venerdì 16 maggio 2014

Robotica e lavoro





              Gli incubi della coscienza reificata



Robert Kurz


Per la radice della parola, robot e lavoratore hanno lo stesso significato. Originariamente, “lavoro” era la designazione dell’attività di dipendenti (schiavi) o “strumenti parlanti”  (Aristotele) e, pertanto, equivalente di sofferenza (1). Aiutata dalla metafisica cristiana della sofferenza, con il suo “culto dell’uomo astratto” (Marx) strutturalmente maschile, questa  definizione negativa fu convertita nel suo contrario, glorificata e allo stesso tempo ricondotta al mondo secolare a partire dalla trasformazione religiosa del protestantesimo. Il nuovo modo di produzione capitalista offrì al “lavoro” una grande carriera. Esso solo può rendersi positivo e universalmente valido come produzione di “ricchezza astratta" (Marx) autonomizzata. Ormai non si trattava della definizione generale di “ciò che lo schiavo fa”, ma della combustione di energia umana pura e semplice, indifferente a qualsiasi contenuto della produzione: “lavoro astratto” (Marx), reificato come sostanza del denaro. Non, però, per il piacere, ma piuttosto ricollegato a sé stesso nella forma del capitale, come imperativo a fare senza interruzioni  di uno due talleri, due euro, due dollari etc. Gli individui “liberi” furono così trasformati in “strumenti parlanti” o “robot” al servizio di questo fine sociale in sé, situazione in cui la “forza-lavoro” diventa una merce, rendendo per questo il mercato una relazione totalitaria.

Ma la riduzione degli individui a motori di combustione di energia umana astratta non è l’unica base energetica del capitalismo. Non è un caso che nel secolo XVIII “lavoro” sia divenuto anche un concetto della fisica, come il rapporto di vettore energetico della forza meccanica che agisce su un corpo lungo lo spostamento. Lo sfondo sociale è l’utilizzazione capitalista delle scienze sociali naturali. La macchina del mercato obbliga i capitali individuali a concorrere per una parte della massa della sostanza sociale del denaro; e in questa concorrenza si può sopravvivere solo con l’aumento di produttività, condizionato dall’uso delle macchine e delle apparecchiature di controllo. Questi “robot” fisici morti, tuttavia, necessitano di propulsione in una scala ogni volta maggiore, attraverso l’energia non-umana dei combustibili fossili. Il capitalismo si rende così una cultura della combustione in un duplice senso; si sviluppa una dialettica nella relazione tra applicazione di energia umana e applicazione di energia fossile.

Hegel, già negli scritti di Jena, notò, senza fermarsi ulteriormente in questa questione più dettagliatamente, che il macchinario robotico alimentato dai combustibili naturali rende successivamente superflua la forza-lavoro umana. Marx mostrò che, nel processo di sviluppo delle forze produttive, aumenta costantemente la quota-parte del capitale fisico, costituito dalle macchine, a scapito della forza-lavoro: quanto maggiore è la produttività, tanto minore è il dispendio dell’energia umana per unità di capitale-denaro applicato, e maggiore il dispendio dei combustibili fossili. Questo sviluppo progressivo deve apparire minaccioso a un’umanità che ha reificato sé stessa come forza di lavoro. In una pièce di teatro di Carel Capek del 1922 si parla per la prima volta di una “rivolta dei robot”; un topos che da allora divenne inseparabile dalla fantascienza, assumendo forme sempre nuove con la cibernetica e la microelettronica. Nemmeno il computer più sofisticato ha più vita autonoma o intelligenza di una pietra scheggiata; ma la coscienza del feticcio capitalista avverte i suoi stessi strumenti come un potere estraneo e animato.

In verità oggi il capitalismo preme il “limite interno" (Marx) e il collasso energetico della sua duplice e contraddittoria cultura della combustione. L’ipertrofico macchinario morto, imposto dalla concorrenza, non può costituire alcuna sostanza della “ricchezza astratta”, perché questa si basa unicamente sull’energia umana reificata. Alla fine dei conti, al creare disoccupazione di massa, sottoccupazione e precarizzazione tecnologica, il capitale distrugge la sua propria sostanza, il che appare, d’altro lato, come crisi finanziaria e svalutazione del denaro. Allo stesso tempo, il movimento scatenato del fine in sé stesso svuota rapidamente le riserve di energia fossile, provocando una catastrofe ambientale e climatica. Con l’aggiunta che la forma materiale del sistema meccanico è cieca di fronte tutti i contenuti della società e della natura.

La coscienza capitalista feticizza la robotica morta, oggi nella forma del telefono cellulare e di Internet, invadendo perfino lo stato dello spirito personale. Da un lato, un “riduzionismo ecologico” non vede altra via d’uscita se non nel ridurre l’insieme degli equipaggiamenti tecnologici e ritornare a un’economia della sussistenza “naturale” e del “lavoro intensivo”. Dall’altro, un “riduzionismo tecnologico” vorrebbe, all’inverso, gestire la crisi in modo che la produzione di software diventasse il "modello" di automazione alternativa completa di tutto e di tutti, in cui i vincoli economici si dissolvono tecnologicamente e corrano il latte e il miele per i solventi, come in un paradiso turistico ("tutto incluso"). Entrambi i momenti e conseguenze della cultura della combustione continuano a essere giocati unilateralmente uno contro l’altro.

Ma, se la forza produttiva della microelettronica porta al limite il capitalismo, la produzione industriale non può essere globalmente rifiutata, né sviluppata linearmente fino a una “liberazione tecnologica" autonoma. Entrambe le opzioni eludono il principio basilare del “lavoro astratto” e della “ricchezza astratta” autonomizzata, malgrado parziali proteste che però permangono vaghe e inconsistenti. La questione è abolire questa forma dominante di socializzazione universale, invece di pretendere il ritorno a presunti ragionevoli “modelli” ambientali o tecnologici. Solo al di là del “lavoro astratto” e del denaro (o dei loro surrogati utopici) potrà un’”associazione di individui liberi” dell’insieme della società decidere sull’uso e sui contenuti dell’utilizzazione delle risorse comuni.

(1) L’autore si riferisce qui all’etimologia della parola tedesca lavoro (Arbeit). L’etimo delle parole romanze trabalho, trabajo, travail etc. è, a sua volta, tripalium, strumento per torturare schiavi (vedi MANIFESTO CONTRO IL LAVORO, VIII)

Originale ROBOTIK UND ARBEIT in www.exit-online.org. Pubblicato in Jungle World, 29.07.2010

trad. by lpz