mercoledì 14 maggio 2014

Critica del capitalismo per il XXI secolo



Con Marx oltre Marx: il progetto teorico del Gruppo "EXIT!"

Il testo qui presentato intende sintetizzare in una sorta di "istantanea" il processo di elaborazione teorica sviluppato fino ad oggi dall’approccio della critica sociale difesa in questa pagina di Internet. Potrà servire come orientamento per nuovi interessati. E’ un testo programmatico, non nel senso di un programma politico, che stabilisca una "linea", ma nel senso di un programma teorico, in molti aspetti ancora da sviluppare.


Dalla fine degli anni ‘80 assistiamo in tutto il mondo all’agonia del marxismo, del socialismo, del movimento operaio, dei movimenti di liberazione nazionale e non solo. Anche il classico welfare state borghese è in disintegrazione, il paradigma keynesiano è solo nostalgia e i regimi di "sviluppo" nel terzo mondo crollano anche nelle loro varianti filo-occidentali. Nemmeno il revival nostalgico del romanticismo rivoluzionario terzomondista ha una sua prospettiva storico-sociale. Si tratta piuttosto di sottoprodotti della globalizzazione, come è il caso del regime del caudillo marxista volgare Chavez, in Venezuela, sostenuto solo dall’esplosione del prezzo del petrolio, che si allea con l’islamismo antisemita. Oppure è il caso delle correnti etnico-populiste, come gli Zapatisti nel Messico, che trasformano il programma di sviluppo nazionale, senza più oggetto, in una folcloristica autoamministrazione della miseria con democrazia di base.

I vecchi paradigmi di sinistra di riforma e rivoluzione nella concezione tradizionale diventano caduchi su scala planetaria una volta che ormai non esiste più orizzonte alcuno di regolazione e di trasformazione organizzate statalmente. Ovunque, le istituzioni che restano dell’antica lotta degli interessi sociali, issano la bandiera bianca della resa. Il concetto di "riforma sociale" si è trasformato nel suo esatto opposto ed è stato semanticamente occupato dalla controriforma neoliberale, che passo per passo va riducendo al nucleo repressivo che sempre le fu inerente tutte le conquiste sociali, i sistemi di sicurezza sociale e i servizi pubblici. Il paradigma neoliberale ormai non è più una posizione peculiare, ma un consenso trasversale ai partiti, cui attinge gran parte della sinistra, alla quale più non riesce che, come opposizione apparente, dare espressione a ideologie retrograde di un’epoca passata, o a loro deboli adattamenti. Per questo la resistenza diventa sempre più debole; perfino gli stessi grandi scioperi e i movimenti incendiari di massa terminano sistematicamente nella sconfitta e nella rassegnazione.

Apparentemente il capitalismo ha vinto su tutta la linea. E questo non solo come potere esterno repressivo, ma anche all’interno dei suoi soggetti. L’apparente "legge naturale” del mercato e l’universalità negativa della concorrenza sono vissute come condizioni insuperabili dell’esistenza umana, sebbene i loro effetti siano devastanti, umilianti e insopportabili. Quanto più chiaro diventa che quest’ordine sociale planetario comporta l’autodistruzione sociale ed ecologica, più ostinatamente gli individui si aggrappano alle categorie e ai criteri di questa forma negativa di socializzazione che hanno interiorizzato. Nella stessa misura in cui la ragione borghese si dissolve in quella barbarie della quale Marx aveva avvertito, il pensiero sociale rifiuta qualsiasi riflessione critica e invoca una "civilizzazione" capitalista, affermata e immaginata come progresso positivo solo ideologicamente. Lo stesso potere militare della polizia mondiale capitalista non risolve alcun problema ma aggrava solamente il caos distruttivo e la caduta di prospettive (come in Iraq dall’intervento del 2003). Il capitalismo ha vinto solo nella forma della sua stessa crisi, che è diventata crisi dei suoi famosi “soggetti agenti”, e perciò non apre più alcuna via all’emancipazione sociale. La nuova qualità della crisi paralizza la critica invece di mobilitarla.

Questo paradosso richiede una spiegazione. Nello spazio di lingua tedesca si formò alla fine degli anni ’80 una posizione teorica che si confrontava con questo problema. In questo ambiente si voleva analizzare criticamente la “storia della sinistra”, dei 150 anni del marxismo e del movimento operaio. Il gruppo "EXIT!", intorno alla rivista teorica con lo stesso nome, si concepisce come il risultato di questi sforzi e promuove il loro attuale sviluppo. "EXIT!" discute il marxismo per così dire a partir da dentro, per dare alla teoria di Marx una forma nuova, con la quale possa entrare negli orizzonti del secolo XXI. Per questo è necessario fare domande impietose al pensiero marxista. Poiché il marxismo è considerato la forma teorica par excellence della critica del capitalismo. Come può essa cadere nella sua maggiore crisi di sempre, proprio insieme all’oggetto della sua critica? Perché non risponde alla nuova situazione mondiale alle soglie del XXI secolo? Perché tutto il suo apparato concettuale si presenta tanto irrimediabilmente obsoleto?

Questa posizione del problema non è del tutto nuova, benché si sia molto acutizzata con il collasso dell’Unione Sovietica. Già negli anni ‘60 era chiaro che il paradigma marxista tradizionale era esaurito e non riusciva a seguire lo sviluppo capitalista. E’ vero che i movimenti di liberazione nazionale del Terzo Mondo, i quali si legittimavano in parte con il marxismo, sembravano raggiungere allora l’apice (in realtà dovevano estinguersi poco dopo); ma era evidente che il socialismo di Stato burocratico dell’est cominciava a perdere la capacità di sviluppo interno e la forza di attrazione esterna. Allo stesso modo era già possibile percepire nitidamente che il movimento operaio occidentale, dopo più di un secolo di efficacia, non aveva più forza e ormai rappresentava un modello storico concluso.

Dal punto di vista di "EXIT!", la cosiddetta nuova sinistra, nel contesto del movimento studentesco del 1968, ancora non era nella posizione di raggiungere il nuovo orizzonte del problema e sviluppare un altro paradigma di maggiore portata nella critica del capitalismo. Essa si limitava essenzialmente a selezionare i materiali del marxismo e dell’anarchismo fino allora esistenti, a "inscenare" un’altra volta alcune varianti e correnti sotterranee del vecchio radicalismo di sinistra, come in una specie di teatro di fantasmi, e a ripetere tutto lo spettro delle forme tradizionali di organizzazione, nel formato in miniatura delle sette. L’abbondante letteratura del marxismo degli anni ‘70 nella maggior parte non era originale, poco più di una reminiscenza di commenti a una storia già morta, nella forma di zelanti lavori accademici e politici. Oggi si copre di polvere nelle biblioteche.

"EXIT!" si smarca con la stessa chiarezza dal cosiddetto pensiero postmoderno, che, parallelamente e in mediazione con la nuova sinistra, ha tentato di superare il marxismo tradizionale attraverso un "disarmo della teoria". Con il concetto peggiorativo di "grande teoria", sono state poste sotto sospetto di totalitarismo le principali costruzioni teoriche dei secoli XIX e XX, specialmente il marxismo. I supposti totalitari concetti del tutto sociale, con la loro differenza tra essenza e apparenza, dovevano essere sostituiti da un relativismo fenomenologico non essenzialista; la critica dell’economia politica è stata sostituita dal "culturalismo", l’analisi reale dal culto della virtualità. Il postmodernismo è diventata la teoria di moda degli anni ‘80 e ‘90; e tutta una generazione di sinistra più giovane è cresciuta con essa. Questa teoria non sembra però per nulla adeguata a elevare la critica del capitalismo all’altezza del XXI secolo. L’"orrore economico" totalitario reale ha screditato completamente il culturalismo postmoderno e la sua riduzione fenomenologica della teoria critica. I più recenti tentativi di reinterpretare alla maniera postmoderna il marxismo del movimento operaio (come è il caso del pensiero "post-operaista" di Hardt/Negri o di John Holloway) rivestono soltanto le vecchie categorie con una nomenclatura differente, soggettivizzandole in maniera quasi esistenzialista; la "teologizzazione della critica" che gli è associata implica un’autoestetizzazione dei movimenti priva di prospettive di contenuto, e l’attesa dell’"evento", che subentra al posto di criteri di contenuto per una trasformazione emancipatoria di fondo.

"EXIT!" ha seguito un cammino completamente diverso: è tornata alla critica dell’economia politica, ma non nel senso tradizionale, del "marxismo del movimento operaio". Si tratta invece di quella dimensione della teoria di Marx che è rimasta completamente nascosta nella sinistra fino a oggi esistente, o che, in una minoranza di riflessioni teoriche avanzate, nel migliore dei casi fu bandita come ragionamento "filosofico" astratto, rinviando la sua efficacia pratica a un futuro immaginario: ossia, si tratta della critica del feticismo moderno, della critica della produzione di merci come sistema, della critica della "valorizzazione del valore" (Marx) in quanto "soggetto automatico" (Marx) della società.

Includere nella riflessione questa dimensione profonda di tutta la modernità ha come conseguenza lo smettere di vedere le categorie basiche del moderno sistema produttore di merci come oggetti positivi ontologici, alla maniera del marxismo tradizionale, per sottometterle invece a una critica radicale, in quanto oggetti negativi e storici. In un primo momento questo vale per le categorie economiche in senso stretto, ossia, la razionalità dell’economia aziendale, il "lavoro astratto" (Marx) e le sue forme di espressione: valore, merce, denaro e mercato. La liberazione può essere pensata solo al di là di queste categorie, non "dentro" o "con" esse. Il marxismo tradizionale non aspirava a superare le categorie del sistema produttore di merci, ma solo a moderarle "politicamente". Ma la politica e le sue forme d’esistenza istituzionali, Stato, democrazia e nazione, formano solo l’altro polo del sistema del moderno feticcio, costituito dalla forma giuridica dei soggetti borghesi. Le categorie economiche e politico-giuridiche sono solo le due facce della stessa medaglia. Il moderno soggetto di tutte le classi è un soggetto schizoide, diviso tra homo economicus e homo politicus, tra bourgeois e citoyen. La sinistra ha sempre preteso di addomesticare il bourgeois attraverso il citoyen, di dirigere il mercato attraverso lo Stato, di regolare l’economia del "lavoro astratto" attraverso la politica, di formare i soggetti del denaro attraverso la nazione. Ma la questione è abolire allo stesso modo entrambe le facce del feticismo moderno invece di giocarle una contro l’altra.

Così si raggiunge una prospettiva che non si limita più all’opposizione sociologica immanente tra le “classi” del lavoro salariato, da un lato, e i rappresentanti del capitale, dall’altro, ma che piuttosto prende come bersaglio il sistema di riferimento comune a queste classi. L’obsolescenza di questa connessione formale comune si manifesta ora anche nella caduta della nuova classe media, che era un prodotto della socializzazione capitalista negativa. Il nostalgico riferimento alla vecchia lotta di classe ideologizza, in buona misura, solo gli interessi di attaccamento immanente della classe media in caduta, che desidera rivendicare per sé, una volta di più, il defunto paradigma del "lavoro" (anche in versioni neo-utopiche), invece di, in contrasto col vecchio movimento operaio, prendere come bersaglio i modi della socializzazione capitalista e pensare a come andare oltre ad essi.

Poiché il marxismo tradizionale della lotta di classe ha problematizzato solo l’appropriazione giuridica superficiale del plusvalore da parte del capitalista, "EXIT!" tematizza la forma sociale del "soggetto automatico" che ne sta alla base. Il plusvalore smette di essere un oggetto positivo, che gli uni hanno e gli altri non hanno, e che si possa esigere o tirare. Al contrario, si tratta di un fine in sé irrazionale, sopra a tutti i soggetti agenti. "Valorizzazione del valore" significa un riagganciamento cibernetico del valore a sé stesso, come una specie di macchina sociale. Come il valore, in quanto forma d’accumulazione senza fine, così anche il "lavoro astratto", così come il suo contenuto, diventa allo stesso modo un fine in sé irrazionale, indifferente a qualsiasi qualità sociale o materiale.

Il marxismo tradizionale ha fatto della forma e del contenuto del feticismo moderno condizioni ontologiche e astoriche di una presunta condizione umana. Ma ora si tratta di storicizzare queste categorie e per poter dunque rendere pensabile il loro superamento. La critica del capitalismo del marxismo tradizionale si restringeva alla critica dell’involucro giuridico superficiale della proprietà privata, in quanto forma e contenuto della stessa riproduzione capitalistica erano positivizzati acriticamente. Ma il valore e il "lavoro astratto", in quanto "lavoro" in generale, in quanto "dispendio di nervi, muscoli e cervello" (Marx), non rimangono come fondamento ontologico "dopo il capitalismo", come suggerisce una critica del plusvalore ridotta alla forma giuridica e alla distribuzione; al contrario, il "lavoro" e il "valore" formano l’essenza del plusvalore, e, con esso, del capitale, o dello stesso "soggetto automatico". Il programma della critica non deve essere la distribuzione giusta del valore, ma la sua abolizione in quanto forma irrazionale di una "ricchezza astratta" (Marx) distruttiva. Non sono né il "punto di vista del lavoro" né l’"orgoglio per la creazione del valore" che conducono oltre il capitalismo ma, al contrario, la critica radicale delle moderne "astrazioni reali" di lavoro e valore.

Di fronte a questo piano principale, l’approccio teorico di "EXIT!" si presenta frequentemente anche sotto l’etichetta di "critica del valore" o "critica del lavoro". Ma il moderno feticismo non si esaurisce in questo contesto; una critica che si riducesse alla forma del valore e alla sostanza del lavoro sarebbe essa stessa mutilata e riduzionista. Si tratta di includere nella critica anche il carattere metafisico di tutta la società moderna e del suo "soggetto automatico". Il concetto di feticcio in Marx già punta in questa direzione. Il feticismo del moderno sistema produttore di merci non solo costituisce un’"analogia" con le rappresentazioni religiose, come dice Marx, e inoltre non può essere semplicemente appreso come semplice "ideologia", nel senso di un pensiero costruito in "camuffamenti", ma è esso stesso una costituzione metafisica e contemporaneamente reale della società e della sua riproduzione, tanto materiale quanto culturale-simbolica. La modernità, nelle sue relazioni, non ha superato la metafisica, come essa stessa crede, ma ha solo fatto scendere la trascendenza dall’antica radice religiosa a un'immanenza puramente terrena; essa non è "post-metafisica", ma "realmente metafisica", in una maniera nuova rispetto alle antiche formazioni agrarie. La religione è stata dissolta solamente come principio di direzione celestiale della riproduzione e trasformata in “questione di fede privata", per collocare al suo posto il non meno metafisico principio di direzione terrena della relazione del capitale. Il "soggetto automatico" del moderno sistema produttore di merci non è la ragione umana liberata ma il paradosso di una "trascendenza immanente" in un cieco processo nella forma dell’astrazione valore, il quale resta al di là delle necessità umane e al di là del mondo fisico, ma che ha trasformato, tuttavia, queste necessità e questo mondo in materiale esteriore a sé. Qui è inclusa una nuova qualità della forza distruttiva, che supera tutte le potenze autodistruttive delle precedenti formazioni di feticcio.

La cifra critica della metafisica reale moderna include una critica radicale del secolo dei Lumi, in quanto fondamento ideologico e filosofico di tutto il pensiero moderno. L’Illuminismo non è stato soltanto repressivo fornendo le idee per un disciplinamento dell’umanità nel "lavoro astratto" e per il completo controllo degli esseri umani che gli è associato, come Foucault ha dimostrato fenomenologicamente. E’ stato anche determinante nella costituzione del moderno soggetto schizoide, avendo elevato le forme della metafisica reale a categoria di ragione positiva e avendo presentato la rivoluzione capitalista come metafisica della storia del "progresso".

Il marxismo tradizionale non è stato molto più di un’appendice dell’Illuminismo borghese; così come il plusvalore, esso voleva rivendicare anche l’”eredità borghese” ideale, per darle continuità, invece di rompere con essa. Ciò che il marxismo "ha ereditato" dall’Illuminismo è stata esattamente la falsa ontologizzazione delle categorie basiche della socializzazione capitalistica. L’illusione politica della sinistra consisteva essenzialmente nel rivendicare gli ideali borghesi dell’Illuminismo contro la realtà borghese, invece di sbarazzarsi di questi ideali in quanto ideologia positiva di questa realtà negativa. Gli approcci della critica del soggetto e dell’Illuminismo nelle teorie postmoderne, d’altro canto, non hanno conseguito il risultato di portare la discussione oltre il marxismo, perché sono rimaste ridotte al culturalismo, non continuando a sviluppare la critica dell’economia politica. Al voler eludere le categorie e al lasciare di lato questa dimensione decisiva in quanto presunto “economicismo”, invece di riconoscerne la metafisica reale feticista della modernità, la critica postmoderna è rimasta fenomenologicamente ridotta e preda dell’ontologia capitalista. Per questo, anche la maggior parte dei postmoderni è regredita al soggetto borghese e a una politica superficiale.

L’ulteriore sviluppo della teoria di Marx, da un’interpretazione positivista a un’interpretazione radicalmente critica delle categorie sociali moderne e della loro connessione, non può essere concepita come un’interpretazione universalista astratta. Tale intenzione riprodurrebbe essa stessa la metafisica reale moderna. Si tratta sempre di più di distruggere l’universalità positiva della rivendicazione illuminista. Il moderno sessismo, il razzismo e l’antisemitismo sono fondamentalmente contenuti nel pensiero illuminista stesso poiché sono strutturalmente correlati al moderno sistema produttore di merci realmente metafisico, una volta che entrano distruttivamente in processo le sue contraddizioni.

Il "soggetto automatico" non è in alcun modo sessualmente neutro ma ha piuttosto come presupposto essenziale una specifica relazione tra i sessi. Come la modernità non ha superato la metafisica come relazione sociale, ma l’ha costituita di nuovo, così non ha superato il carattere patriarcale dell’"Occidente cristiano", ma l’ha riconfigurato e oggettivato. Il dominio patriarcale moderno non deve essere inteso come relazione sociologica superficiale, in contraddizione con l’universalismo astratto della forma merce e che in esso potrebbe essere abolito, ma costituisce un momento centrale di questo stesso universalismo. Tutti i momenti della riproduzione sociale, della vita personale e delle relazioni sociali che non sono assorbibili dalla logica astratta del valore o che lo sono solo in maniera riluttante e con la perdita del loro carattere proprio (cura dei bambini, "lavoro domestico", "lavoro amoroso e di relazione", funzioni socio-psichiche di ammortizzazione etc.) furono dissociati dall’universo politico-economico e definiti storicamente come "femminili". Il capitalismo, pertanto, non è solamente la connessione delle sue forme categoriali, ma è sempre anche un processo di dissociazione. La relazione del valore è contemporaneamente una relazione di dissociazione di determinati momenti della riproduzione sociale; solamente le due cose insieme possono formare il concetto critico della società moderna. Il valore e il suo soggetto sono definiti come strutturalmente maschili. La moderna relazione tra i sessi è concepita, così oltre Marx, allo stesso livello concettuale del capitale, e non più come una mera appendice subordinata.

L'universalismo astratto della modernità si rivela così nella realtà un universalismo androcentrico; nella forma del valore e nella sostanza del lavoro, nella democrazia, nella politica e nel diritto moderno, è inscritta la supremazia maschile. Anche se le donne non sono mai state confinate esclusivamente nella sfera del privato e nei momenti dissociati, ma sono state integrate in maniera crescente nella sfera pubblica del "lavoro astratto" e della politica, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, lo stesso, la loro posizione ha continuato nell’insieme ad essere subordinata. La dissociazione sessuale vige non solo nel privato borghese, ma anche nella vita pubblica borghese. Lo stesso nei domini della politica e dell’economia, dove sono state attribuite alle donne funzioni in gran parte di ammortizzatore psicosociale delle tensioni; anche qui esse passano come "segni" cultural-simbolici dell’addomesticamento della "natura". Dal punto di vista immanente-empirico ciò significa che esse sono in media più mal pagate, raggiungono più raramente posizioni di leadership e devono lavorare il doppio degli uomini per ottenere metà del riconoscimento. Allo stesso tempo, l’inclusione delle donne nella società ufficiale dell’economia e della politica non significa che la loro responsabilizzazione nello spazio del privato sia stata superata e ripartita equamente tra uomini e donne. Invece di ciò, le donne soffrono di regola un doppio carico, perché le sono attribuite contemporaneamente competenze nel lavoro salariato e nelle faccende domestiche della riproduzione. Il femminismo trasse da ciò la falsa conseguenza di rivendicare semplicemente l’uguaglianza immanente delle donne, invece di criticare radicalmente la relazione del valore-dissociazione soggiacente ai fondamenti dell’asimmetria sessuale. Una volta che il carattere androcentrico della modernità è inscritto nella sua stessa struttura essenziale, non può essere rotto nel terreno della forma universale del valore.

L’universalismo astratto della modernità non è solo androcentrico, ma anche occidentale. Così come una grande parte dell’umanità non occidentale è rimasta marginale nel sistema mondiale della produzione di merci e non è uscita dal livello inferiore dello sviluppo capitalista a causa del ritardo storico, allo stesso modo anche la generalizzazione globale della forma del soggetto occidentale è rimasta legata a una tendenza socio-culturale distruttiva e ad una "classificazione di seconda" tanto materiale quanto simbolica.

La concorrenza universale inerente al moderno sistema produttore di merci suscita nei soggetti agenti la necessità di immagini del nemico. Dove non penetra la critica della metafisica reale moderna, i soggetti trasformano le loro esperienze di sofferenza in proiezioni verso contro-soggetti, che sono costruiti come "subumani" (di colore), o come "superuomini negativi" (ebrei). Le ideologie del razzismo e dell’antisemitismo, così come l’ideologia del sessismo, sono così strutturalmente riferite alla metafisica reale moderna. Il soggetto universalista è essenzialmente un soggetto maschile-bianco-occidentale (MBO). La generalizzazione della forma di questo soggetto MBO porta a multiple rifrazioni nella coscienza dell’umanità extraeuropea e degli immigrati, attraverso le quali sorgono misture di sessismo, razzismo o "etnicismo" e antisemitismo.

Anche considerando il soggetto maschile-bianco-occidentale e l’universalismo androcentrico, la sinistra tradizionale è rimasta all’interno dell’orizzonte della metafisica reale moderna. Il marxismo del movimento operaio era, secondo la sua stessa concezione, androcentrico e riproduceva la dissociazione sessuale, così come il "lavoro astratto". Allo stesso tempo, per la sua origine, era bianco e occidentale, nel migliore dei casi paternalista nei confronti degli esseri umani extraeuropei e molte volte vulnerabile alle ideologie  razziste. Soprattutto, il marxismo tradizionale rimase considerevolmente cieco di fronte al pericolo dell’antisemitismo, perché non era capace di riconoscere la relazione strutturale di questo alla metafisica reale capitalista. La critica marxista del sessismo, del razzismo e dell’antisemitismo non andava oltre il falso universalismo dell’Illuminismo borghese; per questo rimase impreparata. E anche in questa prospettiva il culturalismo postmoderno non può superare il deficit, ma solo aggravarlo. La critica postmoderna del sessismo, del razzismo e dell’antisemitismo, fenomenologicamente ridotta, rimane confinata al “culto della differenza”, senza dare rilievo ai fondamenti sociali di queste ideologie nelle contraddizioni del “soggetto automatico”.

Se la formazione di ideologie distruttive può essere compresa solo nel contesto della metafisica reale moderna, tuttavia, esse non si manifestano in nessun modo “obiettivamente” e come legge quasi naturale. L’ideologia non decorre automaticamente dalle forme sociali del valore, del “lavoro astratto” e della relazione tra i sessi come gerarchia patriarcale, ma costituisce un’elaborazione autonoma della coscienza. La coscienza si relaziona qui, di fatto, con i suoi presupposti sociali, non però come semplice “riflesso”, al quale sarebbe come costretta, bensì come risoluzione (decisione) negativa. Dunque gli individui e le istituzioni, in quanto portatori di ideologie, sono anche responsabili per le derivanti azioni di ostilità contro altri esseri umani. Non si è oggettivamente condizionati all’ideologia (sessista, razzista, antisemita), come si è oggettivamente condizionati a “guadagnare denaro” o a comprare merci. Da qui non solo è possibile l’ideologia, ma anche la sua critica e la critica radicale della situazione.

L’apriori delle ideologie è l’assimilazione affermativa dei problemi dell’esistenza nel capitalismo. Le condizioni di vita interiorizzate alla maniera capitalista non sono poste in questione e le contraddizioni sociali (incluse le stesse contraddizioni del soggetto) sono rigettate verso l’esterno attraverso proiezioni, nel senso della concorrenza universale. Dunque non si tratta solo della dinamica oggettiva di autocontraddizione del “soggetto automatico”, per la quale è determinato lo sviluppo capitalista con le sue rispettive crisi, ma allo stesso tempo dei modi di assimilazione soggettivi e ideologici o critici. Solo le due cose insieme costituiscono il processo sociale reale.

L’ideologia non può fermare la dinamica oggettiva del "soggetto automatico", né virarla in un’altra direzione. Come momento autonomo può, però, co-determinare le forme fattuali dello sviluppo e a volte marcarle decisivamente. Così si costituì la "comunità del popolo tedesco" nazionalsocialista, al cui centro era Auschwitz, ancorché sullo sfondo della grande depressione nella prima metà del XX secolo. Tuttavia, il nazionalsocialismo e i suoi crimini non furono il risultato oggettivo della crisi, ma un prodotto della volontà ideologica soggettiva dei tedeschi. Questa volontà si manifestò, allo stesso tempo, per niente oltre la logica del valore. Al contrario: la Germania del dopoguerra, trionfante nel mercato mondiale, trasse profitto dalla modernizzazione fordista del nazionalsocialismo. Così, nella storia reale della crisi e della modernizzazione l’ideologia del nazionalsocialismo ha messo il suo inconfondibile timbro e ha manifestato una "possibilità estrema" contenuta in questo sviluppo. Per questo la teoria critica, oggi, può essere formulata solo come teoria critica dopo Auschwitz.

La nuova posizione teorica di "EXIT!" sarebbe incompleta se non potesse spiegarsi a sé stessa. Ciò risponde all’esigenza di determinare la propria posizione storica. Non siamo più intelligenti dei nostri predecessori nella critica del capitalismo, ma ci troviamo in un’altra situazione storica, più avanzata. Non si tratta ora di proclamare una verità definitiva, assoluta, "decontestualizzata", ma di tenere nel conto il nuovo contesto storico e di sviluppare un nuovo paradigma teorico, che corrisponda all’epoca che abbiamo di fronte.

In questa prospettiva, l’antico movimento operaio occidentale, il marxismo tradizionale, la sinistra politica fino a oggi, il naufragato "socialismo reale" burocratico di Stato dell’est, così come i movimenti e i regimi di "liberazione nazionale" del sud, tutti essi facevano ancora parte della storia dell’ascensione e imposizione del moderno sistema produttore di merci e della sua metafisica reale. Tutti questi movimenti non trascendevano l’ontologia capitalista, ma riflettevano solo l’asincronia storica di quest'ontologia. Si trattava essenzialmente di un processo di modernizzazione in ritardo. I "momenti incompiuti" del sistema produttore di merci ancora non maturati furono occupati "dalla sinistra"; essa stessa diventò il motore della modernizzazione capitalistica.

In questo senso si deve intendere la rivoluzione di Ottobre come la "rivoluzione francese dell’est". Non si trattò del superamento delle categorie capitaliste, ma al contrario della loro installazione sociale “di recupero”; del resto con metodi da capitalismo di Stato, perfettamente somiglianti a quelli dell’occidente alcuni secoli prima. Anche i successivi movimenti di liberazione nazionale del terzo mondo seguiranno poi questo modello. Questa interpretazione non deve essere ridotta all’aspetto scientifico-tecnologico, nel senso di un'industrializzazione ritardata. Al contrario, si trattava di installare le forme sociali di un sistema produttore di merci, ossia, della sostituzione degli obblighi personali con la monetizzazione e l’economicizzazione di tutte le relazioni, del passaggio dalle tradizioni agrarie alle forme borghesi del soggetto e del diritto, dell’imposizione (invece che dell’abolizione) del “lavoro astratto” e della dissociazione sessuale moderna. L’orizzonte emancipatorio di questo processo non era altro se non la “lotta per il riconoscimento” all’interno dell’ontologia capitalista, e precisamente il riconoscimento delle regioni periferiche e dipendenti come soggetti nazionali indipendenti del mercato mondiale.


Lo stesso si applica, infine, al movimento operaio occidentale. Qui non si trattava del riconoscimento nazionale ma sociale, più precisamente del riconoscimento giuridico dei lavoratori salariati come soggetti formali all’interno del sistema produttore di merci. La cittadinanza ufficiale, fino alla seconda metà del XIX secolo limitata alla borghesia proprietaria, doveva essere estesa a tutti i membri della società; solo così il “soggetto automatico" poté subordinare e incorporare tutta la riproduzione sociale. Attraverso la lotta per la libertà di associazione e riunione, il diritto allo sciopero, il diritto al voto universale ed egualitario etc., fu conferito ai lavoratori salariati il soggetto schizoide borghese e cittadino. In ciò consistettero la "capacità politica" e "capacità statale" del movimento operaio. Il prezzo fu l’interiorizzazione del “lavoro astratto", la completa auto-sottomissione al "soggetto automatico" e alla sua legalità, così come la generalizzazione della relazione di dissociazione sessuale. Il concetto di "socialismo" usato fino a oggi, in tutte le sue varianti, può essere ridotto a un "surplus giuridico" di questa storica “lotta per il riconoscimento” dentro le categorie capitaliste.

Ciò non significa che la limitazione storica della critica fosse del tutto inevitabile; ciò fu semplicemente un fatto. Nei conflitti sociali di fine XVIII secolo si ebbero molteplici momenti di tensione contro le esigenze del “lavoro astratto" e della relazione di dissociazione sessuale; ma questa tensione fu successivamente risolta nella linea ascendente di uno sviluppo continuo della metafisica reale moderna. Cosa ci dà il diritto, nell’inizio del XXI secolo, non solo a sviluppare teoricamente un nuovo paradigma, ma anche a sperare in una mediazione con la pratica sociale? La risposta a questa questione risiede nel fatto che la posizione di "EXIT!" include anche una nuova teoria della crisi capitalista.

Tutte le crisi fino a oggi sono state crisi di imposizione della relazione di capitale, la quale aveva ancora di fronte a sé uno spazio di sviluppo storico. Proprio per questa ragione i movimenti sociali potevano occupare positivamente ogni impeto di accumulazione che seguiva e non erano costretti a una critica categoriale delle forme sociali. Con la terza rivoluzione industriale della microelettronica, tuttavia, il capitale urta contro il suo limite interno assoluto predetto da Marx. Il "lavoro astratto", come sostanza del capitale, è diventato superfluo allo stesso processo capitalistico, in una misura tale che svaniscono i meccanismi di compensazione fin qui vigenti. É proprio questa la ragione per la quale il marxismo tradizionale vive una crisi qualitativamente nuova, insieme all’oggetto della sua critica. Non si può dare risposta all’impeto globale della povertà e della miseria, che arriva fino all’interno dei centri capitalistici, né alla caduta della nuova classe media, con i vecchi concetti della "lotta di classe" del "punto di vista del lavoro". La crisi categoriale esige ora per la prima volta una critica categoriale, e lo stesso pensiero marxista, limitato all’ideologia della modernizzazione, non è preparato per questo.

Crisi categoriale significa che non si tratta più semplicemente di una crisi economica congiunturale, o di una rottura strutturale, nel passaggio a un nuovo "modello di accumulazione". Come si vede nel processo di crisi della globalizzazione, ora il limite immanente del "lavoro astratto" si rende crisi della politica e delle forme di Stato, democrazia e nazione. Si disfano irreversibilmente borghese e cittadino, le due anime nel petto del soggetto schizoide. Ciò include un’elementare crisi di identità sessuale e soprattutto di quella maschile. Il risultato è un’ondata di violenza sessista, mobbing contro le donne e la mobilitazione di ideologie androcentriche su scala planetaria. Mentre il "femminismo della modernizzazione", con la sua mancanza di un concetto di dissociazione sessuale inscritta nella genesi della forma moderna, s'illude di poter dare una lucidata immanente alla gerarchia sessuale, adesso, nelle ideologie conservatrici di crisi in espansione, "la donna" è invocata come risorsa di risoluzione dei problemi, come istanza "materna" senza costo, che deve mitigare la disgregazione sociale e sulla cui schiena questa deve essere scaricata. Allo stesso modo dilagano tendenze razziste, "etniciste" e antisemite, come la miccia della polvere.

In questa crisi sociale mondiale, sviluppare la critica categoriale del moderno sistema produttore di merci e della sua metafisica reale non significa per "EXIT!" elaborare concetti a breve scadenza per vincere la crisi e offrirli in una vendita ambulante di idee. La critica ha da poter essere per principio negativa e solo dalla negazione dei fondamenti può sorgere una pratica alternativa. Si tratta di organizzare coscientemente l’utilizzazione delle risorse e delle possibilità umane in nuove istituzioni sociali, invece di seguire ciecamente le “leggi” di una “seconda natura” feticista. Se nel passato la critica categoriale fu una possibilità non compresa, ora è divenuta una necessità di sopravvivenza. In questa nuova situazione storica, ancora più pericolosa diventa la costituzione delle ideologie e più necessaria ancora diventa la critica dell’ideologia (senza abdicare dall’analisi della dinamica obiettiva della crisi). Poiché, dalla crisi fondamentale della moderna relazione del valore-dissociazione, non segue necessariamente la liberazione dal feticismo; piuttosto, esso è consegnato all’azione umana. Allo stesso modo, il cammino per la barbarie e per l’"affondamento collettivo" (Marx) è ugualmente possibile. L’uscita è aperta.

La negatività è tanto più richiesta quanto più la critica dell’ontologia moderna include la critica del pensiero ontologico in generale. Non c’è alcuna base ontologica sulla quale si possa costruire. Così come non c’è il ritorno all’Illuminismo, ai miti della rivoluzione borghese e allo “Stato dei lavoratori”, così non c’è, a maggior ragione, ritorno a un premoderno idealizzato. La teoria di "EXIT!" rigetta qualsiasi romanticismo agrario, come quello per esempio che infuria in Francia nella sinistra post-situazionista, come reazione ideologica alla fine del marxismo tradizionale. Tanto meno si possono considerare positivamente, come l’"interamente altro", attività, qualità fisiche e attribuzioni cultural-simboliche imputate alle donne, tutto quello che è concepito come complemento del “maschile”. Le donne non sono esseri umani migliori e ciò che gli è attribuito significa anche una riduzione forzata delle possibilità umane, così come la subordinazione al processo di produzione capitalista.

Resta da collocare la questione della relazione del nuovo approccio teorico di "EXIT!" con la teoria di Marx. Non si tratta di "ortodossia", né di "revisionismo", ma di uno sviluppo eterodosso. In questa prospettiva si deve parlare di un “duplice Marx", poiché è possibile dimostrare in Marx due linee di argomentazione differenti e contraddittorie: da un lato, una teoria della modernizzazione positiva, che considera il capitale come sviluppo “necessario”, ancora non concluso, fino ad attribuirgli una "missione civilizzatrice"; e, dall’altro lato, una teoria critica del feticismo moderno, pertanto della connessione categoriale che ne è alla base. Il movimento operaio e il movimento di liberazione nazionale potevano fare qualcosa solo con il primo, con il Marx "positivista" di una modernizzazione ancora non conclusa, nell’involucro delle categorie capitalistiche, mentre lasciarono sparire l’altro Marx, il critico categoriale, che in realtà neanche desideravano comprendere. Per "EXIT!", al contrario, l’importante è valersi proprio di questa seconda linea di argomentazione di Marx e continuare a svilupparla, con i concetti di metafisica reale moderna e di relazione di dissociazione sessuale, ossia, pensare Marx oltre Marx.

Si comprende perché il nuovo approccio teorico di "EXIT!" ha provocato le più violente reazioni di difesa dal lato del marxismo tradizionale rimanente, incluse le sue varianti postmoderne. Il dibattito sulla “critica del lavoro” e sulla "critica del valore-dissociazione", inizialmente limitato allo spazio di lingua tedesca, si è esteso nel frattempo nei paesi latini. Traduzioni di testi importanti di autrici e autori di "EXIT!" escono in Francia, Italia, Spagna e Portogallo, in Brasile, in Messico e in Argentina, e anche in Cina e Giappone. Tanto più necessario diventa far conoscere questa nuova formulazione e continuazione dello sviluppo della teoria di Marx anche nello spazio anglosassone. Il gruppo intorno a "EXIT!" è convinto che il nuovo paradigma teorico "sia nell’aria", e che per tutto il mondo si svilupperanno indipendentemente approcci ed elementi di questa elaborazione teorica. Il dibattito sta solo cominciando, e dovrà essere tanto transnazionale quanto il capitale stesso se il pensiero critico vuole superare la sua paralisi.
traduzione by lpz