giovedì 29 maggio 2014

Crollo e guerra



Robert Kurz


Può accadere che le borse mondiali perdano terreno un poco alla volta, oppure che precipitino verso il baratro impetuosamente. Una cosa è certa: i mercati finanziari stanno sperimentando la più grande depressione nella storia del dopoguerra. Le grida di giubilo degli ultimi anni si sono rivelate prive di fondamento. Ci sono almeno tre ragioni per essere allarmati riguardo ai più recenti sviluppi. Primo: non è più soltanto il settore della New Economy, che si è rivelata il classico "oro degli sciocchi", ad essere trascinato vorticosamente e incessantemente verso il fondo ormai da lungo tempo ma anche quello dei valori di riferimento, ritenuti inossidabili, delle "blue chips" (bancari, compagnie produttrici di automobili o di mezzi di sussistenza primari ecc.). Secondo: non sono più solo le borse esotiche o le borse europee e giapponesi a fare scoppiare bolle speculative in serie, ma è lo stesso "sancta sanctorum" del capitalismo da casinò, cioè Wall Street, ad approssimarsi con rapidità alla massa critica necessaria per una colossale deflagrazione. E terzo: i mega–fallimenti di grandi compagnie (Enron, WorldCom ecc.) che si susseguono uno dopo l’altro a distanza ravvicinata ci segnalano che lo schianto dei mercati finanziari minaccia di avere serie ripercussioni sulla congiuntura dell’economia reale. Se questo tracollo non potrà essere arrestato in fretta ad essere in pericolo non sarà più solo l’ulteriore finanziamento del deficit commerciale e delle partite correnti degli USA, ma anche la loro posizione di ultima potenza mondiale. L’apparato militare americano, altamente tecnologizzato, la cui forza d’urto non teme paragoni, si regge da lungo tempo sul capitale fittizio delle bolle speculative esattamente come gli investimenti e l’opulento consumo della "terra di Nostro Signore". Rischia così di svanire non solo il controllo economico ma anche quello militare sul resto del mondo. Quando non funziona più nulla, l’ultima spiaggia del capitalismo rimane sempre la guerra; così recita una nota argomentazione della sinistra. In effetti gli USA si apprestano in modo febbrile a sferrare un attacco contro l’Irak senza neppure uno straccio di legittimazione plausibile. Ma davvero la guerra potrebbe essere una soluzione per la crisi economica? Combattere per il saccheggio, nelle attuali condizioni dello sviluppo capitalistico, sembra un motivo poco credibile. Non si tratta più di fare bottino, come al tempo dei vichinghi, ma di incrementare la capacità di accumulazione. Nell’epoca della terza rivoluzione industriale l’annessione di territori stranieri equivale ad una vera e propria assurdità, perché tutto ciò che si ottiene è l’acquisizione di popolazioni formate in gran parte da individui "superflui". Anche la brama di petrolio non dovrebbe essere sopravvalutata; si tratta certamente del controllo strategico di importanti riserve ma esso non ha nulla a che vedere con una possibile risoluzione della crisi economica. Nell’Irak ridotto ad uno stato miserevole non c’è proprio nulla neppure lontanamente che valga la pena di essere prelevato in vista di qualche utilizzo. Poco sensata è anche l’opinione secondo cui il motivo sarebbe da ricercare nell’insorgenza di una congiuntura bellica favorevole. La seconda guerra mondiale condusse l’economia americana ai tassi di crescita più alti della sua storia, perché si rese necessario l’impiego di una quantità incalcolabile di materiali per vincere l’equiparabile macchina bellica nazista. Anche il "take off" del miracolo economico dovuto alla congiuntura della guerra di Corea fu possibile solo perché nel corso degli oltre tre anni di combattimento fu necessaria una massa sostanziale di produzione per l’esercito. Anche la congiuntura da riarmo della "reaganomics" si fondava solo su quella mobilizzazione di enormi risorse materiali e tecnologiche che avrebbe condotto allo sfacelo l’Unione Sovietica. Già la Guerra del Golfo, undici anni fa, quando l’esercito iracheno era relativamente in buone condizioni, fu per contro assai breve, con minore possibilità di fare affari grazie all’utilizzo di risorse e quindi non lasciò neppure la traccia di una buona congiuntura. Oggi la difesa irachena ridotta in uno stato pietoso verrebbe sbaragliata senza che si rendesse necessario anche solo un nuovo rifornimento dell’arsenale dei bombardieri americani.

Rimane l’argomento concernente la congiuntura da ricostruzione, secondo cui dopo che la guerra capitalistica avrà raso al suolo ogni cosa, sarà possibile una nuova accumulazione di capitale. Dal punto di vista economico è un nonsense. La capacità di accumulazione viene determinata dal livello delle forze produttive non dalla quantità della produzione. Anche nella Germania Occidentale distrutta dalla guerra il livello di produzione prebellico fu ripristinato già all’inizio degli anni’50. Il "miracolo economico" non si originò dalla ricostruzione di ciò che era andato distrutto (edifici, macchinari ecc.), ma solo dalla capacità delle nuove industrie fordiste di estendere l’assorbimento di forza–lavoro. Perfino se il territorio americano stesso venisse bombardato in lungo e in largo non ne scaturirebbe alcuna nuova, secolare capacità di accumulazione. La devastazione militare delle regioni periferiche non crea alcuna congiuntura da ricostruzione come gli speranzosi rappresentanti delle compagnie occidentali dovettero sperimentare con enorme rincrescimento in Bosnia ed in Kosovo.

La nuova crisi economica che appare all’orizzonte non può assolutamente essere superata con una guerra. Anche se l’Irak dovesse essere annientato, l’euforia borsistica sarebbe breve e di modesta entità. In compenso l’intera regione medio–orientale con tutte le sue riserve strategiche di petrolio sarebbe destabilizzata in modo duraturo. Nonostante ciò Bush attaccherà sicuramente se risultasse inevitabile il tracollo finanziario e la conseguente crisi nell’economia reale. L’argomento della sinistra è di fatto corretto, ma commette un errore quando ritiene che la forza capitalistica sia soggetta ad interessi razionali e a competenza nel suo attuarsi. Il rapporto del capitale è irrazionale in sé e per giunta il suo stesso limite immanente. La razionalità interna dell’interesse si converte in ultima analisi nell’autodistruzione.

E’ la logica del delirio omicida. L’assassino postmoderno è di certo una creatura della concorrenza universale, ma non persegue più alcun interesse sensato nel suo contesto. La sua violenza non ha più nessuno scopo in questo mondo, solo mettere in scena il suo congedo finale. Ciò che gli adolescenti impazziti organizzano come massacri scolastici minaccia di ripeterlo su grande scala la forza rappresentativa del capitalismo americana se non sarà fermata in tempo.