storia interna, ormai giunta alla fine, dell’epoca della “modernizzazione”. Questo fatto, rende oggi apparentemente di nuovo possibile una reazione alla crisi (o in effetti alla decadenza) da parte del marxismo, reazione questa però essenzialmente vincolata al passato e che vorrebbe dissotterrare alcune di quelle antiche ossa dalle molte varietà e ramificazioni che già nel passato ebbero un destino ideologico da Neanderthal. Il problema del superamento non può tuttavia essere archeologico: tutta la storia della modernizzazione degli ultimi cento anni, con tutti i suoi marxismi, è da mettere in discussione. Per fissare un punto di partenza, può essere utile un breve sguardo alle rotture nella stessa storia ideologica del marxismo del movimento operaio, o della modernizzazione, fino ai nostri giorni.



Storia e declino del marxismo

Spesso la teoria di Marx è stata dichiarata morta ma ripetutamente essa ha mostrato la forza per sopravvivere di fronte a relazioni insuperate nelle quali l’uomo rimane in buona parte un essere schiavizzato da mute coercizioni. Nella storia della modernizzazione, questo stato di cose non potette mai essere superato e al momento siamo apparentemente più lontani che mai dal compimento di questa promessa di superamento. Tuttavia non si deve sperare con troppo fervore in una resurrezione quasi automatica dei principi marxiani e del loro contenuto emancipatorio così come i liberali attendono i poteri autocurativi del mercato, alcuni veteromarxisti il prossimo “modello di accumulazione” capitalista e le sette escatologiche il ritorno di Cristo. Già in passato, la sepoltura e la resurrezione di Karl Marx erano accompagnate da rotture e rifiuti teorici e sociali, nei quali il processo di modernizzazione ancora inesausto si imponeva alle lotte rivelandosi in nuove e inaspettate forme. Così, le diverse "crisi del marxismo" conducevano ogni volta a una forzata e controversa reinterpretazione e riformulazione della teoria di Marx in un contesto sociale modificato.

La prima "crisi del marxismo" scoppiò quando, dopo la lunga stagnazione seguita all’unificazione tedesca, si rese evidente l’ulteriore capacità di accumulazione a lungo raggio del capitalismo e ovunque il movimento operaio occidentale si orientò a una “realpolitik” riformista e immanente al capitale. Mentre i marxisti riformisti, dei quali Eduard Bernstein era uno dei rappresentanti in Germania, riformularono in questo senso la teoria di Marx, scartando alcuni suoi momenti come falsi o “metafisici”, i guardiani del Graal dell’eredità non adulterata di Marx, con Karl Kautsky in testa, insistettero su un’ortodossia sempre più sterile che non poteva essere concretizzata nella realtà sociale del momento. Questa ortodossia rimase in ogni caso, perlomeno in Germania, la dottrina teorica ufficiale della socialdemocrazia, anche se la prassi politica vi aveva sempre meno a che fare.

La seconda “crisi del marxismo”, durante la Prima Guerra Mondiale, provocò il grande scisma tra la socialdemocrazia e il comunismo. Questa volta, a differenza dell’epoca precedente, la reinterpretazione della teoria di Marx venne da "sinistra". Con la Rivoluzione di Ottobre alle spalle, Lenin ruppe tanto con il riformismo occidentale quanto con la piatta ortodossia kautskyana. In risposta ai problemi della rivoluzione in una Russia arretrata in termini capitalistici, la teoria di Marx fu riformulata, tuttavia più nell’aspetto "politicista", nel senso di un’affermazione rivoluzionaria del potere e come modellamento di relazioni in buona parte agrarie e premoderne, che nella critica dell’economia politica o nel suo contenuto filosofico. Il "radicalismo" si riferiva soprattutto ai procedimenti e alle forme del movimento politico, meno al contenuto storico e quasi per niente alla forma economica della società, una volta che la postulata alternativa della pianificazione economica non abbandonò mai le categorie economiche fondamentali della modernità produttrice di merci, la cui forma occidentale rimase per molti aspetti modello esplicito. Tutto avvenne sotto l’”economia pianificata” e l’”eliminazione della proprietà privata”, come derivato economico-statale della relazione capitalista.

La reinterpretazione comunista o bolscevica della teoria di Marx si trasformò così nel programma teorico per una modernizzazione di recupero nelle regioni arretrate in termini capitalisti nell’est e nel sud del pianeta. Essa trovò la sua efficacia storica nell’industrializzazione sovietica, nella rivoluzione cinese e nei movimenti di liberazione nazionale anticolonialisti. In occidente, invece, il comunismo e i rami della sinistra radicale rimasero minoritari o semplici fenomeni marginali. Benché la loro teoria non corrispondesse alle relazioni occidentali sviluppate, il cosiddetto “primato della politica", in realtà germinato sul terreno di una modernizzazione in ritardo, si trasformò nell’eredità teorica e nel marchio di fabbrica anche del comunismo occidentale fino a oggi, spesso esteso in forma volontaristica, in corrispondenza del fatto che la critica dell’economia politica non fu sostanzialmente portata oltre lo stadio raggiunto da Kautsky/Hilferding (o, sulla loro scia, da Lenin).

Lo shock della crisi capitalista del mercato mondiale, il grande successo temporaneo dell’industrializzazione sovietica, la rivoluzione cinese e i risultati della Seconda Guerra Mondiale stabilizzarono, in un primo momento, la riformulazione comunista della teoria di Marx e sembrarono suggerire l’avvento di un sistema comunista mondiale (capitalista di Stato o socialista di Stato). La terza “crisi del marxismo” divenne però inevitabile quando il “miracolo economico” occidentale del dopoguerra, con tassi di crescita senza precedenti, fece impallidire e ridurre a rituale redistributivo la critica del capitalismo nei paesi occidentali sviluppati, mentre allo stesso tempo le economie orientali (e meridionali) della modernizzazione in ritardo decaddero sempre di più cominciando a pietrificarsi sia nell’aspetto economico che in quello sociale, culturale e teorico. Il “marxismo-leninismo" venne congelato in uno schema dogmatico e la socialdemocrazia occidentale si sbarazzò della teoria di Marx in generale come dottrina ("Godesberg" ) (1).

La ricostruzione e riformulazione della teoria di Marx anche in questa situazione venne nuovamente da “sinistra”, questa volta in un peculiare amalgama con, da un lato, le teorie occidentali del soggetto, rappresentate principalmente dal movimento giovanile e studentesco del ’68 e, dall’altro, l’ultima ondata dei movimenti di liberazione nazionale del Terzo Mondo (Vietnam ed altri), affiancata dall’interpretazione specificatamente cinese di Marx da parte di Mao Tse-tung. Il denominatore comune di queste interpretazioni era l’esaltazione teorica del volontarismo “politicista”. Così, tale riformulazione della “nuova Sinistra” fu la più fiacca che mai, poiché non faceva che riprodurre in forma estesa e nel nuovo contesto il vecchio "politicismo" delle sinistre radicali e il loro volontarismo nelle rispettive correnti degli anni ’20 o ’30. L’unica fonte realmente originale nella “Nuova Sinistra” (a fianco di Ernst Bloch, la cui ricezione rimase tuttavia marginale) era costituita dalla Teoria Critica della Scuola di Francoforte, formulata molto prima e che in generale rimase al margine delle questioni marxiste. Tale progetto, le cui implicazioni "oscure" e a volte cripticamente formulate rimasero inesplorate, fu da allora assimilato quasi esclusivamente in una lettura volontaristica e reso perfino compatibile con la grezza dottrina utilitarista delle "idee di Mao Tse-tung". La riformulazione della teoria di Marx da parte della "Nuova Sinistra" apparve così come il prodotto del tramonto del marxismo, nel quale nessun progetto realmente autonomo fu elaborato, essendo piuttosto tutte le concezioni del passato riproposte più volte ecletticamente.

La critica del capitalismo da parte di questo ardente radicalismo di sinistra fu sempre debole nella misura in cui lasciava intatte le forme basilari del sistema capitalista e produttore di merci, percepite solo nel loro aspetto esteriore. Le società in sviluppo dell’est e del sud, basate su un’economia statale di recupero tardivo, furono criticate sul piano politico e culturale (in maniera insufficiente e irrilevante) a causa di certi fenomeni “non-democratici”, mentre la loro vera forma di riproduzione borghese continuò per equivoco a essere considerata come “base economica del socialismo”. Si rese inevitabile la quarta “crisi del marxismo". Sotto le condizioni della produttività e dello sviluppo del mercato mondiale degli anni ’80, crollò prima gran parte del cosiddetto Terzo Mondo e poi anche le economie del cosiddetto “socialismo reale”. Le concezioni politiciste della sinistra si rivelarono essere in ultima analisi conformi al capitale e mutarono in una nuova “Realpolitik". La Nuova Sinistra sperimentò così la sua "Godesberg" particolare. La teoria marxiana, diseguale già dalla sua storia di ricezione contraddittoria negli impeti globali della modernizzazione fin dagli inizi del XX secolo, fu ancora una volta prematuramente calata nella tomba.

Se ora si solleva la questione del ripetuto revival di una teoria critica, che di fatto può morire solo insieme con il suo oggetto, il capitale, questo non si dà certo per ragioni di fedeltà ideologica da parte di una devota parrocchia marxista, stretta alla sua bibbia e saldamente ferma nella propria fede. Così come nel passato, anche oggi solo una costellazione sociale del proprio tempo sarà capace di infondere nuova vita alla teoria marxista considerata morta. La realtà contemporanea della società mondiale, un lustro dopo il collasso del socialismo reale, è comunque quella di una crisi globale di dimensioni mai viste. Molto più probabile della trasformazione delle società in decomposizione dell’est e del sud in economie di mercato e democrazie funzionali, con una nuova ondata di accumulazione capitalista mondiale, è la fine comune della modernità produttrice di merci in una barbarie globale. Difficilmente si avrà una soluzione se le varie domande di rinnovamento derivanti dai precedenti marxismi sfoceranno in un certo modo in un bernsteinismo elevato a potenza. Tuttavia, sembra essere appunto più o meno questo il caso nella maggior parte dei progetti di lunga tradizione del residuo marxismo accademico.

La ragione più profonda del perché questa elaborazione dell’ultima crisi del marxismo è notevolmente superficiale, poco plausibile e non porta a niente di nuovo risiede nel fatto che tutti i marxismi, fino a oggi, sono rimasti immanenti alla storia della modernizzazione, ossia, sono stati più impegnati nelle dinamiche della modernizzazione, contro la società agraria premoderna e i suoi resti, che con la critica ancora non chiaramente formulata del sistema produttore di merci della modernità stessa. Ciò non vale solo per i marxismi nelle società della modernizzazione in ritardo dell’est e del sud, ma anche per i marxismi del vecchio movimento operaio in occidente. Il marxismo nel suo complesso ha cioè sviluppato la sua polemica principalmente contro i rapporti e i parametri premoderni, nei cui termini lo stesso rapporto capitalista è stato interpretato e criticato.

Questo non deve meravigliare, dato che il capitale, con le sue forme e sfere secondarie corrispondenti, in nessun modo fece il suo ingresso nella storia a uno stato puro e tipicamente ideale, ma in maniera diversificata e inestricabilmente vincolata e mescolata a strutture, modelli di comportamento e modi di pensare tradizionali. Fino al XX secolo, “il capitale” fu, per così dire, identico alla sua storia di consolidamento (nello stesso occidente), ossia, “fu" una miscela in e con un mondo ancora non pienamente capitalizzato, "fu" l’abbraccio di momenti capitalisti e precapitalisti, moderni e premoderni. Sotto queste condizioni, non si poteva in realtà criticare il capitalismo in quanto tale (cioè nelle sue forme feticistiche basilari), ma soltanto un amalgama sociale in cui in ogni momento ci si imbatteva nella pratica dello sviluppo, in un certo modo dal punto di vista virtuale del “grado successivo” (sempre capitalista).

In altre parole: quello che i marxisti criticavano era il capitale empirico di un empirico stato di transizione storica (il passato visto dall’oggi), e questa critica, immanente e necessariamente limitata, era incapace di distinguersi da una critica che puntasse al fondamento della modernità capitalista in generale. Così come i concetti di questo marxismo, nel suo complesso, erano imbevuti della problematica ancora inesplorata della modernizzazione, e così come la loro enfasi rivoluzionaria, quando la possedevano, era presa in prestito dai momenti giacobini della rivoluzione borghese (o dalla loro ripetizione nelle dittature della modernizzazione dell’est e del sud), le idee di trasformazione e “socialismo” in tutto questo lungo periodo non raggiunsero mai le categorie basilari del moderno sistema produttore di merci.

Il grosso del marxismo accademico non è più capace di liberarsi dal fardello di questa eredità, malgrado l’era nel suo complesso si giunta alla fine nel 1989. La caduta del socialismo reale non è concepita come parte di una crisi storica generalizzata della modernità, ma soltanto come il disastro dovuto a un presunto distanziamento radicale dalle “leggi di mercato”. I falsi innovatori desiderano pertanto scartare di Marx esattamente ciò che non è compatibile con le categorie fondanti della scienza economica (valore, prezzo, redditività etc), per lasciare dunque solo uno spaventapasseri teorico privo di significato, i cui stracci della critica si incontrano anche, e migliori, in altri luoghi. Essi non percepiscono che così rendono sé stessi superflui come marxisti (ecco, talvolta, il senso segreto del loro “rinnovamento”), visto che non hanno alcun contributo originale da dare all’analisi della realtà del mercato esistente e della sua Realpolitik. Uno pseudo-rinnovamento marxologico che voglia così procedere può solo entrare in declino, insieme con il marxismo che ha perduto il suo scopo.

Il duplice Marx

Per un vero rinnovamento della teoria di Marx, non ci si può più porre il problema di una semplice interpretazione (come continuazione della lunga serie di interpretazioni), ma ora, alla fine della modernità, il problema è proprio quello del superamento di questa teoria e quindi delle sue interpretazioni. Che la teoria di Marx si sia convertita, contro la volontà esplicita del suo autore, in "marxismo", perdendo così il suo status di teoria sociale assolutamente comune, con limiti umani e storici di conoscenza assolutamente comuni, e si sia trasformata di fatto in una specie di dottrina salvifica, che perfino nelle varianti più critiche del “marxismo occidentale” si sottraeva a una distinzione dei suoi contenuti, a una revisione e pertanto storicizzazione, ha a che vedere certamente col fatto che lo stesso progetto di Marx andò oltre la capacità di comprensione (e in questo modo, per così dire, oltre sé stesso) che la prassi sociale ancora imponeva all’interno della storia della modernizzazione capitalista.

Pertanto non è possibile scindere Marx dal marxismo e dalla storia della modernizzazione, e incriminare i marxisti di semplice “errore” (interpretativo). Piuttosto, s’impone in primo luogo il compito di indagare quello che infine è ancora "teoria della modernizzazione" nella stessa teoria di Marx, e che si è reso ormai obsoleto con il livello di sviluppo ora raggiunto, nella maturità della crisi dell’era moderna. E come un ritorno alla premodernità non è ovviamente possibile né auspicabile, sarebbe allo stesso tempo da indagare quali momenti della teoria di Marx, d’altro lato, si riferiscono alla costellazione solo adesso raggiunta, essendo talmente avanzati al suo tempo che solo oggi ci raggiungono e solo oggi possono rendersi efficaci.

Da questo punto di vista, si può procedere a una storicizzazione e distinzione della teoria di Marx che discerne due vie teoriche in ultima istanza incompatibili, non come una relazione tra “errore” e “verità”, ma come un problema di non contemporaneità storica all’interno della stessa teoria di Marx, e così riconoscere un “duplice Marx”. La prima linea argomentativa, “essoterica”, teorizzante la modernizzazione e immanente al feticcio, si riferisce alla forma interna del movimento e alla storia dell’imposizione del capitale come giuridificazione e reificazione di tutte le relazioni, il cui orizzonte di sviluppo era ancora connotato positivamente. E questo è, in verità, il Marx corrente e mondialmente conosciuto: "punto di vista del lavoratore" e lotta di classe sono concetti centrali di questa linea che condurranno al marxismo storico.

La seconda linea argomentativa di Marx, “esoterica” e in senso letterale “radicale” (cioè che scende alle radici) si riferisce alla reale mistificazione della forma come tale della merce e del denaro, “nella” quale la modernità, al pari dei suoi conflitti immanenti, si espone, impone e sviluppa. Da un lato, dunque, una mobilitazione e un intervento teorico, e allo stesso tempo politico, all’interno del movimento della modernizzazione (in ultima istanza giudicato positivamente); dall’altro, una metacritica “oscura” del sistema di riferimento specifico della stessa modernità produttrice di merci.

In altre parole, si tratta ora inappellabilmente di liberare l’opera di Marx dai modi di interpretazione obliqui e impregnati di incenso, il cui elemento quasi religioso rimanda a un lato oscuro irredento (e fino a oggi irredimibile) di questa teoria. Il momento quasi religioso del marxismo deriva certamente anche dal contenuto religioso secolarizzato dello stesso movimento della modernizzazione, che altro non è che la liberazione di una forma feticcio (valore e denaro). Dentro questo movimento storico come un tutto, tuttavia, la specifica forma fenomenica dell’adorazione marxista del feticcio si nutre del timore di fronte l’impossibile e irredimibile in generale nella teoria di Marx, vale a dire, di fronte al principio di una critica radicale di questa stessa forma feticcio oggettivata e interiorizzata.

Il tabù assoluto della modernità nei confronti della forma merce/forma valore come tali, del denaro e della stessa forma del soggetto, si presta tanto poco al tema della critica e del superamento per la coscienza costituita in modo feticista quanto il mistero per i religiosi. Il "modo di produzione basato sul valore" (Marx), che traccia la sua orbita come una cometa incandescente alla fine catastrofica, presuppone ciecamente il valore come categoria-feticcio e imposta ogni riflessione verso questa forma, entro la quale non solo si agisce ma si pensa. Solo la fine catastrofica rende socialmente tematizzabile la “seconda pelle” di questa forma feticcio della modernità (cosa che non garantisce ancora la liberazione da questa pelle); il carattere teoreticamente erratico della teoria di Marx sta appunto nel fatto che essa contiene questo problema come suo centro occulto. Il timore dei marxisti praticanti di fronte a questo nucleo duro e (per loro) allo stesso tempo dubbio, che in epoche passate non potette essere rotto, immerge la teoria marxista e la storia della sua ricezione in quella particolare penombra quasi religiosa.

Ora, la critica del feticcio nella teoria di Marx in buona parte non fu ancora formulata e molto meno concretizzata nel senso di un “movimento di superamento”, considerando del resto il gigantesco volume di frammenti lasciato da Marx (anche se, o proprio perché, desiderava essere estremamente “sistematico”, un fatto teorico-scientifico e storico-teorico non senza interesse). Una tale acutizzazione della critica sociale concreta nei confronti della costituzione feticistica del capitale, ossia, del denaro eretto ad autoreferenzialità paradossale come movimento della valorizzazione, sarebbe stata ben più di un requisito eccessivo per una teoria di poco posteriore alla metà del XIX secolo. In un tempo in cui la relazione capitalista aveva ancora di fronte a sé più di un secolo di sviluppo strutturale e di storia di imposizione sociale (mondiale), la critica radicale delle categorie basilari della socializzazione in forma merce sarebbe rimasta assolutamente isolata.

Che Marx presentisse la contraddizione nella sua teoria si apprende da innumerevoli asserzioni. In Germania scrisse nella prefazione della sua opera principale "siamo tormentati, come tutto il resto dell'Europa occidentale continentale, non solo dallo sviluppo della produzione capitalistica, ma anche dalla mancanza di tale sviluppo" (Il Capitale, vol. I, p. 12). Marx cercava qui solo un paragone diretto tra la Germania sottosviluppata di allora e la Gran Bretagna già industrialmente avanzata, ma con ciò captò involontariamente in un’unica formula tutto il programma storico del movimento operaio. Non soltanto i paesi continentali dell’Europa erano sottosviluppati in relazione alla Gran Bretagna, ma il capitalismo come tale era ancora, per così dire, in relazione a sé stesso e aveva di fronte (al contrario delle aspettative di Marx) uno spazio secolare di sviluppo storico, nel quale il movimento operaio e il marxismo cominciarono ad agire come punte di diamante per lo stesso avanzamento del sistema capitalista.

Marx impegnò naturalmente ogni sforzo non solo per riconciliare e mediare entrambi i principi incompatibili della sua teoria, ma anche per esporli come principi di origine logica diversa. Quanto più il movimento operaio si appropriava della sua teoria sotto la variante “essoterica”, tanto maggiori erano le sue illusioni su questa capacità di mediazione e più rabbiose diventavano le sue invettive contro l’interpretazione della sua teoria eccessivamente immanente al sistema, interpretazione questa che gli doveva sembrare un mero “abbaglio”. Il suo assistente Friedrich Engels, che del resto pensava ben più limitatamente in termini “positivi”, dopo la morte di Marx perse definitivamente il contatto con il contenuto “esoterico” della teoria marxiana seppellendolo positivisticamente e santificandosi come il primo Padre della Chiesa del marxismo in ascesa. Oggi abbiamo a che fare con la peculiare problematica per cui l’”altro Marx”, seppellito fin dal principio dallo stesso marxismo, può venire per la prima volta alla luce di una nuova storia della crisi, mentre inversamente il Marx "marxista", nostra vecchia conoscenza, dev’essere a sua volta finalmente seppellito, giacché il suo contenuto si esaurisce completamente insieme al movimento della modernizzazione.

In sostanza, il "duplice Marx" può essere "disaggregato" ed esposto in ogni livello della sua teoria. Come già indicato, l’argomentazione “duplice” di Marx rimanda in primo luogo al problema della forma di relazione feticista del “valore” (che è il cuore della costituzione del feticcio) nella sua divisione sociale delle categorie capitaliste. Il Marx "essoterico" critica in modo riduttivo la subordinazione della “classe operaia” al capitale mediante la forma fenomenica immediata del plusvalore, in quanto "lavoro non retribuito” (e già per questo si rende compatibile con l’ideologia di legittimazione del movimento operaio, rappresentata in maniera tanto più grezza ed efficace da teorici ideologi quali i ricardiani di sinistra o Lassalle). L’altro Marx, l’"esoterico", critica invece la basilare categoria feticista del valore come tale e, da questa prospettiva il plusvalore appare allora come la stessa forma consumata dal valore in un sistema dinamico e autodistruttivo; cioè, non si può superare il plusvalore in nome dell’emancipazione sociale del proletariato, di modo che il valore rimanga come base ontologica; piuttosto, il superamento dell’emancipazione negativa nelle leggi obiettive della valorizzazione del valore è identico al superamento della forma valore in quanto tale. La “semplice” forma valore è di fatto soltanto un fantasma storico dell’ideologia; essa in realtà era vincolata a una mera esistenza nelle nicchie della produzione di merci a bassi livelli di forza produttiva e necessità, mentre una liberazione dalla legge compulsiva della valorizzazione, che deve avvenire a un alto livello di socializzazione, è possibile solo attraverso una rottura con la forma feticista del valore (ossia attraverso il superamento delle merci e del denaro).

Su tale sfondo, sorge anche una comprensione duplice dello stesso concetto di capitale. Il Marx "essoterico" permette al concetto monista di capitale di scindersi dualisticamente in classi sociali esistenti “in sé”; egli argomenta "sociologisticamente" dall’inizio alla fine. "Il capitale" appare così come una "relazione sociale", benché in un senso sociologisticamente riduttivo: come la relazione di una parte socialmente dominante della società che, con il nome di borghesia ("classe dominante"), "è" o rappresenta il capitale, a scapito della parte socialmente oppressa della società, il proletariato, che non "è" né rappresenta in sé il capitale. Secondo questa lettura, si dovrebbe adottare “il punto di vista della classe operaia”, che (da Engels e soprattutto dopo Lenin) divenne il mistificato meta-soggetto e l’oggetto di un ardore e devozione quasi religiosi (e populisti). Il Marx "esoterico", invece, si riferisce al concetto monista di capitale, e la "relazione sociale" in questo senso è totale ed include tutti i membri sociali nella stessa forma feticistica. Qui, le “classi” non sono più soggetti di conflitto esistenti in sé, senza presupposti, ma niente altro che differenti portatori funzionali della loro forma basilare e storica comune; e anche la cosiddetta classe operaia “è” in questa accezione inevitabilmente parte integrante e momento della relazione capitalista, non il suo avversario predestinato.

Lavoro come concetto di feticcio

Fino a questo punto la focalizzazione teorica del “duplice Marx" non ha ancora raggiunto la soglia del dolore marxista (e la soglia del dolore moderno e borghese in generale). Per quanto la problematica di un’abolizione della merce e del denaro sia stata spesso considerata come “folle”, rimane occasionalmente concepibile in alcune forme tecnocratiche e dell’economia statale (anche se in un’accezione peggiorativa). Come visione socialista del futuro il problema "può" essere perfettamente pensato in questo senso riduttivo, per quanto la maggior parte delle volte venisse evocato per un futuro molto lontano. La vera soglia del dolore ideologico della coscienza feticistica moderna sarà superata solo se la critica comincerà a distruggere il santo dei santi: il “lavoro” e il suo concetto ontologizzato. Su questo punto gli spiriti si separano definitivamente. Dunque è solo qui che ha inizio il vero superamento del marxismo e della teoria di Marx. Indubbiamente, chi non è in grado di superare questa soglia deve inevitabilmente ripiegare nell’universo del vecchio marxismo e, così, nell’obsoleta storia borghese della modernità.

Di conseguenza, in questo punto sarà tanto più difficile distinguere il "duplice Marx". Non solo diventano maggiori le resistenze esterne dei marxisti, che in questa questione diventano francamente preda di attacchi di nervi, ma anche la resistenza interna della stessa teoria di Marx. A quanto pare, Marx utilizza a prima vista un concetto ontologico di lavoro in forma coerente e senza lacune. Ma, di nuovo, è solo nella variante “essoterica” che il lavoro appare come il concetto di un’eterna condizione esistenziale astorica dell’umanità, apparentemente soltanto plasmata in modo usurpatore dalla forma e dalla moderazione giuridica del capitale – un argomento che si estende in buona parte del “marxismo occidentale", con la massima nitidezza, è chiaro, in Georgy Lukacs, e che è particolarmente inasprito in Alfred Sohn-Rethel, malgrado la sua ampia critica in altri aspetti. Il lavoro, interpretato in questa maniera, diventa la leva ontologica del presunto superamento del capitale, e il soggetto portatore di questo lavoro diventa identico al soggetto portatore di questo superamento (in maniera corrispondente alla concezione riduttiva e dualista o sociologista della relazione del capitale). Ma in questo muro apparentemente liscio dell’ontologia marxista del lavoro (e dell’"utopia del lavoro", a seguire) si rivelano a veder meglio brecce decisive, nelle quali l’attività febbrile del Marx "esoterico" irrompe più di una volta.

Se riguardo al concetto di lavoro entrambe le anime si mischiano in maniera particolarmente intima e quasi indistinguibile nella teoria di Marx, ciò accade per una ragione assolutamente storico-dialettica. Ancora il Marx "esoterico", avesse potuto riflettersi come tale, avrebbe motivi non per un’affermazione ontologica, ma interamente storica del “lavoro” - e questo giustamente per guardare bene nella complessità del fenomeno empirico. Come si sa, nessuno si sollevò in maniera tanto indignata quanto Marx contro le enormi sofferenze della storia del consolidamento del "lavoro" astratto. Ma egli tentò di collegare in maniera accidentale tali sofferenze al concetto di “lavoro”, poiché non voleva rinunciare all’altro lato dello stesso processo, il momento di emancipazione e liberazione di fronte allo stato di minorità e di carenza premoderne (a differenza dei critici meramente reazionari del capitalismo).

Il concetto sistematico di “lavoro”, alla cui struttura senza soggetto si attaccano i tormenti della modernizzazione, si espande in un certo modo a malincuore in Marx verso il suo doppio "essoterico", cioè verso un concetto sociologicamente riduttivo del soggetto che, nella falsa immediatezza, identifica il tutto del modo di produzione con il portatore funzionale particolare, la “borghesia”, che è considerata soggettivamente responsabile per i tormenti del sistema ("odio di classe"). Mentre il marxismo cade in questa riduzione, Marx si lascia più volte strappare dichiarazioni relativiste, che per così dire discolpano la particolare funzione del soggetto antagonista: “Meno di chiunque altro può il mio punto di vista, che concepisce lo sviluppo della formazione economica della società come un processo storico-naturale, considerare responsabile l’individuo di relazioni in cui egli è, socialmente, creatura, per quanto possa soggettivamente elevarsi sopra di esse" (Il Capitale, vol I, p. 16).

Questo accento relativista già si rivela nel Manifesto Comunista, dove la stessa "borghesia" a prima vista antagonistica (e con essa, indirettamente, tutto il sistema di riferimento del "progresso" sociale dal lavoro) è per così dire entusiasticamente festeggiata. "La borghesia ha svelato come la brutale manifestazione di forza che la reazione ammira tanto nel medioevo, avesse la sua appropriata integrazione nella più pigra infingardaggine. Solo la borghesia ha dimostrato che cosa possa compiere l'attività dell'uomo. Essa ha compiuto ben altre meraviglie che le piramidi egiziane, acquedotti romani e cattedrali gotiche, ha portato a termine ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli e le crociate. [...] Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare" (Manifesto del partito comunista). Il discorso sulla “missione civilizzatrice” del capitalismo si incontra spesso in Marx, e la pretesa pedagogica che in esso echeggia non si riferisce soltanto alle culture non europee “immature”, ma anche alle strutture premoderne dello stesso occidente.

Il modellamento del soggetto umano per mezzo di questo "processo civilizzatore" è però legato inevitabilmente a un’imposizione del “lavoro”, le cui sofferenze devono essere trasformate con falsi aggettivi. Lo stesso riferimento sprezzante a una presunta ”pigrizia” del medioevo rivela l’adesione all’”etica protestante" del moderno feticismo del lavoro. Senza dubbio, quest’adesione in Marx non è assoluta né integrale: egli ne vede prima il suo stesso condizionamento storico, quando dice riguardo al capitalismo (nuovamente in modo positivo): "il denaro come fine diventa qui mezzo del lavoro universale, [...] Si aprono così le reali fonti della ricchezza" (Grundrisse, p 135). In un certo senso, qui Marx approva il “denaro come fine” e, con esso, anche il “lavoro", benché non nel suo apparente fine in sé stesso, ma piuttosto come incosciente "pedagogia della storia": in un senso sovraordinato e non più percepito coscientemente (senza soggetto), il "denaro come fine" diventa un “mezzo" per liberare un "lavoro" che supera la rude carenza, il quale è a sua volta egualmente un “mezzo” storico incosciente per aprire ''le vere fonti della ricchezza" - per produrre, in tutta la sua incoscienza feticistica, un mondo di risorse, necessità e possibilità (inclusa la stessa individualità).

Concepito così il “lavoro”, ossia non nell’appiattito senso protestante quale coercitivo fine in sé, la conseguenza logica sarebbe in realtà che il “lavoro” e la sua forma di rappresentazione “valore” o “denaro” possono essere respinti dopo il compimento (“esecuzione”) del loro compito storico, in quanto “mezzi” transitori il cui vero obiettivo – attingere alle “reali fonti della ricchezza” – una volta raggiunto li renderebbe superflui e privi di significato. Di fatto, questa conseguenza fu già sorprendentemente suggerita nell’Ideologia tedesca, un’opera frutto del sodalizio di Marx ed Engels e pubblicata per la prima volta nel 1932, dopo essere stata per un lungo periodo archiviata. Lì si legge con sufficiente chiarezza “che in tutte le rivoluzioni sinora avvenute non è mai stato toccato il tipo dell’attività, e si è trattato soltanto di un’altra distribuzione di questa attività, di una nuova distribuzione del lavoro ad altre persone, mentre la rivoluzione comunista si rivolge contro il modo dell’attività che si è avuto finora, sopprime il lavoro (!) […]" (Ideologia tedesca).

Da questa concezione apparentemente mostruosa consegue un compito non meno mostruoso per il "proletariato": “Dunque, mentre i servi della gleba fuggitivi volevano soltanto sviluppare e fare affermare liberamente le loro condizioni di esistenza già in atto, e quindi in ultima istanza arrivarono soltanto al lavoro libero, i proletari invece, per affermarsi personalmente, devono abolire la loro propria condizione di esistenza quale è stata fino ad oggi, che in pari tempo è la condizione di esistenza di tutta la società fino ad oggi, il lavoro.” (op; cit.). Come è ovvio, i proletari in nessun modo fecero questo favore a Marx. L’orizzonte delle loro aspirazioni ad “affermarsi personalmente” era l’orizzonte stesso del “lavoro”. Marx cadde in un’illusione ottica che, qui e là, fu fatale anche ad altri teorici della modernità (a Kant per esempio) e che sempre annebbiò gli occhi dell’ideologia marxista: la manifestazione allo stato embrionario dello storicamente nuovo, che può essere appreso logicamente nella sua manifestazione precoce, è preso come già "finito", senza accorgersi che l’esposizione e l’estrapolazione logiche anticipano in corto circuito uno sviluppo storico generale, il cui effettivo cammino sociale percorre vari stadi, ovviamente molto più lentamente e con sinusoidi rispetto al cammino rapido e diretto del pensiero teorico. Di fatto, le condizioni di esistenza del "proletariato" ancora si basavano profondamente in strutture premoderne, disgregate ancora solo superficialmente, e furono necessarie le lotte di oltre un secolo affinché il sistema del “lavoro” raggiungesse il suo stadio maturo.

Superare il "lavoro", significa di fatto “eliminarlo”. Tale tema sospetto del sempre sorprendente antenato teorico va dunque a contrariare gli epigoni marxisti profondamente radicati nel feticismo del lavoro. Dalla pubblicazione dell’Ideologia tedesca gli ideologi dei più diversi marxismi tentarono di torcere l’interpretazione di questi “frammenti” scandalosi: Marx deve aver dimenticato qualche aggettivo, avrebbe voluto dire “lavoro salariato” o lavoro definito dal capitalismo etc. In altre parole: egli non poteva aver detto quello che disse. E, di fatto, queste dichiarazioni sospette sono incidentalmente intervallate, ma non offensivamente elaborate, poiché la polemica con l’idealismo tedesco e le ideologie dei primi socialisti che seguivano avevano come obiettivo qualcosa di completamente diverso. Nella contraddittoria teoria di Marx, il marxismo preferì così aggrapparsi a quelle asserzioni che sono inequivocabilmente fondate sull’ontologia del lavoro: "Come formatore dei valori d’uso – come lavoro utile – il lavoro è [...] una condizione di esistenza dell’uomo indipendentemente da tutte le forme sociali, un’eterna necessità naturale per mediare il metabolismo tra l’uomo e la natura e quindi la vita umana" (Il Capitale, vol. I.).

Tuttavia, nemmeno tale dichiarazione è del tutto compatibile con l’ontologia marxista del lavoro. Sebbene qui, vent’anni dopo l’Ideologia tedesca, Marx non parla più di un superamento e dell’eliminazione del “lavoro”, e di fatto ontologizzi questa categoria come la reiteratamente citata "eterna necessità naturale", egli, differentemente dal marxismo, non lo equipara direttamente, al "processo di metabolismo con la natura". Piuttosto spetta a esso solamente "mediarlo". Forse, si può dedurre, questa eterna necessità antropologica consisterebbe dunque nel "processo di metabolismo con la natura", mentre la “mediazione” di questo processo è sottomessa a mutazioni storiche, e il “lavoro” rappresenta così solo una determinata forma di mediazione storica che non è obbligatoria né per tutto il passato né per tutto il futuro. Marx non tira questa conclusione: egli sente perfettamente che una rottura con l’ontologia del lavoro non è matura e che il grande movimento storico al quale si sente obbligato - il movimento operaio – ancora è incapace di saltare sopra queste ombre.

In un’altra prospettiva, il Marx "esoterico" rimane senza dubbio rigoroso di fronte al marxismo. Non avrebbe mai potuto sbarazzarsi dell’idea che il superamento del modo di produzione capitalista deve essere identico a un superamento della forma della merce sociale, ossia ad un’abrogazione della relazione monetaria feticistica. Il marxismo considerò sempre questa iniziativa del suo grande maestro con grande diffidenza e ripudio, sotterfugi e ridimensionamenti. E ciò malgrado il superamento della relazione merce-denaro (ma non il superamento del "lavoro") potesse, come ho già detto, essere perfettamente “pensato”; e proprio per questo esso non costituiva un problema serio o pratico, ma al massimo un obiettivo astratto e filosofico ben oltre la rivoluzione “socialista” o “proletaria”. E’ da notare anche che la tematizzazione di questo problema riguarda soprattutto i primordi del marxismo, mentre, con la crescente esperienza storica del movimento operaio, sbiadì sempre di più fino a sparire completamente, culminando in un aperto ripudio all’idea. Le deboli concezioni attuali di un’”economia di mercato socialista" sono poco più che i residui di questo processo ideologico di attenuazione e diluizione.

Qui diventa evidente un peculiare limite del problema storico dello sviluppo. Marx voleva, contro il marxismo, unire una (timida) ontologia del lavoro con il superamento della forma merce, cioè del denaro. Nella forma esoterica, che indica un futuro ancora da venire, egli ha più ragione del marxismo. Ma il suo argomento è paradossale, poiché "lavoro" e forma merce/denaro sono solo modi di rappresentazione o forme di espressione sociali diverse di qualcosa di identico. Il marxismo aveva intanto più ragione di Marx, sotto una forma storicamente limitata e “realista”, tenendo conto di questa identità, benché così abbia dimostrato la sua immanenza al capitalismo.

Nelle forme tanto del movimento operaio occidentale quanto del socialismo statale dell’est e dei movimenti di liberazione nazionale del sud, oltre l’imposizione del “lavoro”, il marxismo dunque insistette con conseguenza logica nella continuazione della forma del denaro e del salario in denaro. Ora, in questo modo la forma capitalista della riproduzione sociale in quanto tale rimase fuori dalla critica teorica e pratica. In sostanza, il capitalismo non dovrebbe essere sostituito con una sostituzione della stessa forma del capitale, il che sarebbe identico a un superamento del “lavoro” e della mediazione totale del denaro, ma unicamente con la sua statalizzazione. Ma il tentativo di sottomettere le categorie funzionali insuperate del “lavoro” al comando statale poteva solamente ottenere una razionalità temporanea e sempre precaria, sotto le condizioni della “modernizzazione in ritardo”, per infine spezzarsi al contatto con il mercato mondiale. 

Il duplice concetto di lavoro astratto e la separazione sociale delle sfere

Per Marx, il dilemma intrinseco al suo "doppio" ragionamento, in ciò che appunto riguarda il concetto di lavoro, dev’esser sempre stato presente come una spina fastidiosa, anche se (patriarca e irascibile quale era) mai l’avrebbe ammesso. A una considerazione più attenta del suo trattamento con questo problema iridescente e quasi impalpabile, si rivela che egli per così dire ingannò sé stesso con un trucco concettuale per rimediare al dilemma. Il concetto di “lavoro” senza alcun attributo (e dunque l’astrazione “lavoro”) è il concetto dell’attività produttiva produttrice di merci. La parte del cosiddetto valore d’uso di questa attività può essere solo il rovescio della stessa astrazione sociale reale, cioè il modo con il quale questa astrazione sociale si impadronisce della materia sensibile e la sottomette alla sua forma. Il "doppio carattere del lavoro" (Marx) ancora non si radica ontologicamente: esso è, secondo la sua essenza, il doppio carattere delle relazioni produttrici di merci. Ora, Marx fa della parte sensibile e materiale del "lavoro" (e con essa del "valore d’uso", che rappresenta solo la parte sensibile e materiale della stessa astrazione del valore) un concetto ontologico che deve coincidere appunto con quell’”eterna necessità naturale”. Con ciò esso si rende compatibile con l’immagine necessaria e immanente che il movimento operaio ha di sé stesso.

Al fine di salvare il suo progetto trascendente, Marx duplica più di una volta in modo attributivo il concetto in sé di lavoro, distinguendo il “lavoro” produttore di merci, specificamente storico, dal "lavoro” ontologico. Il famoso concetto di lavoro astratto, che proviene da qui, è in verità un’espressione strana, una duplicazione teorica, come se parlassimo di un “verde astratto”, quando la definizione di qualcosa come “verde” è già in sé un’astrazione. Marx per così dire strappa in due l’astrazione reale: la sua forma sarebbe storicamente limitata, la sua sostanza o il suo contenuto sarebbe ontologico. Così abbiamo dunque il “lavoro” come eterna necessità naturale e il “lavoro astratto” come determinazione storica del sistema produttore di merci. Marx, da un lato, estende l’astrazione reale modellata dalla forma merce all’ontologico e, dall’altro, intende considerarne il carattere storico e, in questo modo, il suo superamento. Il marxismo del movimento operaio aveva poco da farci con il concetto di “lavoro astratto” e non lo mobilitò criticamente; preferì invece riferirsi al concetto ontologico di lavoro (nobilitato "in quanto valore d’uso"), allo scopo di legittimarsi da un punto di vista storico-filosofico.

Tale bipartizione si ritrova nuovamente nella determinazione di quello che infine è realmente astratto nel lavoro astratto. Marx la sviluppa principalmente in un’unica direzione - la direzione della forma: come astrazione reale "dal" contenuto materiale, come indifferenza al momento sensibile, rappresentata dalla forma del valore e dal suo sdoppiamento in denaro, cioè in cosa "realmente astratta". Non c’è dubbio che ciò è di grande rilevanza. Ma il "lavoro" produttore di merci è “realmente astratto" anche in un secondo senso, che Marx non sviluppa sistematicamente: nella sua esistenza in una sfera differenziata, separata dalle altre sfere quali la cultura, la politica, la religione, la sessualità etc, e, su un altro piano, separata ugualmente dal “tempo libero” (echi di questo problema si trovano più diffusamente nel Marx degli scritti giovanili e in parte nei Grundrisse; ma il tema centrale formulato da Marx nella sua Critica dell’economia politica è sempre il momento dell’astrazione della forma e non il momento della separazione delle sfere).

Lo sdoppiamento e infine il totale dispiegamento dell’astrazione della forma nella modernità è possibile solo perché il “lavoro” è differenziato in quanto sfera separata e “realmente astratta”, separato dal resto del processo vitale – dal fatto, quindi, che l’uomo produttore di merci "svilisce" (astrae) non solo la qualità sensibile dei suoi oggetti, ma allo stesso tempo, in vista del “lavoro”, gli altri momenti della vita, cristallizzati in sfere funzionali al di là del “lavoro”. Tale separazione è generalmente la base di tutta la “separazione moderna delle sfere”, questa "differenziazione” delle società moderne, assunto perpetuo (e naturalmente in tono affermativo) di cui si parla nella sociologia e nella teoria dei sistemi.

Questo problema, peraltro, coincide essenzialmente con il problema della moderna relazione tra i sessi. La ragione più profonda di tale differenziazione dal e per il “lavoro” delle sfere separate è la “scissione” sessualmente gerarchizzata degli ambiti assegnati alle donne, dal “lavoro domestico” (non registrato dalla forma merce) all’”amore” (impalpabile in termini economici); solo a partire da questo fondamento, il regno del “lavoro” dominato strutturalmente “dal maschile” può scindersi e differenziarsi. Questo momento, in essenza sessualmente gerarchizzato, della differenziazione di una sfera reale e astratta del “lavoro”, non ricorre tuttavia in Marx e molto meno nei marxisti. Esso parla per sé stesso nella "doppia socializzazione" delle donne, quando queste, a dispetto della crescente attività professionale, rimangono attaccate alla famiglia o alla creazione dei figli (la stragrande maggioranza dei cosiddetti genitori solitari sono donne) e quando le attività femminili nella sfera salariale sono spesso meno valutate o remunerate.

Nel corso del processo di modernizzazione, questa relazione strutturale sessualmente gerarchizzata fu ripetutamente rotta, senza mai essere superata; questo sarebbe possibile insieme con un superamento della forma merce. Se in passato le donne erano economicamente attive, ossia immerse nella sfera differenziata del “lavoro” astratto, lì esse erano percepite in un certo modo come “corpi estranei”, poiché la loro “vera” competenza era sempre ristretta alle attività scisse della casa e dell’"amore". Simili tendenze persistono ancora oggi, come rileva il dibattito sociale sulla crisi degli ultimi anni (“ritorno alla famiglia” etc). Allo stesso tempo, le donne devono assumere tratti caratteristici del “maschile” all’interno della propria sfera del “lavoro”, scindendosi pertanto, in un certo modo, psico-socialmente – un indizio che qui non si tratta di dati fondati biologicamente, ma di connotazioni storiche (della forma) che si costituirono nella differenziazione del “lavoro” con il processo vitale nella modernità.

Solo questa scissione basilare del “lavoro” dai momenti definiti come “femminili” rende il primo una sfera peculiare dell’”astrazione reale” (manifestandosi storicamente come processo di dissoluzione di "tutti i lari"). E solo sulla base di questa separazione elementare delle sfere può a sua volta il regno del “lavoro” astratto dominato “dagli uomini” seguire la sua differenziazione interna e separarsi in nuove sfere separate, "politica", "arte e cultura" etc. Tutto questo processo di differenziazione delle sfere funzionali separate che ha origine nell’”astrazione reale” costituisce la differenza decisiva tra la modernità e la premodernità. Le società premoderne avevano ovviamente un "processo di metabolismo con la natura", ma non una sfera differenziata del "lavoro"; e anche quando producevano merci, questa produzione era intrecciata con altri momenti (religione, tradizione, strutture consanguinee e "comunitarie" etc. ). Sotto tali relazioni, è assolutamente impossibile che esista una chiara separazione tra “lavoro” e “tempo libero”. Il problema si riferisce pertanto non semplicemente alla capacità percettiva o comprensiva degli uomini premoderni rispetto a qualcosa che, benché "avesse luogo" in sé (come propone il dogma del concetto ontologico del lavoro), non si sarebbe potuta conoscere, ma piuttosto alle loro relazioni reali: essi ben poco “avevano” il “lavoro” come sfera sociale separata. Non posso qui soffermarmi sui dettagli storici e sul processo di formazione del “lavoro” (e come complemento a questo, dell’attività domestica e familiare scissa); com’è ovvio, il “lavoro” non scese improvvisamente dal cielo del Rinascimento o dal XVIII secolo. Si tratta qui solo di chiare distinzioni analitiche.

Che Marx trascurasse il carattere realmente astratto del "lavoro" in quanto sfera separata e differenziata, che questo momento appaia perlopiù implicito nella sua opera ed egli sviluppò e formulò essenzialmente solo l’astrazione reale della forma, ha naturalmente a che vedere con la sua duplicazione del “lavoro” in un concetto sia storico che ontologico. La definizione ontologica del “lavoro” quale sostanza o contenuto nella parte di valore d’uso dell’astrazione del valore, così come l’idea teorico-rivoluzionaria a essa vincolata per cui la “classe operaia” (pensata, in fondo, semplicemente come “maschile”) avrebbe dovuto impadronirsi del "valore d’uso", mantiene intatto il lavoro come sfera peculiare e separata, almeno in relazione alle sfere scisse definite come “femminili”. E come la formazione di questa sfera nella storia rappresenta allo stesso tempo la formazione dell’immagine che l’uomo moderno si è fatto di sé stesso, è anche l’uomo Marx che qui incontrò limiti nella sua stessa forma della coscienza patriarcalmente strutturata.

Il superamento del lavoro

L’origine del “lavoro” è tanto distruttiva quanto progressiva; il suo carattere emancipatorio non può essere trascurato, pena il capitolare in un romanticismo crudo e retrogrado. Tuttavia, esso è solo uno stadio transitorio e dev’essere superato. Il superamento del "lavoro" significa logicamente superamento di entrambi i momenti dell’astrazione reale, vale a dire, superamento dell’astrazione della forma e superamento della sfera separata (dunque superamento del “valore d’uso”). Qui di nuovo Marx blocca sé stesso, poiché è capace di pensare solo il superamento per metà e ontologizza il "lavoro" come sfera separata e in ultima istanza sessuale-gerarchico-identitaria; o meglio, tale ontologizzazione ostruisce sistematicamente il cammino all’idea implicita e tremolante del superare la separazione delle sfere.

Di fatto, la fissazione nel “duplice carattere del lavoro", in cui l’agognata liberazione del valore d’uso appare come leva ontologica (e la “classe operaia" come portatrice soggettiva-oggettiva del superamento, e non come categoria funzionale immanente), oscura alla vista il momento della separazione delle sfere, il cui nucleo sessualmente gerarchizzato è conseguentemente escluso in forma "logico-deduttiva" in un piano secondario (nel caso sia menzionato). Solo con una comprensione coerente della problematica della separazione delle sfere e pensando il superamento a partire da questo momento, la stessa astrazione della forma, insieme logicamente con la sfera differenziata del “lavoro”, si rende oggetto di superamento, poiché la sua esistenza dipende proprio dal suo carattere di sfera singolare e insieme con esso si erge e cade. E così, necessariamente, tutto l’apparato ontologico crollerebbe, incluse le identità sessuali compulsive a esso vincolato (tra esse, lo stesso orientamento eterosessuale compulsivo).

Il problema del superamento a partire da un concetto del lavoro che si limita all’antagonismo (strutturato dalla gerarchia sessuale e immanente alla logica della merce) tra sostanza del valore d’uso ("eterna") e forma ("storica"), si dirama a sua volta in due in due filoni argomentativi cui Marx allude solamente "in tracce" che furono mobilizzate a piacere dai marxisti. Entrambi i filoni si lasciano rappresentare in forme per così dire ideal-tipiche. Da un lato si sviluppa l’idea per cui il “lavoro”, liberato dalla sua forma reale astratta, diventa nella società socialista del futuro un "lavoro attraente", "prima necessità vitale" positiva. Anche se oggi raramente i discorsi si riferiscono a Marx, tale idea torna sempre a galla sotto diversi travestimenti. In termini tipologici, si può dire che per essa si entusiasma soprattutto l’uomo “artistico”, il quale (nel non voler rinunciare a sé come “uomo” in senso psicosociale e sessual-gerarchico) scopre il suo lato “femminile”; se prima era destinato a un’esistenza bohemien marginale, oggi lo si incontra con più frequenza nella “società vissuta” del capitalismo da casinò. Per questo lavoratore-artista, tuttavia, la donna rimane in ultima istanza, oggetto e natura. Egli si avvicina completamente al problema del superamento, però in un modo paradossalmente distorto, di modo che il “superamento” in realtà è impossibile che avvenga, manifestandosi soltanto nella forma di una nobilitazione attributiva del “lavoro”.

L’inflazione capitalista del concetto di lavoro (lavoro di relazione, lavoro del lutto etc) è dunque ben accolta: “lavoro” deve diventare arte, piacere etc. Il "lavoro", diventato insuperabile come determinazione ontologica, può essere “superato” nella sua forma capitalista, nella misura in cui viene generalizzato e totalizzato sotto l’influsso di momenti artistici e scientifici, per appunto così diventare “attraente”. Solo in questo senso francamente perfido lampeggia un superamento della separazione delle sfere – non come una nuova reintegrazione del “lavoro” nei gradi superiori di sviluppo nel processo vitale della società umana, ma inversamente come sua definitiva usurpazione della totalità della vita, ovviamente senza toccare l’assunto dell’oscuro continente scisso della riproduzione e definito come "femminile", la cui esistenza fatale si oppone a questo apparato di totalizzazione del feticismo del lavoro. Non si nega l’identità del lavoro patriarcale e occidentale nel suo complesso, ma solo l’ovvia forma degradata del produttore diretto e sfruttato dal capitalismo: tutti gli uomini-lavoratori dovrebbero avere il diritto di trasformarsi in superuomini-lavoratori. Invece del momento negativo di un superamento del lavoro come tale, il momento di un “risveglio sostanziale” del lavoro: liberazione del lavoro invece che liberazione dal lavoro.

D’altra parte, si sviluppa la nozione per cui il “lavoro” nella società socialista del futuro resterebbe come una specie di residuo della “necessità”, o precisamente come il celebre “regno della necessità”, sul quale edificare dunque un “regno della libertà” oltre il “lavoro”. Quindi qui non si tratta di un’ontologia positiva del lavoro, ma negativa – l’eterna necessità naturale dei momenti di sofferenza psichica e sociale nel mondo del lavoro, che può essere ridotto ma non superato. Qui l’immagine patriarcale e "maschile" di sé della modernità appare come una sorta di attaccamento a questo momento di sofferenza – immagine che per così dire lancia l’”eroe del lavoro” (in analogia con il principe cristiano torturato) per contemporaneamente compensarlo con il "regno" fantasmatico oltre il “lavoro”, nel quale l’ordinario "tempo libero" è ugualmente sublimato in una specie di iperattività eroica (nel fondo, dunque, il “lavoro” non è in alcun modo superato, ma prolungato sotto altra forma). Per essa, soprattutto, il tipo di "facitore", l’uomo dai lineamenti impassibili, l’homo faber, il tecnocrate o scienziato, sarebbe capace di “entusiasmarsi” se non fosse dir troppo, dato che le sue emozioni sono cotte a fuoco basso; egli possiede approssimativamente la passione di una calcolatrice tascabile.

Un concetto di "lavoro" come gioco o arte è contestato con sospetto da questo tipo (che era probabilmente comune nel vecchio movimento operaio), e forse proprio per questo egli sarebbe pienamente disposto a “definire” il “regno della libertà” come un al di là del “lavoro”, benché in quel senso distorto di una sua libera estensione oltre la rigida “necessità”. Tuttavia, è alquanto di meno il suo regno, anche se ci si riferisce con una certa cortesia; nella misura in cui si immagina in questo regno, ciò accade piuttosto in un senso tradizionalmente legato alla borghesia colta (come generalizzazione della serata, della visita al museo etc) o, d’altro lato, come l’eterno ethos protestante dell’inventare, comporre, costruire, pitturare etc costantemente. Il suo vero alfa e omega, anche se non può ammetterlo, è e rimane il regno della necessità, il piacere della sottomissione al momento del supplizio astrattamente estratto, a titolo di (presunto) "eroe della necessità". Il "regno della necessità" deve dunque durare fino alla fine dei giorni. Qui non è senza importanza la responsabilità individuale, ma meno come orgoglio proletario nobilitato che in un arido senso tecnico e contabile: "a ciascuno secondo la sua produzione". Lo spirito sobrio e calcolante della classe media in lotta per porre rimedio a sé stessa, che è avversa a ogni inutile eccesso, esige una violenta “contabilità sociale” e un calcolo produttivo che a nessuno concede un pezzo di pane in più.

Anche in Marx emergono entrambi i momenti di questa concezione riduttiva del “superamento” del lavoro (che benché siano complementari possono perfettamente emergere in reciproca contraddizione), senza che siano stati, com’è stato detto, sistematicamente formulati. Entrambi i concetti del superamento non affrontano fondamentalmente il problema del “superamento” del lavoro in quanto sfera separata, e il problema della scissione sessualmente gerarchizzata rimane, in questo contesto, necessariamente e completamente “senza mediazione”. L’idea del “lavoro attraente” potrebbe arricchire meramente l’attività remunerata con elementi del lavoro “elevato” dell’artista, del teorico etc. Ossia, l’eterno fascino dell’artista rinascimentale, l’eccellenza dell’ultrapretesa “maschile”: ogni uomo un piccolo Leonardo da Vinci, a un tempo scienziato geniale, filosofo profondo, pittore aggraziato e, se possibile, magari anche decatleta. Questa immaginazione, che risulta dal “lavoro” astratto come tale, rimane effettiva anche quando le donne passano attraverso le proprie “carriere” nell’universo del "lavoro" dominato "dagli uomini". In questo universo insuperato e nobilitato, l’”uguaglianza dei diritti” può perfettamente essere immaginata in modo formale e in corto circuito, a scapito degli ambiti e dei momenti scissi ugualmente insuperati (che si fanno notare, è chiaro, in modo doloroso nella realtà).

Questa falsa fantasia, patriarcale e borghese del nobile super-lavoratore del futuro dimentica completamente che l’”attrazione" dell’attività non risiede nel raffinare o indorare l’arbitrio maschile (e neppure nella magnanima inclusione delle “donne” in questo inventato paradiso maschile del lavoro), ma proprio nella sua abrogazione, nel rovesciamento di una forma umana di relazione mutuamente escludente. L’essenziale non è soltanto il preteso miglioramento dell’attività immediata, ma la produzione di relazioni umane soddisfacenti in tutte le attività - e ciò implica la reintegrazione delle sfere “scisse” a un grado più elevato dello sviluppo: lo sviluppo di una cultura nella quale la produzione sociale e la sessualità sono tanto poco separate quanto “libertà” e “necessità”, la filosofia e il quotidiano etc (e nella quale si sviluppa anche un’altra relazione naturale, in cui la natura non è ridotta a un’oggettività morta del “lavoro” autoglorificato come “maschile”). Una volta che il “lavoro” scompare come sfera separata, esso verrà superato come tale.

Basi per tali idee si trovano principalmente nella storia del tipo artistico, ossia, nella prima variante falsa del superamento, nel quale il “lavoro” deve diventare “attraente” come gioco e arte, e quindi non proprio “lavoro”, cioè, una sfera separata dell’”astrazione reale”. Questo approccio era già evidente nel primo periodo del Romanticismo, che in nessun modo si risolve in un mero “irrazionalismo”. Tra gli utopisti fu Fourier che volle per così dire erotizzare il “lavoro”, ma non come “erotismo della sofferenza", ma piuttosto in un senso del tutto edonistico per entrambi i sessi. Certamente non è un caso che tanto nei primi romantici quanto anche in Fourier l’emancipazione della donna abbia giocato un ruolo incomparabilmente maggiore che in altre teorie e correnti loro contemporanee. Senza dubbio, la ricerca femminista deve intanto versare un po’ d’aceto in questo vino, indicando la relazione troncata dei primi romantici con quello che si considerava “femminile”. La scarsa qualità del superamento (storicamente limitato) di questo pensiero corrisponde all’adesione al concetto di lavoro. Fourier, benché chiaramente molto inferiore a Marx in termini teorici e analitici, proprio in questo punto, con la sua variante del “lavoro attraente” (che mescolato al gioco, all’erotismo etc in realtà già non è più un “lavoro”), si avvicina più di Marx al superamento delle sfere separate, benché ancora non superi la soglia critica (nella sua opera, i momenti protestanti ed edonistici sono inestricabilmente intrecciati, il che appare spesso in forma di pensieri e fantasie in disordine).

Marx si oppone in modo esplicito, di nuovo in modo “protestante”, al progetto di superamento in larga misura ancora oscuro di Fourier. "Il lavoro non può diventare gioco, come vuole Fourier, al quale rimane il grande merito di aver indicato come obiettivo ultimo la soppressione non della distribuzione, ma del modo di produzione stesso nella sua forma superiore" (Grundrisse, p. 599). Ora, qui sarebbe opportuno sviluppare il pensiero avvolto in metafore di Fourier nel senso di un superamento dello scisma tra “lavoro” e piacere, tra attivismo e contemplazione, e così di un superamento dello stesso “lavoro”. Marx, che del resto era capace di scoprire e assimilare molto bene e con comprensione il carattere "geniale" degli utopisti, inciampa sul concetto di “gioco”, che egli immediatamente scongiura per una cosa tanto seria (in senso protestante) come il "lavoro".

Così spiega anche la seconda idea riduttiva del superamento, modellata sull’ontologia del lavoro. Poiché il “regno della necessità" non è minimizzato solo dai progressi tecnologici, pur rimanendo “in sé” ineluttabile, ma è realmente superato solo dal fatto che i momenti della “necessità”, il supposto residuo del “lavoro”, perderebbero nuovamente la loro esistenza singolare separata, che si è formata storicamente, a un nuovo più elevato livello di sviluppo. Nel contesto di una cultura non più fissata sull’ontologia del lavoro e con relazioni sociali e sessuali soddisfacenti, perfino le attività separate (racchiuse in una sfera a parte astrattizzata, sia il caso del "lavoro" domestico di amore, sia quello del "lavoro" pubblico di successo), che nel senso più antico non sarebbero “lavoro”, potrebbero essere “attraenti”. L’uomo padrone di sé, che vede albeggiare una società futura del “lavoro attraente” di autentici super-artisti e super-scienziati, vorrebbe forse lasciare i pannolini sporchi fino alla fine dei giorni alla “natura femminile”. Oppure egli spera in una macchina pulisci-merda automatica al cento per cento?

La minimizzazione del momento della sofferenza nella riproduzione sociale per mezzo del potenziale dello sviluppo delle forze produttive (che appare capovolta nella forma capitalistica) è e rimane importante per il superamento del “lavoro”. Tuttavia, la riduzione dell’idea del superamento a questo momento sarebbe inammissibile, ed è giustificato il rimprovero per cui simile riduzione tollera un feticismo tecnicista e scientificamente sprovveduto rispetto alle forze produttive, esso stesso frutto dell’universo del “lavoro”. Un edonismo semplicemente astratto (e irresponsabile) che può risultare da una tale riduzione già si incontra oggi massificato come feticismo del consumo immanente al capitalismo e rappresenta solo il rovescio del feticismo della forza produttiva. Si tratta di una negazione meramente astratta e senza mediazione del “lavoro”, la quale non a caso elude il problema del superamento della forma merce e del denaro e per ora si mantiene solo grazie alla crescita monetaria del “capitale fittizio” nelle poche isole di ricchezza nel mondo. Un superamento effettivo del “lavoro” non può restringersi a presupposti tecnologici. La microelettronica non supera in modo immediato e come tale il “lavoro”; la questione decisiva è invece il superamento delle forme umane di relazione, nel modo come furono attivate storicamente dal sistema del “lavoro”.

Questo superamento umano mediato, in sé riflessivo (e non meramente tecnologico), include soprattutto la percezione che non è possibile né desiderabile automatizzare tecnologicamente tutte le attività produttive e ancor meno far sparire le stesse relazioni umane nell’apparato tecnologico (ossia "superamento" in una specie di mondo cibernetico: una visione dell’horror che estende fino al grottesco l’isolamento capitalista degli individui astratti). Esso include anche la percezione che non si tratta solo di un superamento che libera l’attivismo (occidentale) dalla sua forma astratta, ma anche la liberazione da questo stesso attivismo incessante e compulsivo, che è ugualmente un genuino frutto dell’universo moderno del “lavoro”. Il momento della crisi e della trasformazione dello sviluppo delle forze produttive che conduce al di là del “lavoro” conduce al superamento del “lavoro” solo quando questo viene superato come sfera separata e l’indole delle forme umane di relazione viene ugualmente trasformata in microsfera.

Non sarà per mezzo di super-uomini impazziti e ambiziosi che hanno l’immagine di sé di semi-folli che si supererà la socializzazione del valore, ma per mezzo di individui assolutamente comuni, che vivono la loro vita assolutamente comune insieme con altri e vogliono pensare al mondo, senza essere continuamente costretti da esigenze, ordini e pretese astratte, senza dover costantemente dar prova di sé e di autoaffermarsi. Il regno della necessità sarà innanzitutto abolito dall’abolizione della scissione sessuale e sessualmente gerarchizzata con tutte le sue attribuzioni compulsive. Pertanto è necessario un determinato grado di sviluppo delle forze produttive, che già oggi è stato da tempo raggiunto e superato. Tuttavia, il regno della necessità non scompare immediatamente con la mera minimizzazione del “dispendio di lavoro” umano, ma solo per mezzo della reintegrazione degli ambiti scissi – resa possibile in virtù di questo sviluppo della produttività – a un livello più elevato della socializzazione e dei bisogni.

Questo problema appare indubbiamente in modo spesso distorto e riduttivo perfino nel dibattito dei sindacati, nel quale in parte si critica la fissazione sulla lotta salariale o aziendale immanente al sistema (e non più prolungabile nella crisi) e si esige il coinvolgimento di altri settori (scuola, infanzia, problemi del quartiere etc). Nell’orizzonte di Marx, questa integrazione (come “educazione politecnica”, per esempio) è pensata ancora inequivocabilmente a partire dall’universo del lavoro, nel quale i momenti della vita scissi in forma sessualmente specifica devono essere nella migliore delle ipotesi assorbiti meccanicamente (il che nella pratica è del tutto impossibile).

La fine del delirio produttivo

Tuttavia, oggi si può anche fare la critica immanente del discorso dell’”economia delle ore di lavoro” del cosiddetto regno della necessità. Qui di nuovo giocano un ruolo decisivo la rivoluzione microelettronica e le sue conseguenze, poiché lo sviluppo delle forze produttive e la crisi della “società del lavoro” oggi papabile portano all’assurdo il regno della necessità proprio dentro il processo capitalista, nel crudo senso tecnocratico dell’incidenza produttiva. L’importante oggi non è più la produzione individuale o “aziendale” e la sua ripartizione, ma il controllo sociale dell’impiego scientifico e tecnologico delle risorse che da molto si è autonomizzato, e questo fatto contraddice frontalmente non solo la razionalità economica e aziendale, ma anche la sua estensione “socialista". Marx non poteva immaginare che il motto “da ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo la sua produzione” si sarebbe reso obsoleto già sulla soglia del suo "socialismo". Anche per questo egli promosse la divisione in necessità e libertà, così come grado "inferiore" e "superiore" del comunismo. Per lui, la trasformazione dello stesso capitalismo era ancora una questione "dentro" l’orizzonte della società del lavoro. Questo corrispose alla sua posizione storica reale (e dunque non c’è da rimproverarlo), ma tale orizzonte ormai è oggi obiettivamente superato.

Così anche un’altra ambiguità diventa comprensibile in Marx. Nella Critica del programma di Gotha egli afferma da un lato che nella fase “inferiore” del comunismo non potrebbe esserci “alcuno scambio” (alcuno scambio di merci); d’altro lato, tuttavia, in riferimento alle “voglie della vecchia società”, egli afferma che l’equilibrio e l’attribuzione della produzione individuale dovrebbero permanere attivi per determinato tempo. E, in un altro passaggio, l’assunto è la sopravvivenza della “determinazione del valore” nel senso di un calcolo sociale del tempo di lavoro: tutti “passaggi”, ai quali il marxismo si rivolse con grande zelo legittimatorio fondato sull’ontologia del lavoro.

Qui già si rende visibile che Marx cadde in contraddizione in virtù della sua posizione storica di transizione tra la teoria immanente della modernizzazione e del superamento trascendente. Mentre in via puramente teorica è immaginabile che si possa oggi, con uno spreco gigantesco di tempo di calcolo per mezzo dei computer, ottenere la stima immediata del tempo di lavoro, il problema, per il fatto stesso che esista questa possibilità (ossia per il grado di scientificizzazione), diventa ironicamente senza oggetto. Se non è più il consumo di forza lavoro umana astratta che sostiene la riproduzione di quello che è necessario, ma semmai il contrario, essendo necessario tagliare sempre più “lavoro” superfluo e nocivo alla comunità, allora un “calcolo del tempo di lavoro” sociale diventa assurdo.

In passato, quando l’orizzonte della "società del lavoro" ancora non era superato, il postulato di un calcolo “diretto” del (valore del) lavoro, liberato dall’astrazione della forma del valore, doveva rimanere una precaria utopia (anche se Schumpeter lo considerava come logicamente possibile). Fintanto che il consumo della forza lavoro umana riempiva l’orizzonte della riproduzione sociale, il gigantesco modulo contabile poteva essere pensato solo nella forma di una burocrazia contabile e ripartita altrettanto gigantesca, e quindi statale. Lo "stalinismo" assorbì questa idea, anche se in nessun modo gli corrispose, poiché l’Unione Sovietica fu rapidamente costretta alla forma valore e, così, alla mediazione monetaria. Giustamente, l’utopia del calcolo diretto del tempo di lavoro svanì; l’ontologia del lavoro comporta di conseguenza, secondo anche la forma, l’ontologia del valore (sotto forma di merce sociale). Il problema deve esser posto in modo totalmente diverso sotto le condizioni attuali, oltre il “lavoro” e, dunque oltre il valore, cioè, oltre il delirio produttivo astratto della modernità che divenne un fine in sé.

Qui posso solo abbordare brevemente le altre conseguenze. Come ad un’ontologia della relazione tra i sessi fondata “nelle scienze naturali” corrisponde un’ontologia del "lavoro", ciò che comporta necessariamente un’ontologia del valore (o anche a un “calcolo diretto del tempo di lavoro”), ne consegue anche un’ontologia del soggetto (cioè l’insieme delle conoscenze e delle azioni determinate dalla forma merce) e una teoria della crisi riduttiva e limitata. Il marxismo del movimento operaio si aggrappa con le unghie e con i denti al concetto illuminista di soggetto, del quale esso non è altro che una “seconda transizione”; e come esso non vuole superare né il “lavoro” né il “valore”, se è certo che esso vuole “liberare” il “soggetto del lavoro”, il quale si oppone a una natura oggettivata propria delle scienze naturali, la verità è che ben poco lo libera. E in ragione di tutto questo, è per questo che il capitale non “può” nel suo processo storico condurre ad absurdum il “lavoro” e dunque sé stesso, e sicuramente mai "dietro le spalle" di tutti i soggetti coinvolti. 

Dietro la critica in parte condiscendente in parte rabbiosa alla teoria del limite assoluto del capitale (o la prognosi per cui tale limite sarà raggiunto sotto i nostri occhi) si erge non solo semplicemente questa o quella obiezione empirica, ma piuttosto il principio marxista per cui non può essere o non è permesso, ossia, una figurazione profondamente ideologica. “Il capitale” deve rimanere eternamente (o quantomeno ancora per “secoli”) capace di sfruttare, primo perché con ciò il terreno storico del “lavoro” non sia abbandonato e la sua ontologia considerata falsa, e, secondo, perché il "soggetto del lavoro" possa sollevarsi convinto verso l’autoliberazione e non debba scomparire nell’inferno della storia insieme con lo stesso “capitale” (come suo momento immanente esso sarebbe dunque smascherato). Da qui l’odio per la teoria del collasso.

Per una coscienza post-marxista, alla quale ancora compete affermarsi come sociale, la liberazione del Marx “esoterico” e critico del feticismo dal suo doppio “essoterico” coincide invece con la teoria di un limite assoluto del capitale globalizzato, così come con il superamento di valore-merce-denaro, il superamento della relazione tra i sessi costituita dal feticismo della merce e il superamento del “lavoro” in tutte le sue mostruose invenzioni. Il risultato sarebbe un superamento della separazione delle differenti sfere della società moderna, in cui l’individuo è solo il punto di intersezione di numerosi momenti funzionali, essendo per questo motivo astratto. Solo qui risiede il principio per un superamento della teoria di Marx nel suo stesso spirito.



(1)Riferimento a Bad Godesberg, città dove la SPD, partito socialdemocratico tedesco, suggellò tra il 13 e il 15/11/1959 il manifesto chiamato Godesberger Grundsatzprogramm, in cui praticamente si abbandonava il socialismo come meta. (N. do T. )


Originale: Postmarxismus und Arbeitsfetisch. Zum historischen Widerspruch in der Marxschen Theorie. Pubblicato nella rivista KRISIS, nº 15, 1995.

traduzione by lpz

Portoghese

Tedesco