venerdì 16 maggio 2014

Lavoro astratto o lavoro immateriale?


Anselm Jappe






Il lavoro nella attuale fase dell’evoluzione sociale ed economica viene spesso chiamato « postfordista », e lo si identifica frequentemente con un predominio presunto del lavoro « immateriale » o « informatico ». Quali sono gli strumenti teorici in grado di far comprendere questa realtà ? Si può dire che le categorie elaborate da Karl Marx, che sono state tanto utili per comprendere non solo la realtà del suo tempo, ma anche quella dell’epoca fordista, si applicano ancora alla realtà postfordista ? Indipendentemente dal giudizio che ognuno può dare sulla validità della teoria di Marx, essa ha indubbiamente questa particolarità di essere l’unico tentativo di pensare la società capitalista nel suo insieme, come totalità, mentre gli altri approcci economici hanno rinunciato a questa pretesa, interessandosi solo di calcoli quantitativi intorno a fattori e attori già presupposti. Infatti, a partire dalla scuola marginalista, sorta non a caso all’epoca in cui Marx ha presentato la sua critica dell’economia politica, la cosiddetta scienza economica borghese ha abbandonato lo stesso concetto di « valore », fulcro non solo della teoria di Marx, ma anche della economia politica borghese precedente a lui.
Esiste una massiccia ripresa dei concetti di Marx da almeno dieci anni. La sua morte annunciata nel 1989 è durata molto meno della vita di tanti altri. Tuttavia, questa ripresa dei temi marxiani, tanto nelle Università quanto negli ambiti militanti, è centrata essenzialmente sul concetto di plusvalore, e dunque sulla denuncia dello sfruttamento sfociante in richieste di giustizia distributiva. I diversi neo-marxismi cercano di scoprire dove il plusvalore si origina ora, visto che la fabbrica classica non sembra più centrale. La teoria del capitalismo cognitivo passa spesso per essere un tale marxismo postfordista che propone una lettura nuova rispetto al paleo-marxismo, sempre intento a celebrare il proletario con la mano callosa. Nel marxismo postmoderno, la « lotta di classe » non viene però decifrata come fattore immanente della società della merce, come modalità di distribuzione del plusvalore all’interno del modo di produzione capitalista. La « lotta di classe » viene semplicemente riproposta con nuovo attori, nell’intento di salvare l’essenziale del marxismo tradizionale, il cui orizzonte era una emancipazione all’interno delle categorie capitaliste piuttosto che una emancipazione dalle categorie capitaliste di base.
E se l’utilità delle categorie marxiane per comprendere il capitalismo postfordista risiedesse piuttosto in un approccio per cui il concetto centrale non è il plusvalore, ma il valore ?
Per sapere se sono ancora valide le categorie marxiane di valore, merce, denaro e lavoro astratto, di doppia natura della merce e del lavoro che lo produce, e di feticismo della merce, conviene fare prima uno sforzo per chiarire il significato di questi concetti nella teoria critica di Marx. Non si tratta certo di fare l’esegesi di un testo sacro, ma di vedere a che cosa questi concetti possono ancora servire oggi. Forse si giungerà addirittura alla conclusione che queste categorie colgono meglio la realtà sociale attuale di quanto facessero al momento della loro elaborazione 150 anni fa, perché si dispiegano ormai nella loro essenzialità, dovendo fare molto meno compromessi con i resti della società preborghese che ai tempi di Marx. Questo approccio potrebbe permettere di evitare un doppio scoglio, cioè tanto l’affermazione che niente sia cambiato nel postfordismo (come afferma il veteromarxismo, fissato sul paradigma della fabbrica), tanto quella secondo cui siamo già usciti dal capitalismo, come lo sostiene tanto l’apologetica borghese con la sua ideologia della società terziaria, basata sull’autorealizzazione presunta di tutti i lavoratori in lavori creativi e autogestiti, quanto la teoria del capitale cognitivo, per cui manca solo la traduzione politica della realtà produttiva nuova in cui è già stata abolita la separazione tra produttori e mezzi di produzione.
Quale è la caratteristica principale del capitalismo? Almeno quelli che provengono da una qualche forma di marxismo tradizionale, direbbero senza dubbio subito : di essere una società di classi, una società in cui regna una divisione tra proprietari dei mezzi di produzione e quelli che hanno solo la loro forza-lavoro, divisione che conduce alla lotta di classe come motore dell’evoluzione sociale. Ma più o meno tutte le società storiche si basavano su un accesso disuguale alle risorse, su una forma di stratificazione sociale gerarchizzata e sui conflitti che ne seguivano. Il plusvalore, la cui esistenza sarebbe, secondo le interpretazioni più correnti di Marx, il tratto distintivo del capitalismo, in verità non si spiega senza il valore. Il plusvalore capitalista non è la rendita feodale, non è il contadino che deve consegnare una parte del raccolto al proprietario delle terre. La vera particolarità della società capitalista moderna è il ruolo centrale del valore, e la sua autonomizzazione, per cui la stessa produzione di beni d’uso e di servizi diventa una mera appendice della produzione di un’entità feticista : appunto il valore.
Molti pensano di conoscere la teoria di Marx. Ma in generale si passa troppo rapidamente sopra la sua teoria del valore. Marx comincia la sua opera principale, Il Capitale, non con la lotta di classe, e nemmeno con il plusvalore, ma con un’analisi minuziosa della merce, del lavoro che la produce, del valore, del denaro e del feticismo. Egli non tratta queste categorie come dei fattori semplicemente dati, naturali, evidenti, sovrastoriche, neutrali. In questo sta la sua differenza con i suoi predecessori Smith e Ricardo. Il primo capitolo del Capitale non è una specie di definizione preliminare di alcuni termini, per di più magari viziata da oscurità di origine hegeliana, come il misterioso feticismo. Al contrario, la potenza critica dell’approccio di Marx sta proprio nel fatto di analizzare queste categorie di base – e dunque di conseguenza tutto l’edificio sociale costruito sopra di esse – come delle categorie storiche e distruttive. Storiche vuol dire che appartengono, nella loro forma sviluppata, alla sola società capitalista, non a ogni forma di società umana, e che sono dunque in quanto tale superabili. Altrettanto importante, ma più raramente preso in considerazione è il fatto che si tratta per Marx di categorie distruttive : il dinamismo innescato da queste categorie finisce per minacciare la stessa esistenza dell’uomo in società e le sue basi naturali. E’ per avere descritto questi meccanismi che la teoria di Marx è ancora cosi attuale dopo 150 anni, o, per meglio dire, che guadagna sempre nuovi motivi di attualità. Il capitalismo, cosi come si è configurato a partire dalla fine del 18° secolo, si distingue dalle società precedenti per il suo carattere dinamico, la sua crescita continua, e per la sua tendenza a rendersi padrone della società stessa che l’ha creata, per portare finalmente agli esiti catastrofici che vediamo. E la teoria del valore di Marx è la sola spiegazione coerente di questa dinamica autoreferenziale.
Secondo Marx, ogni lavoro ha necessariamente due lati : produce sempre qualcosa, materiale e immateriale che sia, utile o inutile, bello o brutto che sia. In quanto tale, è un lavoro concreto. Allo stesso tempo, ogni lavoro è sempre una dispendio di energia umana indifferenziata, di « muscolo, nervo e cervello », misurabile come pura durata, come pura quantità di tempo – e in quanto tale lo stesso lavoro concreto è anche un lavoro astratto. In quanto lavoro astratto, non crea nessun oggetto o servizio, ma solo una forma sociale: il valore. Il lavoro ridotto a puro tempo, senza considerazione di quello che viene fatto in quel tempo, crea il lato « valore » di ogni merce. L’altro lato della stessa merce è il suo valore d’uso. Il valore non è niente di naturale – è un modo puramente sociale di considerare i prodotti. E’ una proiezione, un modo di calcolarli. Ma si tratta di un modo inconscio, che si presenta agli attori sociali come già esistente e come preliminare ad ogni atto produttivo – in questo sta il feticismo della merce di cui parla Marx, e non in una mistificazione dell’origine del plusvalore.
Questa doppia natura della merce e del lavoro che lo produce non comporta una coesistenza pacifica, bensi una contraddizione violenta. Il lavoro astratto non è la somma dei lavori concreti, non è un’astrazione mentale. Una bomba o un giocattolo possono avere dei valori d’uso molto diversi, ma in quanto valori sono uguali, se lo stesso tempo è stato necessario per fabbricare gli ogetti in questione e le loro componenti. Il valore è un’astrazione che diventa visibile nel denaro. In effetti, come oggetti aventi un prezzo, le merci conoscono solo il più e il meno, ma nessuna differenza qualitativa. Devono avere un qualche valore d’uso, perché devono incontrare un qualche bisogno pagante, ma questo valore d’uso finisce per essere un semplice supporto del lato astratto, del lato valore della merce. E’ il lato astratto che decide del destino della merce e del suo produttore. Il sarto artigianale dell’epoca preindustriale ci metteva - per fare un esempio - un’ora a confezionare una camicia, e il valore di questa camicia era dunque di un’ora (in questo esempio si fa astrazione, per semplificare, dalle materie prime, dagli strumenti di lavoro ecc. che si risolvono ugualmente in tempo di lavoro, cosi come i loro componenti). Dopo l’introduzione dei telai meccanici, era diventato possibile produrre una camicia in dieci minuti. Questa costituiva il nuovo standard di produzione, imposto dalla concorrenza. L’artigiano, che non poteva far ricorso a un telaio meccanico, ci metteva un’ora come prima a fare la sua camicia, ma scopriva poi sul mercato, quando cercava di venderla, che la sua camicia, che era rimasta la stessa come prima in quanto valore d’uso, si vedeva ridotta a un sesto del suo antico valore, cioè che l’ora del sarto adesso « valeva » solo dieci minuti. La sua ora concreta equivaleva a dieci minuti astratti, e la doppia natura della sua camicia da categoria filosofica si era trasformata in una minaccia molto concreta alla sua esistenza fisica. In questo piccolo esempio sta racchiuso una buona parte della dinamica e della tragedia del capitalismo.
Ogni valore d’uso è diverso da ogni altro. Il valore invece è qualitativamente sempre uguale e conosce solo cambiamenti quantitativi. Dove il valore domina la produzione – cioè là dove i prodotti prendono abitualmente e massicciamente la forma sociale di merci – la produzione non è perciò più basata sulla soddisfazione di bisogni preesistenti, come succedeva nelle società preindustriali (questi bisogni potevano anche essere assurdi, e la loro soddisfazione dipendere da gerarchie ingiuste, ma questa è un’altra faccenda). Ormai, la sola finalità della produzione diventa il valore : si tratta di ottenere la più grande quantità possibile di valore, e dunque di denaro. La produzione di valori d’uso rappresenta allora una mediazione fastidiosa, un male necessario, un mero passaggio per la moltiplicazione del denaro. Trasformare un euro in due presuppone di aumentare il lavoro vivo produttivo. L’accumulazione tautologica di lavoro già svolto, di lavoro morto, diventa perciò la vera finalità dell’economia capitalista. Gli stessi proprietari di capitale non sono i gestori di questo processo, ma solo i suoi esecutori. Il vero soggetto di questo processo è il capitale e il suo costante bisogno di crescere (mentre tutte le società precedenti erano essenzialmente statiche). Questa dinamica cieca e autoreferenziale, e priva di contenuto proprio, si trova riassunto nel passaggio dalla modalità di scambio merce – denaro –merce in denaro – merce – denaro, che non avrebbe nessun senso se non fosse un denaro – merce – più denaro. In effetti, mentre ha senso scambiare un paio di scarpe contro una quantità di patate che hanno lo stesso valore (merce contro merce con la mediazione del denaro), se in queso modo si soddisfanno due bisogni, non avrebbe senso di investire dieci euro per comprare una merce che si rivende poi allo stesso prezzo. Alla fine del processo deve risultare una maggiore quantità di valore, e dunque di denaro, altrimenti il processo sarebbe considerato un fallimento. Nel primo caso, lo scopo è il soddisfacimento dei bisogni, e il lavoro è il mezzo. Nel secondo caso, la moltiplicazione del denaro tramite la moltiplicazione del pluslavoro diventa lo scopo, e la soddisfazione dei bisogni è il mezzo per arrivarci. Una follia inimmaginabile in tutte le società precedenti (anche se qualche elemento precursore già vi si trovava).
Dove prevale la doppia natura del lavoro, prevale dunque anche il lato astratto del lavoro, e dove prevale il lato astratto, si istaura un’accumulazione di valore indifferente al proprio contenuto. In fondo, la produzione capitalista produce solo accidentalmente « ricchezza » nel senso di ciò che serve alla vita umana. L’unica ricchezza che veramente l’interessa è il valore, è il valore non è altro che un modo sociale feticista di esprimere il tempo passato – una fantasmagoria, come dice appunto Marx. Una grande quantità di ricchezza in senso concreto (materiale o immateriale) può dunque coincidere con una quantità molto piccola di valore, e viceversa. Ecco perché anche la produzione di ricchezza « concreta » può venir abbandonata, se non contribuisce più abbastanza all’accumulazione autoreferenziale di lavoro morto, e dunque di denaro. (Qui, anche il termine « ricchezza concreta » viene usato in un senso del tutto formale, cioè come beni o servizi qualsiasi. Dal punto di vista dell’economia, anche le bombe, i rifiuti o l’attività del poliziotto sono dei « valori di uso », cioè delle ricchezze concrete). E questa accumulazione è cosi distruttiva perché è per definizione – e non per qualche malvagità morale o psicologica dei capitalisti – indifferente ai suoi contenuti. Forse la miglior definizione del lavoro astratto l’ha data proprio John Maynard Keynes, quando ha detto che da un punto di vista dell’economia nazionale, scavare delle buche e poi riempirle di nuovo può essere un’attività del tutto sensata. Egli ha dato anche questo esempio : "Se il tesoro si mettesse a riempire di biglietti di banca vecchie bottiglie e le sotterrasse a una profondità adatta in miniere di carbone abbandonate; se queste fossero poi riempite fino alla superficie con rifiuti di città e si lasciasse all'iniziativa privata, secondo i ben noti principi del lasciar fare, lo scavar fuori di nuovo i biglietti: non dovrebbe più esserci disoccupazione e, tenendo conto degli effetti secondari, il reddito reale e anche la ricchezza capitale della società diventerebbero probabilmente assai maggiori. Effettivamente sarebbe più sensato costruire case o simili: ma se per far ciò si incontrassero difficoltà politiche o pratiche, quanto sopra sarebbe comunque meglio di niente"1. Ma i suoi seguaci non sanno vedervi altro che un elegante paradosso, piuttosto che una denuncia, anche se piuttosto involontaria, del meccanismo centrale di un modo di produzione assurdo.
Nel capitalismo, il lavoro astratto è diventato il legame sociale, lo scopo della società, e non più il mezzo in vista di altri fini. Si tratta del processo che Karl Polanyi ha descritto come « disincastramento » (« disembedding ») dell’economia rispetto alla società nel cui seno è nato. Il capitalismo non si basa solo sullo sfruttamento – questo esisteva anche nelle società schiaviste o feodali. Il capitalismo è una società in cui il lavoro non serve più a perpetrare le strutture sociali che si sono formate su altre basi (tradizione, dominazione politica o libero accordo), ma in cui il lavoro si autonomizza e dove la sua dinamica anonima, non controllata da nessuno, diventa essa stessa la base dei rapporti sociali.
Oggi si sente spesso dire che la teoria di Marx spiega bene il capitalismo « classico », basato sulla centralità della fabbrica e della produzione di beni materiali, come i tessuti, e più tardi l’automobile. Il postfordismo, cioè la fase apertasi negli anni settanta del secolo scorso, si caratterizzerebbe invece per una massicia diffusione del lavoro cosidetto « immateriale », con una forte crescità dei servizi e dei lavori legati alle tecnologie microelettroniche. Mentre agli occhi degli osservatori borghesi ciò dimostra che la teoria marxiana è ormai superata, perché non ci sarebbe più un proletariato, i teorici del capitalismo cognitivo affermano che le frontiere della lotta di classe si sono solo spostate. Autori come Antonio Negri identificano il « lavoro immateriale » con il « lavoro astratto » di cui parla Marx. Questo è chiaramente un grossolano equivoco, che lascia dubitare della serietà di chi lo commette. Secondo la definizione di Marx, ogni lavoro ha due lati, perché ogni lavoro si traduce in qualche risultato – non importa che sia materiale o immateriale, un bene o un servizio – atto a soddisfare un qualche bisogno, importante o assurdo che sia. Allo stesso tempo, ogni lavoro è una dispensa di tempo quantitativamente determinata. Dunque, anche il lavoro dell’infermiere, dell’operaio metallurgico o del contadino ha un lato astratto, e anche il lavoro dell’informatico o del consulente aziendale ha un lato concreto. Il lavoro non è prima concreto, nella fase della produzione, per diventare in seguito astratto nella circolazione, né il lavoro è diventato « più astratto » durante lo sviluppo del capitalismo a causa della sua parcellizzazione o dell’informatizzazone. Sono piani di analisi completamente distinti. Parlare di un lavoro « sempre più astratto », o di un « divenir astratto del lavoro », come fanno certi teorici del capitalismo cognitivo, non ha senso. Tuttavia, è possibile parlare di lavoro immateriale senza riferimento al concetto marxiano di lavoro astratto. Confutare questo equivoco ancora non confuta tutta la teoria del lavoro immateriale.
La teoria secondo cui la realtà produttiva di oggi si basa essenzialmente sul lavoro immateriale afferma ugualmente che queste nuove forme di produzione rinnoveranno, o salveranno, il capitalismo, perché costituiscono un nuovo modello di accumulazione che dischiude nuovi e vasti potenziali di valorizzazione. In verità, si tratta di una nuova versione dell’affermazione, ripetuta da cinquant’anni, secondo cui la crescita del « settore terziario » controbilancerebbe il declino della produzione industriale, soprattutto per quanto riguarda i posti di lavoro. Le statistiche sembravano per molto tempo dare ragione a questa analisi : più diminuivano gli operai in fabbrica, più aumentava il numero di persone che lavorano nei servizi. C’è però un problema di cui queste analisi empiriche non tengono conto : i servizi non sono « produttivi » in senso capitalistico, cioè non riproducono il capitale investito - lo consumano soltanto. Per la critica dell’economia politica di Marx, la questione se un lavoro è produttivo o improduttivo non ha niente a che vedere con il contenuto di questo lavoro, ma con il suo ruolo nel ciclo di riproduzione del capitale. In termini capitalistici, assemblare delle Ferrari è un lavoro produttivo, e insegnare a dei bambini o curare un malato sono generalmente dei lavori improduttivi. I servizi sono essenzialmente dei « costi », tanto per il singolo capitale quanto per il sistema nel suo insieme, e sono soggetti alla stessa privatizzazione e razionalizzazione come i processi produttivi « materiali ». Lo si vede tutti i giorni : ormai, la disoccupazione ha colpito anche questi settori, e non c’è più un altro settore capace di assorbire i disoccupati. I servizi come la sanità e l’educazione sono, dal punto di vista del capitale, essenzialmente dei « faux frais », finanziati con i proventi del capitale produttivi, e perciò in ogni crisi questi servizi, per quanto utili possano essere dal punto di vista sociale, sono i primi a essere sacrificati. Non può esistere un modello di accumulazione basato sull’informazione, il lavoro intellettuale, la cultura o generalmente i servizi, perché questo tipo di attività crea troppo poco valore – e questo rimane l’unico parametro in una società basata sulla valorizzazione del capitale. Il capitalismo non si interessa alle « attività », all’« utilità » ecc., ma solo alla produzione di valore. E non basta aver lavorato per creare del valore, bisogna anche averlo fatto in un modo che riproduce il capitale con cui è stato pagato il salario ricevuto.
Per quanto riguarda l’informatica, bisogna dire che i suoi prodotti rappresentano in generale solo dosi omeopatiche di lavoro umano, e dunque di valore : cosi, un software, una volta inventato, può essere riprodotto milioni di volte quasi senza ulteriore impiego di forza-lavoro, e tutte le sue copie insieme rappresentano di conseguenza solo una piccola quantità di valore. L’informatica, il cuore della rivoluzione dell’immateriale, lungi dal costituire un nuovo stadio del capitalismo caratterizzato da ulteriori aumenti di produttività, porta piuttosto alla crisi, perché riducendo fortemente, a un grado storicamente inaudito, l’impiego di lavoro vivo, riduce anche la produzione di valore. Il postfordismo è dunque tutto fuorché un nuovo modello di accumulazione. La sua esistenza si basa piuttosto sulla finanziarizzazione, cioè sul credito e sul « capitale fittizio ». L’accumulazione reale mancante viene sostituita dalla sua simulazione, cioè da un’esplosione di credito in dimensioni astronomiche – e il credito non è altro che un consumo anticipato di un futuro guadagno che potrebbe non arrivare mai.
Tuttavia, il postfordismo esiste indubbiamente come realtà sociologica, come l’insieme delle nuove forme di lavoro basate sulla flessibilità, la mobilità, un accresciuto livello di formazione ecc. Non contiene però in quanto tale un potenziale di emancipazione, come affermano i teorici della « multitudine ». Assistiamo piuttosto alla reificazione della personalità intera e al recupero anche delle sue facoltà critiche. Si sfiora poi l’assurdo parlando in senso positivo dell’« autovalorizzazione » di queste nuove figure di lavoratori. Infatti, il problema è proprio il divenir-valore di tutto, la totale economizzazione dell’individuo in un mondo in cui solo ciò che ha un « valore » merita di esistere. L’ « autovalorizzazione » non è allora altro che una completa sottomissione agli imperativi economici, ma questa volta in forma « autogestita ». Ciò dimostra che la sola questione della proprietà giuridica dei mezzi di produzione, in cui il marxismo tradizionale ha sempre voluto vedere il nocciolo della questione sociale, non è poi cosi centrale, perché esiste una forma feticista, quella del valore, che è preliminare a queste questioni di distribuzione del valore già presupposto. Il lavoro immateriale si basa sull’indifferenza della forma per il contenuto, come ogni lavoro nel capitalismo. La questione principale è piuttosto : che cosa si produce, secondo quali criteri, e non solo chi ne trae il profitto più grande.
Affermare che il lavoratore immateriale, che è tipicamente un lavoratore cosidetto autonomo, si trovi già tendenzialmente al di là della logica capitalistica, finisce per essere un elogio paradossale di quello che si chiama in tedesco la « Ich-AG » - la « Io – Società per azioni ». Si tratta dell’individuo singolo che riunisce in sé le forme tradizionali del padrone e del salariato e che deve sopravvivere nella giungla del mercato tramite un rigoroso autosfruttamento – schiavo non più di un padrone in carne e ossa, ma direttamente della mano invisibile del mercato, senza nessuno a cui indirizzare delle rivendicazioni. La « Io - S. p. a. » non è però, come si potrebbe credere, un concetto polemico e peggiorativo, creato dagli avversari di queste derive. In verità fu creato come termine positivo nel 1999 in Germania dalla stessa commissione « Hartz » che ha elaborato delle proposte, poi trasformate in legge, per spingere i disoccupati tedeschi a diventare lavoratori « autonomi », offrendo servizi a buon mercato. Infatti, questa politica, praticata ormai dalle autorità non solo tedesche, si basa sul calcolo, cinico ma realista, secondo cui l’unico lavoro che possono ancora trovare i disoccupati è quello di fare i domestici ai rari vincitori della competizione economica attuale. In un’epoca in cui si paga piuttosto per le tecnologie che per le persone, molti accettano tuttavia di pagare per il piacere di avere dei servi – a condizione che costino abbastanza poco. La Io – S. p. a., dichiarata nel 2002 la « non-parola dell’anno » dalla Società per la lingua tedesca, è in teoria semplicemente un termine tecnico per un discoccupato che fonda un’attività economica e che riceve per questo un aiuto pubblico. Ma in verità riassume tutto lo spirito di un’epoca – e, colmo del paradosso, i teorici dell’ « intellettualità di massa » fanno l’elogio di questa trovata tipicamente neoliberale.
Alcuni vogliono anche credere nelle virtù liberatorie della condivisione in rete, del free software ecc. Senza dubbio è simpatico poter scaricare tanta musica senza pagare o consultare i libri di biblioteche lontane. Ma sembra difficile di farne un paradigma di società ! A che serve il file-sharing in situazioni in cui non ci sono né case, né terre, né cibo ? Vedere in questo settore piuttosto marginale della riproduzione sociale la leva di una trasformazione generale o di una « riappropriazione collettiva delle risorse », dopo secoli di privatizzazione delle risorse, significa credere un po’ troppo nella virtualizzazione del mondo e fare della rete la realtà suprema, e dei suoi operatori l’ombelico del mondo. E se a causa delle privatizzazioni o delle catastrofi naturali i black-out si moltiplicano e non c’è più elettricità, che cosa rimane della rivoluzione digitale ?
La figura del lavoratore postfordista che mette in gioco il suo « capitale cognitivo » di cui lui stesso sarebbe il proprietario, e che per conseguenza deve solo affrancarsi dai lacci politici che gli impediscono di essere effetivamente il padrone di ciò che già produce, finalmente non è altro che una versione postmoderna del vecchio marxismo tradizionale. Questi non ha mai realmente messo in dubbio le categorie centrali della società capitalista, cioè la merce, il valore, il lavoro astratto e il denaro, ma ha solo cercato di ottenere delle condizioni migliori per i venditori della forza-lavoro. I suoi epigoni postfordisti hanno semplicemente cambiato il focus dal materiale all’immateriale. Ma se è così, dove sta l’antagonismo sociale oggi ? La lotta di classe in senso tradizionale appare sempre di più come una difesa delle ultime categorie di operai che lottano, come qualsiasi altro soggetto della concorrenza, per sopravvivere sul mercato. Altre volte, questo concetto viene esteso arbitrariamente ad altre forme di conflitto, per esempio alle rivolte nelle periferie francesi. Significa dunque che aveva ragione Tony Blair quando annunciava « Amici miei, la lotta di classe è finita » e che qualcosa come una « società » non esiste, ma solo degli individui, che possono riuscire o fallire secondo il loro merito, come l’aveva già detto il suo predecessore Margaret Thatcher ? O significa al contrario che lo sviluppo del capitalismo ha comportato nuove forme di antagonismo sociale che non si riassumono solo nelle nuove forme di sfruttamento - che naturalmente esistono ?
La società basata sulla merce, il valore, il denaro e il lavoro tende con sempre maggiore evidenza alla creazione di un’umanità superflua. Ciò è stato fin dall’inizio una contradizione maggiore del capitalismo, contenuta nel suo nucleo e che in quanto tale è ineliminabile : solo il lavoro vivo, l’utilizzo della forza di lavoro, crea il valore. E allo stesso tempo, la concorrenza spinge all’uso di macchine e tecnologie che servono precisamente a diminuire l’impiego di lavoro vivo, permettendo a ogni singolo operaio di produrre di più per il suo datore di lavoro. Ma il vantaggio immediato per il singolo detentore di capitale che impiega per primo delle tecnologie nuove è ben presto annullato dalla concorrenza, e a lungo andare è il profitto del sistema intero che diminuisce. La discussione marxista ne ha preso solo parzialmente atto con il concetto di « caduta tendenziale del saggio di profitto » ; in verità si è trattata di una caduta della massa di valore, e dunque del profitto, a lungo termine. L’aumento esponenziale della produzione materiale da duecento anni – con le conseguenze ecologiche di cui cominciamo solo adesso a misurare tutte le conseguenze – ha potuto per molto tempo compensare la diminuzone del valore contenuto in ogni singola merce. Ma a partire circa dagli anni settanta del secolo scorso, dunque con la cosiddetta rivoluzione microelettronica, i progressi nella sostituzione del lavoro vivo con le tecnologie sono stati talmente importanti che nessun meccanismo di compensazione poteva essere sufficiente, per di più in presenza di mercati saturi. Da allora il capitalismo è definitivamente in crisi e non fa altro che rinviare il redde rationem tramite la finanziarizzazione. Nessun modello nuovo di accmulazione è più venuto: si sono solo simulati dei profitti. Si sa che i valori immobiliari e borsistici sono cresciuti circa dieci volte più rapidamente dell’economia « reale » (naturalmente, nessuno lo sa con precisione). Mentre i populismi di destra e di sinistra hanno presentato i voli iperbolici della finanza e della speculazione come la causa delle difficoltà che attraversa l’economia reale, le cose stanno esattamente all’inverso : è solo grazie alla finanza « creativa » e alla speculazione che si è potuti fingere una prosperità di cui in verità manacavano da tempo le basi. La crisi finanziaria attuale è solo un sintomo. La causa più profonda di quello che stiamo vivendo è dovuta alla incompatibilità tra la logica del valore e lo sviluppo tecnologico, causato proprio dalla logica del valore, e dalla conseguente caduta della rentabilità. In altre parole, c’è una estrema difficoltà per impiegare in modo profittevole il capitale. Mentre il « sottoconsumo », cavallo di battaglia dei neo-keynesiani che fioriscono di nuovo, è solo un fattore secondario, la sovraccumulazione di capitale minaccia la redditività dell’intero sistema.
I nuovi posti di lavoro, soprattutto nel terziario, sono, come già detto, in gran parte « improduttivi » in senso capitalistico e vengono finanziati indirettamente dai settori effettivamente produttivi di capitale – che sono però in diminuzione. L’empiria dimostra poi tutti i giorni che in tempi di crisi tali lavori vengono tanto impetuosamente eliminati quanto i posti di lavori nei settori tradizionali. Non è più questione di spostare la forza lavoro verso nuovi settori, come è successo nel passaggio dalla società agraria a quella industriale. Ormai assistiamo al divenir superfluo di gran parte della forza-lavoro su scala globale. E chi non lavora, non mangia, cioè non è neanche utile al sistema in quanto consumatore. Gruppi sociali sempre più vasti, e interi paesi, diventano inutili dal punto di vista del sistema capitalistico, un peso morto, una zavorra. Allo stesso tempo sono stati ritirati loro tutti i mezzi per sostentarsi da soli, soprattutto nell’agricoltura. A lungo andare, la società della merce non sa più che farsi dell’umanità che l’ha creata.
La battaglia si svolge allora intorno al mantenimento o l’abolizione di un sistema che finisce per minacciare tutti i suoi membri, attraverso i disastri che produce. Il fatto che attualmente alcuni attori economici riescono ancora a trarne grandi profitti non toglie niente alla crisi che coinvolge finalmente tutte le sue categorie di base. Insieme con il valore finisce anche il denaro « buono », frutto di una reale creazione di valore, e questo processo sta dietro l’attuale crisi finanziaria. Non appare semplicemente possibile che la riproduzione sociale continui a svolgersi attraverso il valore, la merce, il lavoro astratto, il denaro. Credere di poterlo fare appare finalmente molto più « utopico » che pensare ad altre forme di socializzazione – e che in parte sono già presenti. Parlare del lavoro oggi può solo significare parlare della crisi della società del lavoro e del fatto che è proprio la società del lavoro ad abolire il lavoro. Ha un senso continuare a chiedere e a promettere la creazione di posti di lavoro, quando del lavoro non c’è più bisogno ? O bisogna piuttosto pensare a garantire a tutti un accesso alle risorse che non sia più legato alla mediazione del lavoro e del denaro ?