martedì 10 giugno 2014

Decrescenti ancora uno sforzo...!


Pertinenza e limiti degli obiettori della crescita

di Anselm Jappe

Il discorso della « decrescita » è una delle rare proposte teoriche un po' nuove apparse negli ultimi decenni. La parte del pubblico che è attualmente sensibile al discorso della « decrescita » è ancora abbastanza ristretto. Tuttavia, questa parte è incontestabilmente in aumento. Ciò traduce una presa di coscienza effettiva di fronte agli sviluppi più importanti degli ultimi decenni : soprattutto l'evidenza che lo sviluppo del capitalismo ci trascina verso una catastrofe ecologica, e che non è qualche filtro in più, o delle automobili un po' meno inquinanti, che risolveranno il problema. Si sta diffondendo una sfiducia nei confronti dell'idea stessa che una decrescita economica perpetua sia sempre desiderabile, e, allo stesso tempo, un'insoddisfazione verso le critiche del capitalismo che gli rimproverano essenzialmente la distribuzione ingiusta dei suoi frutti, o soltanto i suoi « eccessi », come le guerre e le violazioni dei « diritti umani ». L'attenzione per il concetto di decrescita traduce l'impressione crescente che è tutta la direzione del viaggio intrapreso dalla nostra società ad essere cattiva, almeno da alcuni decenni, e che siamo di fronte ad una « crisi di civiltà » con tutti i suoi valori, anche a livello di vita quotidiana (culto del consumo, della velocità, della tecnologia, ecc.). Siamo entrati in una crisi che è economica, ecologica e energetica allo stesso tempo, e la decrescita prende in considerazione tutti questi fattori, nella loro interrazione, invece di voler « rilanciare la crescita » con delle « tecnologie verdi », come fa una parte dell'ecologismo, o di proporre una semplice gestione differente della società industriale, come fa una parte delle critiche che si ispirano al marxismo.

La decrescita piace anche perché propone modelli di comportamento individuali che si può cominciare a praticare qui ed ora, ma senza limitarsi a ciò, e perché riscopre delle virtù essenziali, come la convivialità, la generosità, la semplicità volontaria e il dono. Ma attira pure con il suo aspetto gentile che lascia credere che si possa operare un cambiamento radicale con un consenso generale, senza passare attraverso antagonismi e forti scontri. Si tratta di un riformismo che si vuole veramente radicale.

Il pensiero della decrescita ha senz'altro il merito di voler veramente rompere con il produttivismo e l'economicismo che hanno a lungo costituito il fondo comune della società borghese e della sua critica marxista. Una critica profonda del modo di vita capitalista sembra, in principio, più presente presso i decrescenti che, ad esempio, presso i sostenitori del neo-operaismo che continuano a credere che lo sviluppo delle forze produttive (soprattutto sotto la sua forma informatica) apporterà l'emancipazione sociale. I decrescenti tentano anche di scoprire degli elementi di una società migliore nella vita di oggi, spesso lasciati in eredità dalle società precapitaliste, come l'usanza del dono. Non rischiano dunque di puntare, come altri, sulla continuazione della decomposizione di tutte le forme tradizionali di vita e sulla barbarie considerate utili nel preparare una rinascita miracolosa.

Il problema è che i teorici della decrescita restano molto nel vago per ciò che concerne le cause della corsa alla crescita. Nella sua critica dell'economia politica, Marx ha già dimostrato che la sostituzione della forza lavoro umana attraverso l'uso della tecnologia diminuisce il « valore" rappresentato in ogni merce, il che spinge il capitalismo ad aumentare permanentemente la produzione. Sono le categorie di base del capitalismo -il lavoro astratto, il valore, la merce, il denaro, che non appartengono affatto a ogni modo di produzione, ma al solo capitalismo- che generano il suo cieco dinamismo. Oltre al limite esterno, costituito dall'esaurimento delle risorse, il sistema capitalista conteneva già sin dall'inizio un limite interno : di dover ridurre -a causa della concorrenza- il lavoro vivo che costituisce allo stesso tempo la sola fonte del valore. Da alcuni decenni, questo limite sembra essere stato raggiunto, e la produzione di valore « reale » è stato ampiamente sostituito dalla sua simulazione nella sfera finanziaria. Inoltre, il limite esterno e il limite interno hanno cominciato ad apparire pubblicamente allo stesso momento: verso il 1970. L'obbligo di crescere è dunque consustanziale al capitalismo; il capitalismo non può esistere che come fuga in avanti e crescita materiale permanente per compensare la diminuzione del valore. Così, una vera « decrescita » non sarà possibile che a prezzo di una rottura totale con la produzione di merci e denaro.

Ma i « decrescenti » arretrano in generale davanti a questa conseguenza che può apparire loro troppo « utopistica ». Alcuni si sono tuttavia allineati intorno allo slogan « Uscire dall'economia ». Ma la maggior parte resta troppo nel quadro di una « scienza economica alternativa » e sembra credere che la tirannia della crescita non sia che una specie di malinteso che si potrebbe confutare a forza di colloqui scientifici che discutino del miglior modo di calcolare il prodotto interno lordo. Molti descrescenti cadono nella trappola della politica tradizionale, vogliono partecipare alle elezioni o far firmare dei documenti agli eletti. A volte, è anche un discorso un po' snob con cui dei ricchi borghesi placano i loro sensi di colpa recuperando ostensibilmente i leguni gettati alla fine del mercato. E se la volontà esposta di sottrarsi alla vecchia divisione « destra-sinistra » può sembrare inevitabile, bisogna comunque interrogarsi perché una certa « Nuova Destra" ha mostrato interesse per la decrescita, così come sul rischio di cadere in un'apologia acritica delle società « tradizionali » nel Sud del mondo.

Vi è dunque una certa ingenuità nel credere che la decrescita potrebbe diventare la politica ufficiale della Comissione europea o qualcosa del genere. Un « capitalismo decrescente » sarebbe una contraddizione in termini, impossibile quanto un « capitalismo ecologico ». Se la decrescita non vuole ridursi ad accompagnare e giustificare l'impoverimento « crescente » della società e questo rischio è reale: una retorica della frugalità potrebbe servire ad indorare la pillola ai nuovi poveri e a trasformare ciò che è una imposizione in un'apparenza di scelta, ad esempio frugare tra i rifiuti- essa deve prepararsi a degli scontri e a degli antagonismi. Ma questi antagonismi non coincideranno più con le antiche linee di suddivisione costituite dalla « lotta di classe ». Il necessario superamento del paradigma produttivista -e dei modi di vita che li accompagna- troverà delle resistenze in tutti i settori sociali. Una parte delle « lotte sociali » attuali, nel mondo intero, è essenzialmente una lotta per l'accesso alla ricchezza capitalista, senza mettere in questione il carattere di questa pretesa ricchezza. Un operaio cinese o indiano hanno delle valide ragioni per richiedere un salario migliore, ma se lo ottiene, acquisterà probabilmente un'automobile e contribuirà così alla « crescita » e alle sue conseguenze nefaste sul piano ecologico e sociale. Bisogna sperare che vi sarà un avvicinamento tra le lotte condotte per migliorare lo statuto degli sfruttati e degli oppressi e gli sforzi per superare un modello sociale basato sul consumo individuale a oltranza. Forse alcuni movimenti contadini del Sud del mondo vanno già in questa direzione, soprattutto recuperando alcuni elementi delle società tradizionali come la proprietà collettiva della terra o l'esistenza di forme di riconoscimento dell'individuo che non sono legate alla sua prestazione sul mercato.

In breve: il discorso dei decrescenti sembra più promettente di molte altre forme di critica sociale contemporanea, ma deve ancora svilupparsi e soprattutto perdere le sue illusioni sulla possibilità di semplicemente addomesticare la bestia capitalista attraverso degli atti di buona volontà.

Anselm Jappe

 [Traduzione di Ario Libert]