sabato 24 maggio 2014

Il Big Bang della modernità






Le armi da fuoco come motore del progresso tecnico, la guerra come motore dell’espansione: uno sguardo indietro alle origini del lavoro astratto

Robert Kurz 

E’ con tenace persistenza che si mantiene il mito illuminista secondo il quale sistema produttore di merci della modernità sarebbe emerso da un “processo di civilizzazione” (Norbert Elias) che, in rottura con la cultura barbara dell’età media, sarebbe il risultato del commercio pacifico, dell’industrioso spirito borghese e di un certo numero di audaci scoperte scientifiche che permisero il miglioramento del benessere degli uomini. E quale portatore di tutte queste buone cose si potrebbe considerare il moderno “soggetto autonomo” che si sarebbe emancipato dai condizionamenti corporativi e agrari per raggiungere la “libertà dell’individuo”.  Che vergogna allora che il frutto di una tale combinazione di pure virtù e di progressi è caratterizzato da povertà di massa, miseria, guerre, crisi globali e dalla distruzione completa del mondo!

La natura distruttiva e assassina della società moderna ci invita a cercare un’origine differente da quella ufficiale della favola ideologica. Dopo che Max Weber mise in evidenza il nesso ideale tra protestantesimo e capitalismo, l’origine della modernità è stata classificata in maniera grossolana e per nulla critica. Con una certa dose di “astuzia borghese” sono state occultate in grande misura le motivazioni e le fasi di sviluppo che furono all’origine del mondo moderno, allo scopo di far risplendere in una falsa immacolatezza l’aurora della libertà borghese e dello scatenamento del sistema produttore di merci.

Comunque, esiste un approccio storico, opposto all’immagine ufficiale della storia, secondo il quale la vera origine del capitalismo ai primordi della modernità non risalerebbe in alcun modo all’espansione pacifica dei mercati, ma sarebbe essenzialmente di natura militare-economica. E’ un fatto che il denaro e le relazioni basate sulle merci, il commercio esterno e i mercati, esistevano, in una scala più o meno grande, anche anticamente, ma senza che mai apparisse l’economia di mercato totalitaria moderna. Ciò perché, come ben vide Marx, questi scambi restavano limitati a delle “nicchie economiche” a margine dell’economia agraria dello scambio diretto. L’idea che il decollo di un sistema dove il denaro è un “soggetto automatico” (Marx) che si autoriproduce, potesse non doversi esclusivamente alla rivoluzione intellettuale del protestantesimo ma anche all’invenzione delle armi de fuoco avvenuta ai primordi della modernità, appare anche nella ricerca di Max Weber.

Ma Weber, nella sua nota qualità di ideologo del vecchio imperialismo germanico, non aveva ovviamente alcun interesse a precisare e sistematizzare questi pensieri. Già nel 1913, nella sua opera "Krieg und Kapitalismus" (Guerra e Capitalismo), Werner Sombart, specialista in storia sociale ed economica, richiamò esplicitamente l’attenzione verso le radici economico-militari della modernità. Ma anch’egli finì per non sviluppare questo approccio, una volta che poco tempo dopo diverrà uno dei principali ideologi della guerra per poi, in seguito, antisemita categorico quale era, aderire al nazismo. Dovrà passare più di mezzo secolo prima che qualcuno tornasse a riferirsi alla relazione tra la genesi del capitalismo e l’”economia delle armi da fuoco”. E’ il caso dell’economista Karl Georg Zinn ("Kanonen und Pest", "Cannoni e peste", 1989), nello spazio di lingua tedesca, e dello specialista in storia moderna Geoffrey Parker ("Die militärische Revolution", "La rivoluzione militare", 1990), in quello di lingua inglese. Sebbene contengano materiale evidente, anche questi studi non sono esenti da tratti apologetici. L’immagine rosea del mondo della modernizzazione, trasmessa dall’illuminismo, può continuare ad offuscare la nostra visione.

Le carenze del materialismo storico

Si potrebbe pensare che la critica radicale della società da parte del milieu marxista fosse destinata a recuperare e a sviluppare l’approccio ignorato dalla teoria borghese. Fu Marx, dopo tutto, che oltre ad aver analizzato la distruttiva logica funzionale del “soggetto automatico” e la forma di attività separata dalle necessità implicita nel “lavoro astratto”, tratteggiò in termini chiari  - per esempio nel capitolo sulla cosiddetta “accumulazione originaria” – la preistoria, tutto meno che civilizzatrice, del capitalismo.

Tuttavia anche in questa descrizione le origini economico-militari della logica del capitale rimangono sottovalutate. E il marxismo successivo a Marx non tornò a recuperare questo approccio; la storia preindustriale della costituzione del sistema produttore di merci disturbava perché, nei termini della dottrina marxista, era stranamente ambigua.

C’è, infatti, una ragione nella teoria di Marx per la quale anche il marxismo deve reprimere questo nesso tanto sgradevole agli apologeti borghesi. Una componente centrale del materialismo storico consiste nell’interpretare la storia come una sequenza di stadi di sviluppo “necessari”, in cui anche al capitalismo è ascritta una “missione civilizzatrice” (Marx). Questa costruzione ereditata dalla filosofia illuminista borghese e da Hegel, che fu soltanto convertita in materialismo e prolungata con il socialismo, mal si combina, tuttavia, con una storia della rispettiva fondazione che è perfettamente anti-civilizzatrice, e in cui il capitale – come dice Marx – venne al mondo “grondante sangue e sporcizia da tutti i pori”.

Tanto più contraddice il materialismo storico il fatto che la logica della valorizzazione e il lavoro astratto  non siano nati dallo sviluppo delle forze produttive “nel grembo” della società agraria premoderna ma, al contrario, come un autentico “sviluppo delle forze distruttive”, come un principio esterno che si sovrappose in maniera soffocante sull’economia agraria dello scambio diretto, invece di svilupparla oltre i suoi limiti.

Allo scopo di non compromettere il loro schema storico-filosofico, anche i marxisti lasciarono nell’ombra le fasi primitive della costituzione del capitalismo, o le dichiararono menzognere. La ragione decisiva di questo comportamento sarebbe stata la paura di promuovere un pensiero reazionario. Ma questa è una falsa alternativa, di quelle che sempre tornano a nascere dalle contraddizioni dell’ideologia borghese. La mitologia illuminista del progresso, da un lato, e il pessimismo culturale reazionario e il romanticismo agrario, dall’altro, sono le due facce della stessa medaglia. Entrambi questi modi di pensare hanno come base il desiderio di un’ontologia positiva.

Se prevale l'impulso negativo ad “abbattere tutte le condizioni in cui la natura umana è degradata” (Marx), allora non sarà necessaria alcuna costruzione ontologica. Da qui si potrebbe concludere che i punti essenziali del materialismo storico si applicano alla sola forma sociale capitalista. A parte ciò, si colloca la questione di sapere come il modo di produzione capitalista nacque dall’”economia politica delle armi da fuoco”.

Armi indegne di cavalieri

Un giorno del XIV secolo, in un laboratorio alchemico nel sud-est della Germania deve esserci stata una potente esplosione; una miscela di nitrato di sodio, zolfo e altri reagenti chimici, preparata con poca precauzione, detonò nell’aria. Il monaco avido di conoscenza che organizzò questa esperienza si chiamava Berthold Schwarz. Anche se non sappiamo molto di lui, quell’esplosione è stata con ogni probabilità il vero Big Bang della modernità. I cinesi già conoscevano la composizione della polvere da sparo da molto tempo prima e, occasionalmente, oltre l’uso per splendidi fuochi d’artificio, la utilizzavano anche per scopi militari. Tuttavia non venne loro il proposito di costruire, sulla base di questo esplosivo, proiettili a lunga gittata il cui effetto fu, nel senso più vero della parola, contundente. Il dubbio privilegio di scoprire questa applicazione fu riservato ai pii cristiani d’Europa. La prima volta, storicamente documentata, che si fece uso delle armi da fuoco fu nel 1334, quando il vescovo di Costanza Nicola I difese grazie ad esse la città di Meersburg.

Così nacque l’”arma da fuoco” che fino ad oggi è l’arma assassina più conosciuta. Questa invenzione fondamentale ebbe come prima conseguenza la “rivoluzione militare” (Parker) che avrebbe caratterizzato l’ascesa storica dell’occidente. Già nel medioevo si ebbe presentimento delle conseguenze che le efficaci armi di lunga gittata avrebbero avuto per l’ordine tradizionale della società. In questo senso furono formulate chiare riserve ideologiche quando, intorno all’anno 1000, apparve dall’oriente la balestra come nuova arma a lunga gittata. Il secondo Concilio Lateranense proibì nel 1129 il ricorso a quest’arma di guerra, definendola come “arma poco dignitosa per i cavalieri”.  Non fu così un caso che da questo momento in poi la balestra divenne l’arma principale di banditi, fuori legge e ribelle.

L’arma da fuoco ridicolizzò definitivamente in termini militari l’orgogliosa e metallica armatura dei cavalieri. Ancora nel contesto della guerra dei 30 anni , lo scrittore tedesco Grimmelshausen fa dire al suo giovane  "Simplicissimus" riguardo la sua carriera da figlio di un contadino a ufficiale militare: "Questa circostanza che mi ha reso un uomo così potente, ai nostri giorni, è che il più infimo stalliere può uccidere con un tiro l'eroe più valoroso del mondo; ma se la polvere non fosse stata inventata, io mi sarei trovato probabilmente in una ben misera posizione”.

Comunque, i “tubi mangiatori di fumo” ormai non rimasero più nelle mani di un pugno di dilettanti. Dimostrata la potenzialità  della nuova tecnica di armamento, essa divenne indispensabile. Per timore di rimanere indietro gli uni agli altri, i piccoli e grandi sovrani si circondarono delle miracolose armi esplosive. Ormai non c’era più Concilio che valesse. Il know-how delle nuove macchine di morte si estese a macchia d’olio. Fu specialmente nelle città rinascimentali del nord Italia, con la loro destrezza artigianale relativamente evoluta, che la tecnologia delle armi da fuoco progredì più rapidamente che altrove. Tutte le realizzazioni e tutte le scoperte di quest’epoca di nascita del mondo moderno sono legate in un modo o nell’altro all’arte di costruire e usare i fucili.

All’inizio del XVI secolo, il poeta e scrittore italiano del nord Antonio Cornazzano descrive il ruolo decisivo delle armi da fuoco e canta le lodi di “Madama la bombarda, che ha per figlio il fucile. Quest’arte diabolica che ha eliminato tutte le altre, libera ai loro nemici roccaforti, e ognuno trema davanti ai suoi eserciti tuonanti.” (Citato da Rudolf zur Lippe, 1988, p. 37).

Così furono costruiti fucili sempre migliori e, soprattutto, armi sempre più grandi che potessero sparare sempre più lontano. Anche i maggiori campi d’artiglieria ebbero il diritto a nomi propri. In risposta si sviluppò la tecnica della costruzione delle fortezze. Così il primo impeto della modernizzazione fu identico a una corsa agli armamenti e, questo stesso processo, si è ripetuto periodicamente fino ai nostri giorni, potendo essere disegnato giustamente come caratteristica essenziale della modernità. Quanto maggiori e tecnologicamente sofisticate divennero le armi e le fortificazioni, più chiaramente si manifestò anche fino a che punto la “rivoluzione militare” andava alterando la società.

La macchina militare svincolata

Molto presto si arrivò alla conclusione che l’invenzione delle armi da fuoco non si limitava a un’alterazione della tecnologia militare. La profonda alterazione nell’ambito dell’organizzazione e della logistica della guerra inflisse un colpo molto profondo anche all’ordine sociale vigente. Fino ad allora, in quasi tutte le società agrarie, le forme di organizzazione civile e militare erano state in grande misura identiche. Di regola, qualsiasi cittadino pienamente libero costituiva anche un individuo militare con l’obbligo di partecipare alla guerra. L’esercito si riuniva soltanto se la rispettiva istanza suprema, nella figura di un imperatore, re, duca, console etc, "chiamava (gli uomini) alle armi" per organizzare una spedizione di guerra. Al di là di queste occasioni, abitualmente non esisteva alcun apparato militare degno di questo nome. E’ vero che alcuni grandi imperi, come quello cinese o quello tardo-romano, mantenevano eserciti più o meno numerosi in uno stato di operatività permanente. Ma per quanto oneroso spesso fosse il mantenimento di questa incombenza militare, essa condizionò il modo di produzione e di vita dei comuni mortali solo in maniera superficiale.

La differenza decisiva risiede nella questione dell’equipaggiamento. Le armi del guerriero premoderno gli appartenevano e le usava anche quotidianamente, o le custodiva in casa. L’elmo, lo scudo e la spada potevano praticamente essere forgiate da qualsiasi fabbro del villaggio. E qualsiasi ragazzo che andava a pascolare il bestiame sapeva come si fabbricano un arco e le rispettive frecce, oppure una fionda. Anche tutta la logistica della guerra poteva essere organizzata in forma decentralizzata. Ciò corrispondeva in tutto all’organizzazione in larga parte decentralizzata della civiltà agraria. Il potere centrale, anche se dispotico, qui si ripercuoteva sempre in forma attenuata sulla vita quotidiana.

Questo stato di cose dunque decadde irrimediabilmente. I fucili e, soprattutto, i cannoni non potevano più essere prodotti in qualsiasi villaggio, né potevano essere custoditi in casa e ancor meno potevano essere trasportati con sé in forma abituale. L’arma assassina improvvisamente aveva superato la scala domestica per collocarsi oltre il quadro dell’esperienza umana. Il cannone, pertanto, si configura in un certo modo come archetipo della modernità, ossia un utensile che comincia a dominare il suo creatore. Sorse una nuova industria delle armi e della morte che costituì la matrice della posteriore industrializzazione e del cui fetore cadaverico le società moderne, incluse le democrazie del mercato mondiale dei nostri giorni, mai si libereranno.

L’apparato militare cominciò a distaccarsi dall’organizzazione borghese e civile della società. Il mestiere della guerra si trasformò in una categoria professionale specializzata e l’esercito si trasformò in un’istituzione permanente che cominciò a piegare il resto della società al suo dominio. Geoffrey Parker lo dimostra nel suo lavoro di investigazione: "Nel contesto di questo sviluppo, la dimensione degli eserciti aumentò in tutta Europa, le forze armate di alcuni stati decuplicarono tra il 1500 e il 1700, e le strategie per l’utilizzazione di questi eserciti più grandi si fecero più ambiziose e più complesse (...) In definitiva la rivoluzione militare accentuò in maniera spettacolare l’impatto della guerra sulla società: con armi più numerose i costi della guerra divennero più alti, i danni si moltiplicarono e gli eserciti maggiori disposero di amministrazioni a fronte degli accresciuti livelli di esigenza." (Parker 1990, 20).

In questo modo, le risorse della società furono deviate verso i fini militari in una misura senza precedenti. Una sorta di dissipazione militare senza dubbio era già esistita in precedenza, in forma occasionale, ma mai fu tanto duratura, né fu mai prelevato un così elevato tributo dalla produzione sociale. Il nuovo complesso armato militare si trasformò velocemente in un Moloch che ingoiava mostruose quantità di mezzi e al quale furono sacrificate le migliori potenzialità sociali. In contrasto, le culture premoderne, malgrado – o forse a causa – delle loro canzoni epiche e delle loro norme di combattimento, apparivano ben meno orientate verso il militarismo, e le loro guerre potevano sembrare inoffensive scaramucce.

Karl Georg Zinn a questo proposito fa un paragone poco lusinghiero per la modernità: "Rispetto allo sviluppo della tecnica a partire dal XIV secolo, l’età media disponeva (...) di un potere militare relativamente irrisorio. La guerra e l’armamento costituivano un fardello molto minore nella società medievale rispetto a quella moderna. La parte di prodotto eccedente nell’agricoltura che veniva spesa per fini distruttivi si manteneva comparativamente più bassa nel medioevo perché in altro modo non si sarebbero potuti ottenere gli investimenti necessari al progresso della tecnologia agraria, né si sarebbero potute edificare tante cattedrali, nuove città e fortificazioni urbane. Ciò che soprattutto salta agli occhi, comparando l’età media con la modernità, è la qualità diametralmente distinta del progresso tecnologico: innovazioni al servizio dell’agricoltura nell’età media; difesa dello Stato e industria del lusso, accompagnata dall’abbandono dell’agricoltura, nei tempi moderni." (Zinn 1989, 58)

"Madama la bombarda", tuttavia, non si limitò a divorare una parte sproporzionalmente grande del prodotto sociale, ma diede anche l’impulso decisivo all’economia monetaria che, fino ad allora, era rimasta molto limitata. Solo per opera della crescente produttività agraria e artigianale, tale ascesa del denaro a potere anonimo dominante non avrebbe mai potuto aver luogo. Certo, lungo i millenni, il progresso tecnico non era mai cessato. Ma di regola gli individui preferivano approfittare del guadagno di produttività per avere più tempo per riposare o per aumentare i loro piaceri, piuttosto che per dedicarsi all’accumulazione di capitale monetario. Una forma così assurda di sviluppo delle capacità produttive poté essere imposta solo da fuori e con la forza. Ed era la nuova macchina militare, svincolata dal contesto della società, che offriva i migliori presupposti per una simile impresa.

Una volta che la produzione di armi di fuoco non poteva più essere assicurata in forma decentralizzata nel quadro di un’economia agraria e basata sullo scambio diretto, essa doveva venir concentrata. Lo stesso valeva per gli eserciti e gli apparati militari permanenti, i cui membri erano ora diventati assassini professionali a tempo pieno incapaci di procurarsi da sé il loro sostentamento. L’unico medium possibile per la riproduzione della macchina militare svincolata dal contesto sociale era il denaro. L’astrazione dell’apparato delle armi da fuoco in relazione ai bisogni materiali della società corrispondeva alla forma astratta del denaro come veicolo ideale. L’economia di guerra permanente e dei grandi eserciti diventati strutturalmente autonomi fu, dunque, tradotta socialmente in una corrispondente espansione della mediazione del denaro. Sebbene diversi fattori abbiano contribuito a mantenerla e a consolidarla, l’impresa del denaro è una conseguenza della “rivoluzione militare”.

Banchieri di guerra, signori della guerra e mercenari

I signori della guerra dei primordi della modernità (i condottieri), così come i loro subordinati, i semplici artiglieri e fucilieri, furono i primi soggetti del tutto al di fuori della riproduzione naturale agraria e che quindi avevano perduto i loro vincoli sociali. Di conseguenza, la loro esistenza costituì il prototipo della forma-soggetto, prima forma sociale nella storia moderna ad astrarsi nel principio universale del lavoro come risposta ai bisogni umani.

Nelle analisi dello storico culturale Rudolf zur Lippe, diventa evidente come i nuovi e sanguinari "artigiani della morte" si convertirono negli archetipi del moderno lavoro salariato e della sua gestione: “La pianificazione delle azioni belliche (...) ormai era soggetta principalmente al calcolo dei profitti. Gli ideali dell’onore cavalleresco e l’orgoglio corrispondente allo status sociale di ognuno non rientravano in questo calcolo. (...) Il residuo non funzionalizzato di una postura feudale, ossia di una relazione immediata con le persone e le cose per le quali si lottava, andava svanendo da una generazione di ‘ultimi cavalieri’ all’altra. (...) Nella realtà, la massa dei guerriglieri si era convertita in soldati, cioè in percettori del soldo, e i signori della guerra erano pagati dalle casse degli Stati e dai depositi commerciali. La prima invenzione tecnica di un’importanza pratica decisiva fu introdotta nel campo dove cose come lavoro astratto e salariati intercambiabili erano già esistenti da tempo: il cannone è tecnicamente adatto a delle guerre dove l’obiettivo è l’accumulazione astratta del capitale. (...) . Così come il numero di mercenari in una formazione militare rappresentava ormai la quantità che il committente poteva pagare, la sintesi astratta della capacità di attacco nella macchina militare di distruzione che è il cannone costituì una conseguenza logica." (zur Lippe 1988, 37)

La causa prima del collegamento tra l’innovazione delle armi da fuoco e il lavoro astratto non fu, tuttavia, il vecchio capitale commerciale, come ancora qui è suggerito nel senso di un’ontologia del materialismo storico. Non fu la macchina di morte astratta, il cannone, che corrispose a un interesse di accumulazione astratta e preesistente del capitale commerciale ma, al contrario, la genesi di questa forma dell’interesse si deve alla “rivoluzione militare” e ai processi che ne conseguirono sul piano sociale.

A questo punto, il materialismo storico dovrebbe cominciare a dubitare di sé stesso, visto che la sua supposizione di una “base economica”, in questo caso la precedenza del capitale commerciale ai primordi della modernità, non si sposa con la dialettica tra “forze produttive e rapporti di produzione” la quale, in effetti, sarà solo un risultato tardivo del modo di produzione capitalista. Quali forze produttive avrebbero dato origine all’interesse astratto dell’accumulazione del capitale commerciale ai primordi della modernità? La bussola, forse, o l’invenzione degli occhiali? Il presunto nesso causale qui non esiste.

In realtà, il principio astratto dell’accumulazione e, di conseguenza, il sistema della libera impresa dell’economia monetaria moderna non avrebbero mai potuto sorgere direttamente dal contesto urbano medievale delle merci e degli artigiani. Allocati nelle nicchie della società agraria, questi gruppi rimanevano legati dalle rispettive gilde e corporazioni in un rigido sistema di tradizioni e mutue obbligazioni. I “mercati” dell’epoca non si caratterizzavano per la libera concorrenza e ancor meno per la logica astratta dell’accumulazione.  Solo nella misura in cui dinastie di commercianti – per esempio i famigerati Fugger -  acquisirono un’influenza crescente diventando finanziatori delle guerre sotto il regime delle armi da fuoco, l’interesse divenne quello della pura e semplice accumulazione monetaria. In quanto creditori dei principi, questi banchieri erano interessati ai bottini di guerra, tanto grandi quanto passibili di essere convertiti in denaro. I signori della guerra personificarono allo stesso modo questo calcolo di redditività spogliato da ogni bisogno sociale. La razionalità astratta dell’economia moderna non nacque da un desiderio di benessere generale; essa germogliò dalle bocche dei fucili e dei cannoni maneggiati da assassini e incendiari professionisti.

Il maneggiamento di fucili e cannoni fu, in un certo modo, l’archetipo del “lavoro astratto”. Questa espressione ancora oggi confonde la maggior parte delle persone, benché non sia difficile comprenderne il significato. Il "lavoro astratto" è un’attività che si esercita in cambio di denaro e nella quale l’interesse monetario è decisivo, il che equivale a dire che il rispettivo contenuto è relativamente indifferente. Nella forma primordiale della moderna soggettività del denaro, questa indifferenza arrivava senza mezzi termini fino alla morte stessa, dato che la morte stessa era accettata come risultato plausibile. L’oggettivazione del mondo in favore di un indifferente esercizio di somme di profitto includeva l’auto-oggettivazione dell’individuo stesso al pericolo della morte. Il soggetto-oggetto storico trova il suo prototipo nei ricchi finanzieri come nei semplici operai della nuova industria della morte, nei signori della guerra (altrimenti detti capitani d’industria) come nei soldati in quanto operai salariati. E’ indifferente contro chi e a favore di cosa si fa la guerra, in che ramo produttivo si investe, che tipo di lavoro si svolge; ciò che conta è che ci siano soldi da guadagnare, anche se uno o l’altro deve per questo perire.

Questo nichilismo cominciò a travestirsi in parabole della vita campestre. In tedesco, carbone ("Kohle" è uno dei sinonimi popolari di denaro; N.d.Tr.),  o fieno (Heu) era l’espressione colloquiale che designava l’interesse monetario astratto. Ciò che si chiedeva di “fare” era “denaro come fieno”, senza altra considerazione, come rileva una canzone dei soldati mercenari:

Non ci preoccupiamo

del romano impero.

Muoia oggi o domani

per noi fa lo stesso.

Se anche va in pezzi

conta ci si dia il fieno.

Ne faremo una corda

per ricucirlo insieme.

I soldati semplici negli apparati militari emergenti abbrutivano e allo stesso tempo erano socialmente dequalificati per mancanza di mezzi di produzione propri. Così furono loro i primi a correre il rischio di rimanere disoccupati. Quando finiva il denaro nelle casse dei signori della guerra, i posti di lavoro in seno agli eserciti diminuivano. Molti fucilieri e artiglieri diventavano vittime di licenziamenti di massa; si incontravano, allora, senza alcun appoggio, letteralmente in mezzo a una strada ed erano temuti come vagabondi, mendicanti, banditi e occasionali assassini. L’immagine del soldato sradicato e molte volte disoccupato corrispondeva a un fenomeno di massa.


La monetarizzazione della società

I bottini di guerra e i prestiti dei banchieri di guerra ricchi in capitale commerciale erano, tuttavia, insufficienti a mantenere la macchina militare in movimento. Nella stessa misura in cui questa macchina reclamava ogni tipo di combustibile, la totalità della riproduzione sociale veniva deviata a tale scopo essendo, pertanto, soggetta simultaneamente alla forma del denaro. All’inizio, ciò significava la monetarizzazione dei contributi che, fino a quel momento erano stati pagati con generi naturali. Se l'imposta in natura si trovava ancora legata al rendimento agricolo reale, l’imposta in denaro ormai astraeva completamente dalle condizioni naturali e, così, trasferiva la logica dell’apparato militare nella quotidianità del mondo dei comuni mortali.

L’insaziabile fame di denaro delle autorità munite delle armi da fuoco divenne il momento decisivo. Secondo calcoli recenti, il carico fiscale aumentò tra i secoli  XV e XVIII niente meno che del 2.200%. Il fatto che questa imposizione della forma monetaria provocasse un effetto demoralizzante sulle persone risulta da numerose testimonianze.

Perfino Rousseau racconta nelle sue “Confessioni” autobiografiche di come abbia appreso, durante il suo vagabondaggio giovanile in Europa, delle sofferenze della popolazione rurale indebolita: “Dopo svariate ore...entrai,  stanco e quasi morto di fame e di sete, nella casa di un contadino. Pregai il fattore di darmi un pasto a pagamento. Mi offri del latte scremato e del pane d’orzo scadente, e mi disse che era tutto quello che aveva. ... Il fattore, che mi aveva fatto domande tutto il tempo, concluse dal mio appetito la veridicità delle mie risposte. Dopo avermi spiegato che poteva vedere che ero un giovane buono e onesto e che non ero venuto per tradirlo, aprì una botola a lato della cucina, scese al suo interno e tornò un momento dopo con una bella focaccia grossa e una caraffa di vino. ... quando giunse il momento del pagamento, fu preso nuovamente dall’agitazione e dalla paura; non voleva denaro, ma lo rifiutò con un imbarazzo straordinario...e io non riuscivo a capire cosa temesse. Alla fine, tremante, pronunciò le terribili parole: 'Commissario' e 'Topi di cantina.' Mi informò che nascondeva il suo vino a causa degli ufficiali e il pane a causa delle tasse, e che sarebbe stato perso se fossero nati sospetti sul fatto che non stesse morendo di fame. ... Lasciai la sua casa, tanto indignato quanto commosso, e lamentai la quantità di questi bei paesaggi su cui la natura aveva prodigato i suoi doni per farli saccheggiare dai riscossori delle tasse.” (Libro IV)

Questi riscossori costituirono, dopo i banchieri di guerra e i condottieri, un prototipo del libero imprenditore nella misura in cui compravano allo Stato per una somma forfettaria il diritto di riscuotere le tasse. E a chi non poteva pagare, l’ufficiale giudiziario requisiva, se necessario, l’ultima vacca o gli attrezzi allo scopo di convertirli in denaro contante.

Ma la conversione dei tributi in generi naturali a denaro e l’esorbitante aumento di questi ultimi non fu capace di soddisfare la fame di denaro delle macchine militari. I regimi militari dispotici al debutto dell’era moderna cominciarono a fondare le proprie imprese di produzione - fuori da gilde e corporazioni - la cui finalità non consisteva più nella soddisfazione delle necessità, ma unicamente nel guadagno di denaro. Queste manifatture e piantagioni dipendenti dallo Stato producevano, per la prima volta, per un mercato anonimo di grande estensione geografica che finiva per diventare il presupposto della libera concorrenza. E visto che nessuno si legava volontariamente al lavoro salariato, mal pagato com’era, si ricorreva ai detenuti, ai malati di mente imprigionati e, nella periferia, anche agli schiavi. Fino a essere inventati delitti con l’unico scopo di organizzare moltitudini di lavoratori forzati. I direttori delle nuove case di correzione e di lavoro al servizio del libero mercato, che si andavano formando come prodotto collaterale della monetarizzazione forzata della società, completarono l’illustre riquadro dei prototipi del libero imprenditore.


La guerra al servizio della formazione degli stati

I condottieri che si vendevano, coi loro eserciti privati, al signore urbano o territoriale che gli facesse la migliore offerta furono un fenomeno di transizione. Le amministrazioni dei principati, che inizialmente si erano limitate a figurare come mandanti, non tardarono a prendere la situazione nelle loro mani. Ciò che in seguito si convertirà nella legge di sviluppo dell’economia moderna, cominciò a imporsi al livello di potenze che si combattevano con armi da fuoco; i pesci grandi mangiavano quelli più piccoli.

Una volta messi in marcia dalla dinamica auto-perpetua della “rivoluzione militare”, gli stati protomoderni appena costituiti iniziarono un movimento di espansione e, così, entrarono in rotta di collisione. In bagni di sangue per l’epoca senza precedenti, misurarono per la prima volta le loro forze basate sulla tecnologia pesante, allo scopo di risolvere con le armi la questione su chi dovesse avere l’egemonia in Europa. Giustamente lo storico liberal-conservatore svizzero Jacob Burckhardt parlò della "Guerra della costituzione dello stato" dei primordi dell’umanità, perché fu in questa epoca che si formarono le strutture basilari delle strutture di potere ancor oggi vigenti e di quella che –  in quanto rovescio della riproduzione monetaria – designiamo come politica.

Questa dinamica fu accelerata dalla scoperta delle Americhe. Nella stessa misura in cui la tecnica della guerra moderna fu messa in moto, la fame di denaro delle macchine militari condusse all’espansione verso entrambe le parti dell’America, ciò che senza armi sarebbe stato impensabile. E’ ben noto che avventurieri come Pizarro macellarono con mezza dozzina di pistole e una manciata di fucili intere nazioni indiane. L’economia delle armi e il colonialismo si potenziarono mutuamente. Il traffico permanente tra i vari lati dell’Oceano Atlantico esigette enormi programmi di costruzione di flotte che potevano essere realizzate solo con il ricorso all’economia monetaria astratta. La "Guerra della costituzione dello stato" assunse dimensioni intercontinentali. Dietro la logica delle armi si nascondeva l’ossessione megalomane del dominio del mondo. Così la guerra dei sette anni, dal 1756 al 1763, tra Prussia e Inghilterra da un lato e l’Austria, la Russia e la Francia dall’altro, fu la prima guerra a meritare la designazione di mondiale, vistò che si dispiegò contemporaneamente in Europa e nelle colonie del Nuovo Mondo.

La Storia cominciò dunque a consistere in una raffica sempre più rapida di conflitti militari. Secondo Geoffrey Parker, la modernità costituì, tanto sotto l’aspetto della frequenza come sotto il punto di vista della durata e dell’estensione delle guerre, il periodo meno pacifico di tutta la Storia dell’Umanità. Questa intensificazione della guerra e la militarizzazione dell’economia andavano necessariamente di pari passo con una centralizzazione della società. Non era solo verso l’esterno, ossia, sul piano internazionale tra Stati, che i pesci grandi mangiavano quelli piccoli. Anche all’interno degli Stati, costituiti a immagine e somiglianza del fucile, il dominio fu riorganizzato. Fino al XVI secolo non era esistita alcuna amministrazione organizzata dall’alto al basso. Gli individui dovevano offrire i loro tributi con i generi naturali o attraverso le corvée, ma per il resto rimanevano per conto loro quotidianamente. La gran parte delle questioni era trattata da istituzioni tanto limitate quanto autonome. Esistevano grandi regioni con contadini e artigiani liberi, che assicuravano essi stessi la propria difesa, senza riconoscere alcuna tutela feudale; il carattere repressivo delle strutture consisteva qui soprattutto nel carattere di condizioni regolate da legami di sangue.

La modernizzazione, qui, non significò altra cosa se non la distruzione dall’alto e dall’esterno di queste forme di "gretta autonomia" per assoggettare gli individui alle esigenze dell’”economia delle armi da fuoco”, ossia  per sottoporli alla tassazione monetaria e finalmente convertirli in unità di rifornimento diretto del lavoro astratto al fine della moltiplicazione del denaro. Dalle guerre contadine del XV e XVI secolo fino agli “assalti alle macchine” degli inizi del XIX secolo, i produttori indipendenti si opposero con rivolte disperate alla loro conversione in carne per le armi della macchina militare e della sua economia monetaria astratta. Questa resistenza fu affogata nel sangue. Gli apparati degli Stati assolutisti costituiti sulla base dell’invenzione delle armi da fuoco imposero i loro imperativi con la violenza.


L’economia svincolata

Dietro l’onnipresente obbligo moderno a guadagnare denaro sta, alla fine dei conti, la logica esplosiva del cannone. La dinamica delle alterazioni sociali da essa innescata cominciò, nel XVIII, a divorare i suoi creatori. Il sistema dell’"economia politica" di un apparato armato e militare svincolato dalla società e che ormai unicamente può essere alimentato a costo del lavoro astratto si emancipò dalla sua finalità originale. La fame di denaro dei regimi militari dispotici dei primordi della modernizzazione si trasformò nel principio della “valorizzazione del valore” che dai primi anni del  XIX secolo chiamiamo capitalismo. L’armatura rigida dello Stato militare non fu abbandonata se non per lasciare libero il campo  a una macchina monetaria, ora indipendente e divenuta puro fine in sé, di un’"economia svincolata" (Karl Polany) da tutti i legami sociali e culturali spianando la strada alla concorrenza anonima.

Questa concorrenza totale, perfino nella sua terminologia, porta inscritte le stigma della sua provenienza dalla guerra totale. Non è una coincidenza che Thomas Hobbes, fondatore della teoria liberale dello Stato moderno, designò la "guerra di tutti contro tutti" come lo stato naturale dell’Uomo. Furono i protagonisti del cosiddetto Illuminismo che, nel XVIII secolo, tradussero gli imperativi dell’”economia svincolata” nell’ontologia filosofica astratta del “soggetto autonomo” che, in fondo, è invariabilmente stabilito come predefinito dalla totalitaria forma del valore. Il socialismo, dal lato suo, si limitò ad appropriarsi della metafisica dello Stato in quanto altro polo dell’ontologia borghese e, con essa, delle origini del mondo moderno nell’economia di guerra. Non per niente il marxismo del movimento operaio parlò, in modo perfettamente candido e positivo, di “eserciti del lavoro”.

Per le democrazie del mercato mondiale di oggi, il fine in sé “svincolato” della valorizzazione del valore e del lavoro astratto, in quanto imposizione da molto tempo interiorizzata, si trasformò definitivamente in qualcosa di indiscutibile. Furono ora esse che portarono alle estreme conseguenze non solo la mercificazione di tutti gli aspetti dell’esistenza ma anche l’amministrazione burocratica degli individui. Tutti i diritti e le libertà, tutta la presunta autodeterminazione e auto-responsabilità, tutta la politica e i programmi di tutti i partiti decorrono sempre da questo muto apriorismo.

La critica radicale del capitalismo rimarrà bloccata fin tanto che essa condividerà il fondamento ontologico della soggettività borghese. La maggior parte dei critici di sinistra degli ontologisti borghesi sono, loro stessi, ontologisti borghesi. In forma implicita, o perfino esplicita, continuano ancora ad appoggiarsi alle costruzioni ontologiche dell’Illuminismo borghese e, per questo, assumono una postura agnostica di fronte alle vere origini della modernità facendo nascere il capitalismo, contrariamente alla verità dei fatti, direttamente dalla società agraria.

Un movimento d’emancipazione e d’opposizione alla modernità capitalista non dovrà coltivare un’ideologia retrograda, ma investire seriamente nella “dialettica negativa”, oltre Adorno e oltre il materialismo storico, cioè, dovrà rompere definitivamente con l’ontologia illuminista del soggetto. E di questo fa parte anche una rivalutazione della storia, nella quale non sarà più omessa la filiazione della modernità dall’”economia politica delle armi da foco”.


Bibliografia:

Norbert Elias: »Über den Prozess der Zivilisation. Soziogenetische und psychogenetische Untersuchungen« . 1936.

Rudolf zur Lippe: »Vom Leib zum Körper. Naturbeherrschung am Menschen in der Renaissance«.  1974.

Karl Marx: »Das Kapital. Kritik der politischen Ökonomie« (O Capital. Crítica da economia política), primeiro volume. 1867.

Geoffrey Parker: »Die militärische Revolution. Die Kriegskunst und der Aufstieg des Westens 1500-1800«. 1988.

Karl Polanyi: »The Great Transformation. Politische und ökonomische Ursprünge von Gesellschaften und Wirtschaftssystemen«. 1944.

Werner Sombart: »Krieg und Kapitalismus«. 1913.

Max Weber: »Die protestantische Ethik«. 1920.

Max Weber: »Wirtschaft und Gesellschaft. Grundriss der verstehenden Soziologie«  1922.

Karl Georg Zinn: »Kanonen und Pest. Über die Ursprünge der Neuzeit im 15. und 16. Jahrhundert«. 1989.

Originale Der Knall der Moderne Pubblicato nella rivista Jungle World, 09.01.2002.

Traduzione by lpz