Anselm Jappe
Una delle favole dei fratelli
Grimm – immagino che siano conosciute anche in Messico – si chiama “Il gatto e
il topo in società”. Un gatto convince un topo dell’amicizia che ha per lui;
mettono su casa insieme, e in previsione dell’inverno comprano un vasetto di
grasso che nascondono in una chiesa. Ma con il pretesto di dover andare a un
battesimo, il gatto esce diverse volte e si mangia man mano tutto il grasso,
divertendosi poi a dare risposte ambigue al topo su quanto ha fatto. Quando
finalmente vanno insieme alla chiesa per mangiare il vasetto di grasso, il topo
scopre l’inganno, e il gatto per tutta risposta mangia il topo. L’ultima frase
della favola annuncia la morale: “Così va il mondo”.
Direi che il rapporto tra la
cultura e l’economia rischia fortemente di assomigliare a questa favola, e vi
lascio indovinare chi, tra la cultura e l’economia, svolge il ruolo del topo e
chi quello del gatto. Soprattutto oggi, nell’epoca del capitalismo pienamente
sviluppato, globalizzato e neoliberale. Le questioni che vuole affrontare
questo “foro de arte pubblico”, e che vertono tra l’altro sulla questione chi
deve finanziare le istituzioni culturali e quali aspettative, e di quale
pubblico, deve soddisfare un museo, rientrano in una problematica più generale:
quale è il posto della cultura nella società capitalistica odierna? Per tentare
di rispondere, io prenderò dunque le cose un po’ più alla larga.
A parte la produzione – materiale
e immateriale – con cui ogni società deve soddisfare i bisogni vitali e fisici
dei suoi membri, essa crea ugualmente una serie di costruzioni simboliche. Con
queste, la società elabora la sua rappresentazione di se stessa e del mondo in
cui è inserita e propone, o impone, ai suoi membri delle identità e dei modi di
comportamento. Per parlarne non utilizzo qui il termine marxista di
“sovrastruttura”, opposta alla presunta “base economica”, perché la produzione
di senso può – secondo la società in questione - svolgere un ruolo altrettanto
grande, se non più grande della soddisfazione dei bisogni primari. La religione
e la mitologia così come gli “usi e costumi” quotidiani – soprattutto quelli
relativi alla famiglia e alla riproduzione - nonché ciò che dal Rinascimento in
poi chiamiamo “arte” entrano in questa categoria del simbolico. Per molti
versi, questi codici simbolici non erano nemmeno separati tra di loro nelle
società antiche, basti pensare al carattere largamente religioso di quasi tutta
l’arte. Ma soprattutto non esisteva la separazione tra una sfera economica e
un’altra sfera simbolica e culturale. Un oggetto poteva allo stesso tempo
soddisfare un bisogno primario e avere un aspetto estetico. Storicamente, è
stata la modernità capitalista e industriale a separare il “lavoro” dalle altre
attività, e a fare di esso e dei suoi prodotti, sotto il nome di “economia”, il
centro sovrano della vita sociale. In concomitanza, il lato culturale ed
estetico, che nelle società preindustriali era inerente a ogni aspetto della
vita, si concentra in una sfera a parte. Questa sfera è apparentemente libera
dalle costrizioni della sfera economica, e in essa può affiorare una verità
critica, altrimenti repressa o rimossa, sulla vita sociale e la sua crescente
sottomissione alle esigenze sempre più inumane della concorrenza economica. Ma
la cultura paga questa libertà con la sua marginalizzazione, con la sua
riduzione a un “gioco” che, non facendo direttamente parte del ciclo di lavoro
e accumulazione di capitale, rimane sempre in una posizione subordinata
rispetto alla sfera economica e a quelli che la governano. Ma nemmeno
quell’”autonomia dell’arte”, che ha avuto il suo apogeo nel XIX secolo, ha
potuto resistere alla dinamica del capitalismo, volto a fagocitare tutto e a
non lasciare niente al di fuori dalla sua logica di valorizzazione. Prima, le
opere dell’arte autonoma – per esempio i quadri – sono entrati nel mercato,
diventando merci come le altre. Poi, la produzione stessa di “beni culturali” è
stata mercificata, mirando fin dall’inizio solo al profitto e non alla qualità
artistica intrinseca. Questo è lo stadio dell’”industria culturale”, descritto
inizialmente da Theodor Adorno, Max Horkheimer, Herbert Marcuse e Günther
Anders nei primi anni quaranta del secolo scorso. In seguito, si è assistiti a
una specie di perversa reintegrazione della cultura nella vita, ma solo in
quanto ornamento della produzione di merci, cioè sotto forma di design,
pubblicità, moda ecc. La quasi-sparizione delle istituzioni culturali pubbliche
ha infine eliminato gli ultimi resti di indipendenza degli artisti di fronte al
denaro; ormai, essi sono raramente altro che i nuovi buffoni e cantanti di
corte che debbono azzuffarsi per le briciole che i nuovi padroni, sotto il nome
di sponsor, gli gettano.
Questa è la situazione in cui
viviamo oggi. Certo, molti provano un disagio vago di fronte a questa
“mercificazione della cultura” e preferirebbero che la cultura “di qualità” – a
seconda dei gusti, può trattarsi del “cinema d’autore”, dell’opera lirica o
dell’artigianato indigeno – non fosse trattata esattamente come la produzione
di scarpe, giochi video o viaggi turistici, cioè con la sola logica
dell’investimento e del profitto. Evocano dunque ciò che in Francia si chiama
“l’eccezione culturale”: la spietata logica capitalistica va bene in tutto (e
soprattutto là dove “noi” siamo i vincitori), ma che lasci gentilmente la
cultura fuori dalle sue grinfie. In verità, questa speranza mi sembra ingenua e
senza molto senso. Infatti, accettando la logica di base della concorrenza
capitalistica, se ne accettano poi anche tutte le conseguenze. Se è giusto che
una scarpa o un viaggio siano considerati esclusivamente in base alla quantità
di denaro che rappresentano, è alquanto illogico aspettarsi poi che questa
stessa logica si fermi davanti ai “prodotti” culturali. Qui vale lo stesso principio
come altrove: non ci si può opporre agli “eccessi” “liberisti” della
mercificazione – ciò che oggi fanno in molti - senza metterne in discussione i
fondamenti, cosa che quasi nessuno fa. In ogni caso, la speranza è vana, perché
la logica globale della merce non rinuncia a dilaniare corpi di bambini, se può
fare un piccolo guadagno con le mine anti-uomo; non si farà dunque certo
intimorire dalle rispettose rimostranze di cineasti francesi o di direttori di
musei esasperati di dover strisciare sul ventre davanti a dei manager di
Coca-cola o dell’industria petrolchimica perché gli finanzino una mostra. La
capitolazione incondizionata dell’arte di fronte agli imperativi economici è
solo parte della mercificazione tendenzialmente totale di ogni aspetto della
vita, e non la si può mettere in discussione per la sola arte senza tentare di
rompere con la dittatura dell’economia a tutti i livelli. Non c’è nessun motivo
perché proprio l’arte dovrebbe riuscire a mantenere la sua autonomia rispetto
alla pura logica del profitto, se nessun’altra sfera ci riesce.
Dunque, la necessità per il
capitale di trovare sempre nuove aree di valorizzazione non risparmia certo la
cultura, ed è evidente che all’interno della cultura, in senso lato,
l’”industria del divertimento” costituisce il suo oggetto di investimento
principale. Già negli anni settanta, il gruppo pop svedese “Abba” era il primo
esportatore del paese, davanti all’industria militare Saab; i Beatles furono
fatti baronetti dalla Regina già nel 1965 a causa dell’enorme contributo dato
all’economia inglese. Inoltre, l’industria dell’intrattenimento, dalla tv alla
musica rock, dal turismo alla people’s press, svolge un importante ruolo di
pacificazione sociale e di creazione di consenso, ottimamente riassunto nel concetto
di “tittytainment” (“entetanimiento” in spagnolo). Nel 1995 si riunì a San
Francisco un “State of the World Forum” cui parteciparono circa 500 tra i
personaggi più potenti del mondo (tra l’altro Gorbaciov, Bush, Thatcher, Bill
Gates...) per discutere della questione che cosa fare in futuro con
quell’ottanta per cento della popolazione mondiale che non sarebbe più stato
necessario per la produzione. Come soluzione fu proposto il “tittytainment”:
alle popolazioni “superflue” e tendenzialmente pericolose sarà destinato un
miscuglio di nutrimento sufficiente e di intrattenimento, di entertainment
abbrutente, per ottenere uno stato di letargia beata simile a quella del
neonato che ha bevuto dai seni (tits in gergo americano) della madre. In altre
parole, il ruolo centrale che svolge tradizionalmente la repressione per
evitare i sovvertimenti sociali viene ormai largamente affiancato dalla
infantilizzazione.
Il rapporto tra l’economia e la
cultura non si limita dunque alla strumentalizzazione della cultura, al
fastidio di vedere su ogni manifestazione artistica i logo dei sponsor – che,
sia detto en passant, finanziavano la cultura anche quarant’anni fa, ma
attraverso le tasse che pagavano, e dunque senza potersene vantare e
soprattutto senza poterne influenzare le scelte. Tuttavia, il rapporto tra la
fase attuale del capitalismo e la fase attuale della “produzione culturale” va
ancora più lontano. C’è una idiosincrasia profonda tra l’industria
dell’intrattenimento e la spinta del capitalismo verso l’infantilizzazione e
verso il narcisismo. L’economia materiale è largamente unita alle nuove forme
dell’“economia psichica e libidinale”. Per spiegare quello che voglio dire,
devo un’altra volta tentare di esporne in poche parole i presupposti.
Il mondo contemporaneo si
caratterizza per il prevalere ormai totale di quel fenomeno che Karl Marx ha
chiamato feticismo della merce. Questo termine, spesso frainteso, indica molto
più di un’adorazione esagerata delle merci, e neanche vuole solo indicare una
semplice mistificazione. Si riferisce al fatto che nella società moderna e
capitalistica la maggior parte delle attività sociali prendono la forma di una
merce, materiale o immateriale che sia. Il valore di una merce è determinata
dal tempo di lavoro necessario per la sua produzione. Non sono le qualità
concrete degli oggetti a decidere del loro destino, ma la quantità di lavoro
incorporata in loro – e questa quantità si esprime sempre in una somma di
denaro. I prodotti che ha creato l’uomo cominciano così a condurre una vita
autonoma, governata dalle leggi del denaro e della sua accumulazione in
capitale. Bisogna prendere alla lettera il termine “feticismo della merce”: gli
uomini moderni si comportano come quelli che chiamano i “selvaggi”: venerano i
feticci che loro stessi hanno prodotto, attribuendogli una vita indipendente e
il potere di governare gli uomini. Questo feticismo della merce non è
un’illusione o un inganno, ma il modo di funzionamento reale della società
della merce. Domina ormai tutti i settori della vita, ben al di là
dell’economia. Questa religione materializzata comporta tra l’altro che tutti
gli oggetti e tutti gli atti, in quanto sono merci, sono uguali. Non sono
nient’altro che delle quantità più o meno grandi di lavoro accumulato, e dunque
di denaro. E’ il mercato che esegue quest’omologazione, indipendentemente dalle
intenzioni soggettive degli attori. Il regno della merce è dunque terribilmente
monotono, ed è addirittura senza contenuto proprio. Una forma vuota e astratta,
sempre la stessa, una pura quantità senza qualità – il denaro – s’impone man
mano alla infinita molteplicità concreta del mondo. La merce e il denaro sono
indifferenti al mondo che per loro non è altro che un materiale da utilizzare.
L’esistenza stessa di un mondo concreto, con le sue leggi e le sue resistenze,
è alla fine un ostacolo per l’accumulazione del capitale che non conosce altro
scopo che se stesso. Per trasformare ogni somma di denaro in una somma più
grande, il capitalismo consuma il mondo intero – sul piano sociale, ecologico,
estetico, etico. Dietro la merce e il suo feticismo si nasconde una vera e
propria “pulsione di morte”, una tendenza, incosciente ma potente, verso
l’annientamento del mondo.
L’equivalente del feticismo della
merce nella vita psichica individuale è il narcisismo. Qui, questo termine non
indica, come nel linguaggio corrente, un’adorazione del proprio corpo, o della
propria persona. Si tratta piuttosto di una grave patologia, ben conosciuta
nella psicoanalisi: significa che una persona adulta conserva la struttura
psichica dei primissimi tempi della sua infanzia, quando ancora non c’è
distinzione tra l’Io e il mondo. Ogni oggetto esterno è vissuto dal narcisista
come una proiezione del proprio Io. Ma in verità questo Io rimane terribilmente
povero a causa della sua incapacità di arricchirsi in veri rapporti oggettuali
con oggetti esterni – in effetti, il soggetto, per farlo, dovrebbe prima
riconoscere l’esistenza del mondo esterno e la sua propria dipendenza da esso,
e dunque anche i propri limiti. Il narcisista può sembrare una persona
“normale”; in verità non è mai uscito dalla fusione originaria con il mondo
circostante e fa di tutto per mantenere l’illusione di onnipotenza che ne
deriva. Questa forma di psicosi, rara all’epoca di Sigmund Freud, che la descrisse
per primo, è diventata da allora uno dei disturbi psichici principali; se ne
vedono le tracce un po’ ovunque. E non è un caso: vi si trova la stessa perdita
del reale, la stessa assenza del mondo – di un mondo riconosciuto nella sua
autonomia fondamentale – che caratterizza il feticismo della merce. D’altronde,
questa negazione drastica dell’esistenza di un mondo indipendente dalle nostre
azioni e dai nostri desideri ha costituito fin dall’inizio il centro della
modernità: è il programma enunciato da Descartes quando aveva scoperto
nell’esistenza della propria persona l’unica certezza possibile.
In una società basata sulla
produzione di merci era inevitabile, a lungo andare, che il narcisismo
diventasse la forma psichica prevalente. Ora, è evidente che l’enorme sviluppo
dell’industria del divertimento sia allo stesso tempo causa e conseguenza di
questa fioritura del narcisismo. In questo modo, tale industria partecipa a
quella vera e propria “regressione antropologica” cui ci porta ormai il capitalismo:
un annullamento progressivo delle tappe dell’umanizzazione in cui stava
l’essenza della storia antecedente. Anche qui, il discorso da fare sarebbe
molto lungo. Mi limito a ricordarvi le tappe per cui ogni essere umano, secondo
le conclusioni della psicoanalisi, deve passare nel suo primo sviluppo
psichico. Deve superare quel senso di fusione rassicurante con la madre che
caratterizza il primo anno (si tratta di ciò che Freud chiama “narcisismo
primario”, una tappa comunque necessaria) e passare attraverso i dolori del
conflitto edipico per arrivare a una realistica valutazione delle proprie forze
e dei propri limiti, rinunciando ai sogni infantili di onnipotenza. Solo così
può nascere una persona psicologicamente equilibrata. L’educazione tradizionale
mirava, più o meno bene, a questo: sostituire il principio di piacere con il
principio di realtà, ma senza uccidere del tutto il principio di piacere. Le
tappe non correttamente risolte dello sviluppo psicologico dell’individuo danno
luogo a nevrosi e addirittura psicosi. Il bambino non dispone dunque di una
perfezione originaria, né abbandona spontaneamente il suo narcisismo iniziale.
Ha bisogno di essere guidato per poter accedere al pieno sviluppo della sua
umanità. Le costruzioni simboliche caratteristiche di ogni cultura svolgono
evidentemente un ruolo essenziale in questo processo e costituiscono a questo
titolo un patrimonio prezioso dell’umanità (anche se non tutte le costruzioni
simboliche tradizionali sembrano ugualmente atte a promuovere una vita umana
piena, ma questa è un’altra questione). Al contrario di questo, il capitalismo
nella sua fase più recente – diciamo dagli anni settanta in poi -, in cui il
consumo e la seduzione sembrano aver sostituito la produzione e la repressione
come motore e modalità dello sviluppo, rappresenta storicamente l’unica società
che promuove una massiccia infantilizzazione dei soggetti, legata a una
desimbolizzazione. Ormai, tutto cospira a mantenere l’essere umano in una
condizione infantile. Tutti gli ambiti della cultura, dal fumetto alla
televisione, dalle tecniche di restauro delle opere antiche alla pubblicità,
dai giochi video ai programmi scolastici, dallo sport di massa ai psicofarmaci,
da Second life fino alle esposizioni attuali nei musei contribuisce a creare un
consumatore docile e narcisista che vede nel mondo intero una sua estensione,
governabile con un click del mouse.
Non può perciò esistere nessuna
scusa o giustificazione per l’industria del divertimento e per l’adattamento
della cultura alle esigenze del mercato che hanno contribuito così potentemente
alle tendenze regressive. Ci si può dunque chiedere perché un tale degrado ha
suscitato così poca opposizione. In effetti, tutti hanno contribuito a questa
situazione: la destra, perché crede comunque e sempre al mercato, almeno da
quando è diventata interamente liberale. La sinistra, perché crede
nell’uguaglianza dei cittadini. Quello che è più curioso è proprio il ruolo
svolto dalla sinistra in questo adeguamento della cultura alle esigenze del
neo-capitalismo. La sinistra ha costituito spesso l’avanguardia, il battistrada
nella trasformazione della cultura in una merce. Tutto si è svolto all’insegna
delle parole magiche “democratizzazione” e “uguaglianza”. La cultura deve
essere a disposizione di tutti. Chi può negare che si tratti di un’aspirazione
nobile? Molto più rapidamente della destra, la sinistra – “moderata” o
“radicale” che sia – ha abbandonato – soprattutto dopo il ’68 - ogni idea che
possa esistere una differenza qualitativa tra espressioni culturali. Spiegate a
un qualsiasi rappresentante della sinistra culturale che Beethoven vale più di
un rap o che i bambini farebbero meglio a imparare a memoria delle poesie
piuttosto che giocare alla play station, e lui vi chiamerà automaticamente
“reazionario” e “elitista”. La sinistra ha fatto quasi ovunque la pace con le
gerarchie di reddito e di potere, trovandole inevitabili o addirittura
piacevoli, benché i danni che fanno siano sotto gli occhi di tutti. Ha invece
voluto abolire le gerarchie là dove queste possono avere un senso, a condizione
che non siano stabilite una volta per tutte, ma mutabili: quelle
dell’intelligenza, del gusto, della sensibilità, del talento. Ma anche coloro
che ammettono il decadimento della cultura generale, vi aggiungono, come un
riflesso condizionato, che una volta la cultura era forse di livello più alto,
ma era l'appannaggio di un'infima minoranza, mentre la grande maggioranza
sprofondava nell'analfabetismo. Oggi invece tutti vi avrebbero accesso. A me
sembra però che i bambini che oggi crescono con Omero e Shakespeare o Cervantes
costituiscano una minoranza ancora più infima di quella di una volta.
L’industria del divertimento ha semplicemente sostituito una forma di ignoranza
con un’altra, così come l’enorme aumento di persone che hanno un diploma di
scuola superiore o che frequentano l’Università non sembra aver incrementato
molto il numero delle persone che veramente sanno qualcosa. In Francia, per
esempio, si può fare un master universitario su dei temi e con delle conoscenze
che trent’anni fa sarebbero stati insufficienti per ottenere il diploma di una
scuola media tecnica. Non oso sperare che in Messico sia molto diverso. Così è
facile che ogni anno il cinquanta per cento dei giovani consegue il diploma
liceale – che grande vittoria della democratizzazione.
Non si possono chiamare i
prodotti dell’industria del divertimento una “cultura di massa” o “cultura
popolare”, come suggerisce per esempio il termine “musica pop”, e come
affermano tutti coloro che accusano di “elitismo” ogni critica di ciò che in
verità non è altro che la “formattazione” delle masse, per utilizzare una
parola contemporanea assai eloquente. Il relativismo generalizzato e il rifiuto
di ogni gerarchia culturale si sono spesso spacciati, soprattutto nell’epoca
“postmoderna”, per forme di emancipazione e di critica sociale, per esempio in
nome delle culture “subalterne”. A me sembra evidente che sono un riflesso
culturale del dominio della merce. Come abbiamo già visto, la merce è una pura
quantità di lavoro e dunque di denaro, sempre uguale, incapace di distinzioni
qualitative. Davanti alla merce, tutto è uguale. Tutto è solo del materiale per
il processo sempre uguale di valorizzazione del valore. Questa indifferenza
della merce per ogni contenuto si ritrova in una produzione culturale che
rifiuta ogni giudizio qualitativo e per cui tutto equivale a tutto.
“L’industria culturale rende tutto uguale” sentenziò Adorno già nel 1944.
Qualcuno accuserà
un’argomentazione come la mia di “autoritarismo” e affermerà che è “la gente”
stessa che spontaneamente vuole, chiede, desidera i prodotti dell’industria
culturale, anche in presenza di altre espressioni culturali, così come milioni
di persone mangiano volentieri nei fast-food, pur potendo mangiare, per gli stessi
soldi, in una taverna tradizionale. E’ facile controbattere ricordando che in
presenza di un bombardamento mediatico massiccio e continuo in favore di certi
stili di vita la “libera scelta” è alquanto condizionata. Ma c’è di più. Come
abbiamo visto, l’accesso alla pienezza dell’essere umano richiede un aiuto da
parte di chi già possiede, almeno in parte, questa pienezza. Lasciare libero
corso allo sviluppo “spontaneo” non significa affatto creare le condizioni
della libertà. La “mano invisibile” del mercato finisce nel monopolio assoluto
o nella guerra di tutti contro tutti, non nell’armonia. Ugualmente, non aiutare
qualcuno a sviluppare la sua capacità di differenziazione significa condannarlo
a un infantilismo eterno. Vi do un esempio non tirato dalla psicoanalisi e a
cui tengo molto. Esistono quattro gusti fondamentali, nel senso del sapore:
dolce, salato, acido e amaro. Ora, il palato umano è in grado di percepire la
decimillesima parte di una goccia di amaro in un bicchiere d’acqua, mentre per
gli altri gusti ci vuole una goccia intera. Di conseguenza, nessun gusto è
tanto capace di differenziazione e di una molteplicità quasi infinita di
sensazioni gustative quanto l’amaro. Le culture del vino, del té e del
formaggio, queste grandi fonti di piacere nell’esistenza umana, si basano su
questi infiniti tipi e gradi di amaro. Ma il bambino piccolo rifiuta
spontaneamente l’amaro e accetta solo il dolce e poi il salato. Dev’essere
educato ad apprezzare l’amaro, vincendo una resistenza iniziale. Svilupperà in cambio
una capacità di godere che altrimenti gli rimarrebbe preclusa. Tuttavia, se
nessuno glielo impone, non chiederà mai altro che il dolce e il salato, che
conoscono ben poche sfumature, ma solo il più o meno forte. E così nasce il
consumatore di fast food –che è basato solo sul dolce e sul salato - incapace
di apprezzare gusti diversi. E quanto non si è appreso da piccoli non si
apprenderà più da grandi; se il bambino cresciuto con hamburger e coca-cola
diventa un neo-ricco e vuole ostentare cultura e raffinatezza, consumando vini
italiani e formaggi francesi, non ci riuscirà ad apprezzarli veramente.
Direi che si può applicare questo
ragionamento sul “gusto” gastronomico senza molti cambiamenti anche al “gusto”
estetico. Ci vuole un’educazione per apprezzare una musica di Bach o una musica
tradizionale araba, mentre il semplice possesso del corpo basta per
“apprezzare” gli stimoli somatici di una musica rock. E’ vero che la maggior
parte delle popolazioni chiede ormai “spontaneamente” coca-cola e musica rock,
fumetti e pornografia in rete: ma questo non dimostra che il capitalismo, che
offre tutte queste meraviglie a profusione, è in sintonia con la “natura
umana”, bensì che è riuscito a mantenere questa natura al suo stadio iniziale.
In effetti, nemmeno mangiare con coltello e forchetta fa spontaneamente la sua
apparizione nello sviluppo di un individuo.
Dunque, il successo delle
industrie del divertimento e della cultura del “facile” – un successo
incredibilmente mondiale che travalica tutte le barriere culturali – non è solo
dovuto alla propaganda e alla manipolazione, ma anche al fatto che questi vengono
incontro al desiderio “naturale” del bambino di non abbandonare la sua
posizione narcisista. L’alleanza tra le nuove forme di dominazione, le esigenze
della valorizzazione del capitale e le tecniche di marketing è tanto efficace
perché si appoggia su una tendenza regressiva già presente nell’uomo. La
virtualizzazione del mondo, di cui tanto si parla, è anche una stimolazione dei
desideri infantili di onnipotenza. “Abbattere tutti i limiti” è l’incitazione
maggiore che si riceve oggi, che si tratti della propria carriera professionale
o della promessa di eterna salute e di eterna vita grazie alla medicina, delle
esistenze infinite nei video-giochi o dell’idea che un’illimitata “crescita
economica” sia la soluzione a tutti i mali. Il capitalismo è storicamente la
prima società basata sull’assenza di limiti. E oggi si comincia a prendere la
misura di che cosa ciò significa.
L’industria del divertimento è
dunque assolutamente consustanziale alla società della merce. La vera arte
invece, se essa si prende sul serio, se è fedele alla sua essenza, non dovrebbe
dunque mai andare d’accordo con l’economia e il mercato. Il qualitativo e il
quantitativo sono qui principi antitetici. Ma esiste questa “vera cultura”, e
se esiste, dove la si potrà trovare? L’abbiamo definita fin qui soprattutto ex
negativo, parlando di tutto ciò che non è. Manca qui il tempo per dilungarsi
sulla grandezza e sull’ambiguità della cultura tradizionale. Era talvolta
capace di scuotere l’osservatore, cioè il pupblico, capace di dire “no” non solo
alla società, ma anche alla costituzione di ogni individuo, ingiungendogli,
come dice una poesia del poeta tedesco Rainer Maria Rilke : “Tu devi cambiare
la tua vita”, o proclamando, come il poeta francese Arthur Rimbaud: “Bisogna
cambiare la vita”, o ancora come lo scrittore francese Lautréamont: “L’arte
deve essere fatta da tutti, non solo da alcuni”. Certe opere del passato,
mentre le guardiamo, sembrano guardarci e aspettare da noi una risposta.
Tuttavia, non si può opporre in assoluto un’arte “alta “ o “grande” del
passato, sempre volta al miglioramento dell’essere umano, all’industria
culturale odierna. La complicità aperta o nascosta con i poteri dominanti e con
i modi di vita dominanti ha sempre caratterizzato gran parte delle opere
culturali. L’importante è che esisteva la possibilità di uno scarto, talvolta
espressa attraverso la categoria estetica del “sublime”. L’opera, in
quest’ottica, non deve essere “al servizio” del soggetto che la contempla. Non
sono le opere che debbono piacere agli uomini, ma gli uomini che devono cercare
di essere all’altezza delle opere. Non spetta allo spettatore, o “consumatore”,
di scegliere la sua opera, ma all’opera di scegliere il suo pubblico e di
determinare chi è degno di essa. Non spetta a noi giudicare Baudelaire o
Malevitch; sono loro che ci giudicano e che giudicano della nostra facoltà di
giudizio. Fino a un’epoca recente, si giudicava – in campo estetico - una
persona sulle opere che sapeva apprezzare, e non le opere sul numero di persone
che sapevano attirare. Chi era in grado di cogliere tutta la complessità e la
ricchezza di un’opera particolarmente riuscita era dunque considerato come
qualcuno che era andato molto avanti sulla strada della realizzazione umana,
normalmente grazie a un lavoro duro su se stesso. Che contrasto con la visione
postmoderna per cui ogni spettatore è democraticamente libero di vedere in
un’opera ciò che vuole, e dunque ciò che vi proietta lui stesso! Certo, in
questo modo lo spettatore non sarà mai confrontato con niente di veramente
nuovo e avrà la confortante certezza di poter sempre rimanere così com’è. E
questo è esattamente il rifiuto narcisistico di entrare in un vero rapporto
oggettuale con un mondo distinto da lui.
Questa attitudine a conferire dei
choc esistenziali, a mettere in crisi l’individuo invece di confortarlo e
confermarlo nel suo modo di esistenza è visibilmente del tutto assente nei
prodotti dell’industria del divertimento, che mirano all’”esperienza” e
all’”evento”. Chi vuole vendere, va incontro ai bisogni degli acquirenti e alla
loro ricerca di una soddisfazione immediata, confermando l’opinione alta che
hanno di se stessi piuttosto che frustrandoli con delle opere non
immediatamente “leggibili”. Da quel punto di vista, non esiste più oggi quasi
nessuna differenza tra un’arte “alta” o “colta” e un arte “di massa”. Le opere
del passato vengono incorporate nella macchina culturale, per esempio tramite
mostre spettacolari, restauri che devono rendere le opere godibili per ogni
spettatore (per esempio, ravvivando eccessivamente i colori), o tramite
versioni massacrate dei classici letterari o musicali per “avvicinarle“ al
pubblico. Oppure mescolandoli a espressioni del presente che tolgono ogni
specificità storica, come nel caso della famigerata piramide nel cortile del
Louvre a Parigi. Il pungolo che le opere del passato potrebbero ancora
possedere, foss’anche solo a causa della loro distanza temporale, viene
neutralizzato tramite la loro spettacolarizzazione e commercializzazione.
Niente di più fastidioso dei
musei che diventano “pedagogici” e vogliono “avvicinare” la “gente comune” alla
“cultura” con una pletora di spiegazioni sulle pareti e tramite auricolari che
prescrivono a ciascuno esattamente che cosa deve provare di fronte alle opere,
proiezioni video, giochi interattivi, museum shops, magliette... Si afferma di
rendere in questo modo la cultura e la storia fruibili anche agli strati
non-borghesi (come se i borghesi di oggi fossero colti). In verità, proprio
questo approccio user-friendly mi pare il massimo dell’arroganza verso gli
strati popolari, di cui suppone che siano per definizione insensibili alla
cultura e che l’apprezzino solo se viene presentata nel modo più frivolo e
infantile possibile. Sparisce così anche l’atmosfera piacevole dei musei un po’
polverosi di una volta, piacevole proprio perché sembrava di entrare in un
mondo a parte, dove si poteva riposare dal turbine che ci circonda sempre –
anche perché questi musei erano poco frequentati. Adesso, più un museo è “ben
gestito” e attira il pubblico, più assomiglia a un incrocio tra una stazione
metropolitana all’ora di punta e una sala informatica. A questo punto, perché
ancora andarci? Tanto vale guardare le stesse opere su un CD, perché
dell’”aura” dell’opera originale non è comunque rimasto niente. E’ stato un
altro modo perverso di unire l’arte alla vita, di cancellare la loro differenza
e di eliminare ogni idea che possa esistere qualcosa di diverso dalla piatta
realtà che ci circonda. Il vecchio museo, con tutte le sue tare, poteva essere
lo spazio appropriato all’apparizione di qualcosa di veramente inaudito per lo
spettatore, proprio perché era tanto diverso da ciò che viviamo abitualmente.
Oggi, le classe scolastiche che vengono trascinate attraverso le sale
d’esposizione ricevono più che altro un’efficace vaccinazione preventiva contro
ogni rischio di poter sentire un messaggio esistenziale dalla parte dell’arte o
della storia, o almeno di andarle a scoprire per conto proprio...
La cultura cosiddetta
“contemporanea”, cioè prodotta oggi, partecipa generalmente allo stesso modo
regressivo. Gli artisti stessi hanno tradito il compito dell’arte. Lo si vede
nell’eterna ripetizione del gesto di Marcel Duchamp nell’arte contemporanea da
quarant’anni. L’urinatoio esposto nel 1917 come “fontana” era una provocazione
venuta a proposito; in seguito è diventata una patente di nobiltà per esporre
qualsiasi oggetto come opera d’arte, eliminando così ogni idea di un’opera
eccellente o di un ”sublime”. Quest’arte è altrettanto poco capace di scuotere
lo spettatore quanto lo sono i prodotti dell’industria dell’intrattenimento.
Mentre le avanguardie cosiddette “classiche” della prima metà del XX secolo
sapevano dire l’essenziale sulla loro epoca storica, l’arte di oggi riesce
difficilmente ad evitare l’impressione della sua insignificanza. Si può anche
rifiutare l’idea di una “morte dell’arte” generale (io me ne sono occupato
altrove), ma risulta comunque difficile trovare un’arte contemporanea
all’altezza dei suoi predecessori. Essa partecipa alla derealizzazione generale,
proprio come l’industria del divertimento, ed è diventata una sottospecie del
design e della pubblicità. Essa merita allora la sua commercializzazione.
L’arte contemporanea si è buttata nelle braccia dell’industria culturale e
chiede umilmente di essere ammessa alla sua tavola. Ciò è un risultato, tardivo
e imprevisto, di quell’allargamento della sfera dell’”arte” e di
quell’estetizzazione della vita che sono stati cominciati un secolo fa dagli
artisti stessi, come appunto Duchamp. Sembra dunque che non esistano più molte
opere capaci di contribuire alla nascita di soggetti critici. Esistono solo dei
clienti. Allora fa davvero poca differenza come si gestiscono i musei. Si
afferma che i musei devono adeguarsi alla necessità di “far pubblico”, pena la
loro sparizione. Ma il risultato è lo stesso. Un’arte che serve soltanto a
creare dei clienti soddisfatti non è comunque più un’arte degna di questo nome.
Bisognerebbe almeno ammettere una
differenza qualitativa, di peso, tra i prodotti dell’industria dell’intrattenimento
e una possibile “cultura vera” per poter evocare per quest’ultima un
trattamento a parte. Bisogna ammettere dunque la possibilità di un giudizio
qualitativo e non puramente relativo e soggettivo. C’è una grande differenza
tra voler stabilire dei parametri di giudizio, pur sapendo che non discendono
dal cielo, ma che debbono essere soggetti alla discussione e al cambiamento, da
un lato, e negare, dall’altro, a priori la possibilità stessa di stabilire dei
parametri, di modo che tutto è uguale a tutto. Se tutto si equivale, niente
vale più la pena. Sono questa uguaglianza, e l’indifferenza che ne segue, a
stendersi come un sudario sulla vita dominata dal mercato e dalla merce. Esse
minano alla base la capacità degli umani di fare fronte alle minacce
onnipresenti di barbarizzazione. Le sfide che ci aspettano nei prossimi tempi
hanno bisogno di essere affrontate da persone nel pieno possesso delle loro
facoltà umane, non da adulti rimasti bambini nel senso peggiore della parola.
Sarà curioso vedere che posto terranno l’arte e le istituzioni culturali in
questo passaggio epocale.