domenica 14 gennaio 2007

La terza forza




La fine e l'inizio della neutralità


I. L'anno 1989 ha segnato la fine di un'epoca provocando un profondo disorientamento nei contrapposti schieramenti che dividevano l'umanità. I socialisti di ogni tendenza sono stati i primi a "vagare spaesati", come si dice negli annunci in cui si cercano gli anziani evasi dall'ospizio. La velocità con cui si è frantumato, come d'incanto, il colossale edificio imperiale del socialismo di Stato all'Est avrebbe scosso persino quella Sinistra che non aveva mai fatto il cantore di corte delle società fondate sull'economia da caserma. All'improvviso, tutte le idee socialiste sono finite proprio là dove volevano veder finire da quasi cento anni il loro antagonista capitalista, e cioè nella famigerata pattumiera della storia. Tutte le versioni del socialismo, inclusa quella occidentale più critica, contenevano in un modo o nell'altro un riferimento positivo ai fondamenti del socialismo di Stato, nel concetto economico centrale di "economia pianificata" e nell'idea di ridistribuzione, propria dello "stato sociale". Così tutti i socialismi sono tenuti a pagare, volenti o nolenti, per la bancarotta del sistema dell'Est.
Il neoliberalismo era stato fino al 1989 solo una delle parti in conflitto. Adesso tutti sono diventati d'un tratto in qualche modo neoliberali. Ognuno vorrebbe collocarsi tra i vincitori della storia. La conversione in massa è dunque già acqua passata. E perfino quel timido resto della sinistra che porta di nuovo, come trent'anni fa, i suoi distintivi sotto il risvolto della giacca, si precipita ad assicurare di non avere alcun problema con l'"economia di mercato" in quanto tale (questa l'"ultima parola" perfino di Honecker, che fu in effetti il capostazione di un "mercato pianificato"). Alcuni esponenti della sinistra entrano con modestia nella scuola dell'economia di mercato occidentale come allievi canuti con tanto di cartellina e grembiulino, altri affermano, al contrario, di essere sempre stati grandi esperti di economia nazionale e di essersi resi conto del problema in tempo. Ormai la necessità della concorrenza, della redditività e di un adeguato sistema dei prezzi è altrettanto in voga, sia nell'ex-sinistra che nell'ancora-sinistra, quanto lo fu, nel 1972, la rivoluzione mondiale e, nel 1982, la produzione "alternativa" di formaggio naturale.
Il torrente del neoliberalismo vincente ha spazzato via anche i toni intermedi dall'ideologica terra di nessuno. La neutralità non è più di moda quando un partito viene sbaragliato e quando il vincitore assetato di sangue si guarda intorno per sapere con chi altro può farla finita in quella stessa occasione. C'erano stati, a dire il vero, tanto all'Ovest quanto all'Est, dei rappresentanti di una "terza via". Nelle economie del socialismo di Stato, i riformatori - sempre rapidamente richiamati all'ordine - volevano introdurre nel socialismo certi elementi dell'economia di mercato occidentale (per es. una relativa libertà decisionale delle imprese riguardo alla produzione e ai prezzi) senza abbandonare completamente l'economia pianificata. Gli economisti riformatori di Praga raccolti attorno a Ota Sik e che nel 1968 dovettero emigrare nell'Ovest, avevano coniato per questa opzione il termine di "economia socialista di mercato", di cui in seguito si fece largo uso. All'Ovest invece esistevano, soprattutto nelle file dei sindacati e della socialdemocrazia, delle idee di una "terza via" che miravano a introdurre degli elementi di socialismo (ad esempio una direzione statale degli investimenti) nell'economia capitalista di mercato per "addomesticarla" o addirittura trasformarla. Come sponda sociologica e politologica di questi sforzi si era sviluppata già a partire dagli anni sessanta una generale "teoria della convergenza" che si attendeva qualcosa come un graduale avvicinamento dei due sistemi mondiali in conflitto: all'Ovest si sarebbero moltiplicati gli interventi politici (allora pensati ancora in termini keynesiani) nel meccanismo di mercato, l'Est viceversa avrebbe assimilato nel suo Stato autoritario elementi dell'individualismo proprio dell'economia di mercato.
Queste rappresentazioni pacifiche e umaniste, che non suscitarono mai alcun entusiasmo, erano il tipico prodotto scadente delle fabbriche socialdemocratiche del pensiero, deficitarie, disertate e sempre minacciate di chiusura definitiva. Erano le idee della compassata via di mezzo accademica, ad uso dei partiti del "progresso moderato nei limiti delle leggi vigenti" i cui membri e rappresentanti avevano difficoltà a camminare dritto per quanto erano moderati. Il crollo spettacolare del socialismo di Stato ha messo nei guai le diverse "terze vie", poiché da una rovina fumante e malfamata non si possono più salvare, senza danno per la propria reputazione, i "lati positivi" da riutilizzare per la costruzione di un luogo in cui sognare la ricomposizione delle contraddizioni storiche. Il trionfo neoliberale ha fatto, en passant, anche piazza pulita delle mediocri figure lamentose che teorizzavano la "terza via" e che ormai si rivelano nel campo economico degli idioti.
C'è poi anche una conferma pratica di questa triste fine nel vicolo cieco della storia in cui tanto l'umanesimo socio-economico moderato quanto il disastrato marxismo-leninismo mostrano tutta intera la loro miseria ideologica. Una misericordiosa provvidenza ha impedito ai rappresentanti della "terza via" nei due sistemi in conflitto di dover fornire la prova pratica delle proprie versioni light della politica economica. Tuttavia, in alcuni paesi neutrali, i sostenitori della terza via hanno avuto l'occasione di colare a picco sotto la propria bandiera. I comunisti polizieschi dell'Est intercettavano i dilettanti che navigavano sulla "terza via", rinchiudendoli o cacciandoli. I corifei occidentali del mercato invece li ignoravano oppure affermavano di aver trovato già da tempo la "terza via" nella figura erhardiana(1) dell'"economia sociale di mercato". Ma nello spazio neanche tanto piccolo dei paesi "non-allineati", alcuni piccoli vascelli fantasma hanno potuto navigare per parecchio tempo sulla rotta della "convergenza". La neutralità statale e politica tra Est e Ovest, per quanto fosse spesso finta (e generalmente orientata verso l'Ovest), era tuttavia abbastanza nebulosa da far apparire i deboli contorni di una concezione socio-economica quasi autonoma. Parallellamente alla crisi e al susseguente naufragio del blocco orientale, anche i modelli neutrali di una sbiadita economia mista si sono infranti sulle scogliere del mercato mondiale.
Non c'è molto bisogno di parlare degli insuccessi dell'economia statale finlandese, largamente sconosciuta, o della situazione delle imprese in possesso del PC finlandese il cui Comitato Centrale ha dovuto dare le dimissioni nei gloriosi anni ottanta, per essersi giocata la cassa del partito sui mercati internazionali della speculazione. Anche l'aspetto malandato dell'industria statale austriaca poteva dare adito, nel corso del tempo, solo a considerazioni malinconiche. Non avrebbe resistito molto di più il "modello svedese" di uno Stato assistenziale socialdemocratico che negli anni '70 era stato il modello per ogni buon giovane socialdemocratico tedesco, e che ancora negli anni '80, già agonizzante, accendeva la fiacca fantasia socioeconomica di tanti pensatori polacchi, ungheresi, russi, lettoni o ucraini.
Il modello svedese mostra oggi impietosamente le sue crepe; l'industria, le finanze statali e il sistema bancario del "modello" smantellato lottano per la nuda vita, e il benessere impartito dallo Stato - il cui carattere burocratico aveva comunque da tempo avvelenato i benefici - viene ridotto a piccole razioni d'emergenza. Infine, non si osa più ricordare la favolosa "autogestione operaia" della Jugoslavia che ancora 15 anni fa era luogo di pellegrinaggio per molti fedeli che vedevano nella "terza via" un'utopia realista. Questo modello, il più gonfiato ideologicamente di tutti i "modelli" neutrali, si è trasformato, dopo la sua bancarotta, in un mattatoio umano autogestito.
Il grido di guerra neoliberale, quello della "privatizzazione" e della "deregolamentazione" più radicali possibile, copre il timido farfugliare sulla "convergenza" dei sistemi. Anche e soprattutto negli Stati neutrali, che sul piano pratico sono naufragati irrimediabilmente perseguendo fini che almeno assomigliavano alla "terza via". Fuori dall'Europa il quadro resta immutato. La rotta delle economie pianificate su tutta la linea ha investito in pieno anche i non-allineati nel Terzo mondo. Anche là, le moderate economie miste annegano nell'oceano dei fallimenti. Agonizzano nella trappola dei debiti, senza via d'uscita, sia quei paesi in via di sviluppo che avevano puntato sul socialismo di Stato e sui legami con il blocco orientale (da Cuba, Vietnam, Corea del Nord, Mozambico e Angola fino all'Etiopia), sia i paesi latinoamericani filo-occidentali cosiddetti "emergenti", speranzosi fino a pochi anni fa, sia la maggior parte di quei paesi non-allineati che hanno pescato da ogni modello qualcosa. I tentativi di un'industrializzazione autonoma al di là di capitalismo e socialismo di Stato sono stati abbandonati. L'India è in ginocchio davanti al Fondo Monetario Internazionale tanto quanto l'Egitto o l'Algeria. I già scarsi sovvenzionamenti dei generi alimentari e i programmi sociali per le popolazioni povere pericolosamente cresciute - piccoli rivoli di benessere svedese nei deserti sociali - vengono prosciugati dietro ingiunzione degli esperti occidentali neoliberali. Proprio come nei paesi dell'ex-blocco sovietico, si cercano disperatamente e inutilmente, per le imprese da privatizzare, degli investitori "imperialisti" cui si dà il benvenuto con baciamano per salutare lo "sfruttamento" una volta stigmatizzato.

II. La vittoria del neoliberalismo è così completa che i neoliberali autentici non si sentono più tanto a loro agio. Il loro imbarazzo non deriva però solo dal fatto che ognuno di loro deve tenere in grembo una dozzina di pesantissimi ex-socialisti ed ex-cantori della "terza via" che, teneri e pentiti, mordicchiano loro le orecchie, implorano aiuto e mettono le mani nelle loro tasche. In questa condizione un po' scomoda sono gli stessi neoliberali (o almeno alcuni di loro) a giudicare la nuova situazione mondiale con un po' meno ottimismo di quanto ci si potrebbe aspettare da vincitori tanto grandiosi. Mentre i tanti ex-socialisti appena convertiti seguono il nuovo credo del mercato con lo zelo dei neofiti e naturalmente non si vogliono rendere conto che potrebbe forse colare a picco anche la nave dei vincitori su cui si credono salvi, tra i presunti vincitori si comincia ad essere pessimisti.
Si stanno avvicinando da due lati le nere nubi di una tempesta che minaccia di superare di gran lunga tutte le crisi e i crolli finora visti. Nell'Est e nel Sud le economie stataliste e miste, già rase al suolo, si stanno avviando verso un secondo crollo, questa volta secondo le regole del mercato. Il fuoco di paglia della privatizzazione e della deregolamentazione si sta già spegnendo e le riforme per introdurre l'economia di mercato finiscono nel vuoto. Queste riforme non arrestano il processo di deindustrializzazione delle strutture "non redditizie", ma al contrario lo accelerano. Non si riesce a produrre la redditività perché manca la redditività: il gatto delle riforme si sta mordendo la coda. Il mercato mondiale semplicemente non sa che farsene della maggior parte dell'umanità. Questo vale non solo per l'Est e per il Sud, ma anche per l'Ovest stesso: qui sta cominciando la seconda ondata della razionalizzazione postfordista, e la lean production getta di nuovo milioni di persone fuori dal processo di riproduzione capitalista. La disoccupazione di massa cessa di essere "finanziabile". Anche all'Ovest il debito pubblico sta sfuggendo a ogni controllo. Di conseguenza, la meravigliosa economia di mercato comincia a ridurre i suoi potenziali culturali e civilizzatori, dal sistema sanitario fino all'istruzione di massa. Perché mai i disoccupati a vita degli slum dovrebbero saper leggere e scrivere? Con la diminuzione del potere d'acquisto si riducono però anche i mercati: l'Occidente crea la propria spirale al ribasso. I mercati finanziari gonfiati cominciano a vacillare, poiché si fa precario il pagamento degli interessi del castello creditizio. Sull'orizzonte si profila il più temibile di tutti i crolli: quello dell'Occidente stesso.
Alcuni esperti, banchieri e consulenti finanziari neoliberali vedono all'orizzonte tutto questo, metà spaventati e metà affascinati dallo scenario apocalittico che essi stessi hanno prodotto. Mentre nell'(ex)-Sinistra gli amici devoti dell'economia di mercato salmodiano ancora con enfasi il loro catechismo dell'eterna capacità di adattamento del capitalismo, i più chiaroveggenti degli analisti neoliberali aspettano già con grande tensione il naufragio "da economia di mercato". La loro scienza consiste però unicamente nel calcolare come possono trarre perfino da questo crollo ancora qualche profitto come speculatori della recessione. Tuttavia, non c'è nemmeno bisogno di crolli significativi del sistema creditizio o della congiuntura occidentale per mettere a nudo la crisi progressiva del sistema che si proclama vincente. Per alcuni grandi settori sempre crescenti della popolazione, questa crisi è già arrivata in termini pratici. Molti cittadini dell'Occidente democratico, dove vige l'economia di mercato, vivono da tempo ai livelli del Terzo mondo. Dietro la facciata scintillante della pseudonormalità capitalista, così come è stata costruita negli "anni ruggenti" dell'epoca reaganomica, imperversa la degradazione sociale e si creano situazioni simili a quelle delle regioni del globo già avviate al crollo. La miseria umana nel mondo non è mai stata più grande, ed essa viene prodotta, giorno dopo giorno, da tutto il sistema della tanto celebrata economia di mercato.
Il neoliberismo si trova davanti alla sua Waterloo. Ma siccome non sembra esistere più nessuna alternativa, si continua a proclamare la sua vittoria, anche se in modo sempre più stridulo e sempre meno convincente. Eppure tutti sanno che così non si può continuare. Tra gli orrori del comunismo da caserma e il terrore della redditività capitalistica riappare inevitabilmente la nostalgia di una "terza via", ma ora anch'essa in una forma terrificante, cioè come rianimazione di un nazional-socialismo razzista e antisemita, la cui forma politica sarebbe lo "Stato del popolo". Questo mostruoso ritorno, ad onta del peso di tutta l'esperienza storica, indica che l'economia di mercato è davvero finita e che non sa più correggersi con i propri mezzi. I cadaveri ambulanti risorti da un terribile passato non possono venir sconfitti, a differenza dei loro originali vivi di un tempo, con i concetti della razionalità occidentale e tramite un'estensione delle forme occidentali di vita nell'intero contesto dell'economia di mercato. Da parte loro, gli zombie non sono più in grado di erigere uno Stato razziale nazional-economico capace di riproduzione; la loro neo-barbarie sfocia in forme di decomposizione di qualsiasi socialità, caratterizzate da un'economia del saccheggio. Essi segnano piuttosto la fine irreversibile del sistema moderno produttore di merci.
Sarà possibile ricacciare gli spettri nelle loro tombe solo trovando una nuova e inaudita "terza via". Ciò significa semplicemente che i conflitti interni della modernità e i loro portatori polarizzati e dualisti si sono esauriti. Lavoro e capitale, liberalismo e socialismo, "realismo" e fondamentalismo (religioso, nazionale ecc.) non stimolano più delle prese di posizione, visto che la barbarie è diventata la loro identità comune. Può sorgere dalla storia una "terza forza" al di là della modernità, capace di operare l'autosuperamento [Selbstaufhebung] dell'occidente? Può la ragione umana emanciparsi dal feticcio dell'astratto calcolo della redditività e dalla logica dei soggetti ridotti a merce [warenförmige Subjekte], logica che finisce nella follia? Il nocciolo del problema è comunque di natura politico-economica. Le "terze vie" degli spiriti neutrali erano tanto deboli e insufficienti soprattutto perché non comportavano il superamento delle categorie basilari dualistiche di mercato e Stato, ma solo a un'emulsione torbida ed eclettica di queste categorie. La sopravvalutazione - che ha dei motivi storici - dello Stato all'Est e del mercato all'Ovest non è stata dissolta criticamente; si è piuttosto cercata una conciliazione in quella via di mezzo che non è mai il "giusto mezzo", ma la via più sicura verso la palude.
La "terza via" di cui ora c'è bisogno non può più essere una via di mezzo. Dovrà condurre a una società al di là dello Stato e del mercato, cioè ad un superamento del moderno sistema della produzione di merci. Finora, tutti i concetti della modernità, incluso il socialismo, si sono mossi - che l'ammettano o no - nel contesto di una logica di autovalorizzazione del denaro, la quale, in fin dei conti, non può venir corretta sul terreno del denaro. Lo Stato moderno è solo l'universalità astratta dei suo cittadini " guadagna-denaro", e ogni intervento dello Stato nella riproduzione sociale deve dunque essere "finanziabile". In altre parole, lo Stato dipende dai processi di mercato e quindi da quella struttura feticistica di base che detta il flusso di tutte le risorse materiali. Questo sistema oggi si è chiuso senza via di scampo, diventando globalmente incapace di riprodursi. E' dunque necessario sganciare le risorse e la loro produzione e distribuzione dalla logica del denaro. La società moderna, con tutti i suoi potenziali effettivamente grandiosi, si deve "demonetarizzare", pena la rovina - probabilmente a tappe e attraverso un processo tanto lungo quanto difficile e che, quanto più tardi e controvoglia sarà intrapreso, meno avrà possibilità di successo.
Il punto centrale della "demonetarizzazione" può essere solo l'oltrepassamento della logica dell'economia aziendale. Infatti, l'esistenza del denaro moderno non è altro che la messa in rete, astratta e cieca verso il contenuto sensibile, di "aziende" la cui attività non viene organizzata sul piano della loro interdipendenza materiale. Quest'attività porta perciò, con i progressi delle forze produttive e della potenza tecnologica, a devastazioni sociali ed ecologiche. L'astratto "guadagno aziendale" in forma monetaria è diventato controproduttivo e deve essere superato come criterio di successo, poichè esso non può più compensare i costi che derivano dal processo complessivo e dalle sue conseguenze. Per arrivare a un bilancio complessivo che tenga conto di tutte le conseguenze sociali ed ecologiche, occorrono istituzioni nuove che possano disporre una messa in rete non-monetaria. Così cade anche il feticismo del "posto di lavoro", poiché in una società demonetizzata e interconnessa sul piano dei contenuti non si può più far dipendere la riproduzione individuale dal dispendio di forza-lavoro astratta in altrettanto astratti processi di utilizzazione "aziendale" di forze e risorse. Un tale sovvertimento non avrebbe più niente a che fare con la pianificazione statale centralizzata secondo le categorie della società della merce. Esso includerebbe sia elementi di autarchia e di autogoverno comunali, sia l'organizzazione internazionale, al di là del vecchio sistema delle economie nazionali, di flussi di risorse non governati dalla logica della merce.
Un concetto politico-economico nutrito di simili considerazioni implica una ridefinizione fondamentale del rapporto tra economia aziendale, economia nazionale ed economia mondiale. Esso sarebbe molto meno utopico della speranza illusoria e irrazionale in una nuova epoca di prosperità di quel sistema di mercato che sta tramontando in tutte le sue varianti. Il neoliberalismo e il nuovo nazional-socialismo dispongono, nei loro accanimenti complementari, di alcuni concetti politico-economici basilari da cui traggono una certa apparente plausibilità e finta coerenza, benché nei singoli casi il patrimonio concettuale rimanga spesso sullo sfondo. Anche una "terza forza", se dovesse nascere, non potrà rinunciare ad avere un tale concetto basilare. Una neutralità non più passiva, ma attiva, che non voglia lasciarsi sospingere né verso il neoliberalismo con le sue conseguenze devastanti né verso gli esordi di un nazional-socialismo (per quanto circondato di clausole democratiche), deve rappresentare essa stessa un futuro diverso.
Soltanto in questo contesto ideale e concettuale, un "terzo fronte" diventa possibile pur sul terreno politico e culturale, in cui le posizioni conflittuali esistenti appaiono oggi senza via d'uscita e inducono tanto poco a prendere posizione quanto gli antagonismi sul piano delle concezioni fondamentali della società. L'integrazione europea può essere un banco di prova per sapere quanta consapevolezza esiste riguardo a questo problema. La sua realizzazione nell'ufficiale contesto neoliberale provocherà un enorme inasprimento della crisi, poiché l'abbattimento delle frontiere accrescerà inevitabilmente la concentrazione dei capitali e dovrà portare in molti settori (industrie accessorie, banche, assicurazioni e altri servizi) ad una morìa di massa delle imprese più piccole che dispongono di poco capitale. La conseguenza sarà, in tutta l'Europa, una desertificazione di intere regioni che non potranno più venir alimentate con i fondi compensativi della CEE. Ci sarà una ripetizione su un livello più alto, continentale, del processo socio-economico di disintegrazione cui abbiamo assistito nei singoli Stati nazionali.
La paura presagita di simili conseguenze ha avviato una "rinazionalizzazione" che sta già frenando il processo di integrazione europea (vedi i referendum in Danimarca e in Francia), senza tuttavia risolverne i problemi, poiché la concorrenza mondiale soprattutto con il Giappone, con il Sud-Est asiatico e con gli USA continua ad esercitare quella pressione che aveva messo l'integrazione europea all'ordine del giorno. Allo stesso tempo, la rinazionalizzazione porta acqua ai mulini del razzismo e del nuovo nazional-socialismo, che si diffondono come un'epidemia all'ombra del degrado sociale. Le titubanti rassicurazioni delle classi politiche che promettono, senza impegno, ai loro cittadini più "democrazia europea", libertà decisionali per le regioni ecc. ("sussidiarietà"), assomigliano alla generosa emissione di assegni scoperti. Nella sua dimensione europea, il mercato senza briglie se ne infischierà ancor di più delle competenze regionali o locali. Ogni passo dell'integrazione neoliberale susciterà due passi di reazione nazional-socialista. L'Europa può esser salvata solo se anche sulle tematiche dell'integrazione europea e delle frontiere aperte una "terza forza" prenderà la parola. Bisogna che risorse sostanziose vengano sottratte alla logica del denaro. Soltanto in questo modo l'autogoverno regionale nel quadro di un'Europa unita può essere qualcosa di più di un puro miraggio.

III. La necessità di un "terzo fronte" diventa ancor più palese nelle guerre e nelle guerre civili che segnano il nuovo disordine mondiale dopo la fine del vecchio conflitto tra Est e Ovest. In queste guerre non vi è più nessuna parte "buona"; il concetto di "guerra di liberazione" è diventato una lugubre caricatura di se stesso. Il mercato mondiale ha travolto ogni prospettiva di sviluppo nazionale e ha consegnato intere regioni del mondo alla barbarie. Già nella guerra del Golfo era diventato tristemente evidente come in questi nuovi conflitti la presa di posizione diretta - che divise ancora una volta la sinistra in sfacelo - fosse senza via d'uscita. Da un lato, il vecchio anti-imperialismo si è reso completamente ridicolo: neanche con tutta la buona volontà del mondo, si poteva ancora parlare del regime di Saddam nei termini positivi di una "lotta di liberazione". Gli assassini iracheni, armati di gas venefici, apertamente antisemiti e che terrorizzavano la propria popolazione, ponevano inevitabilmente il problema di sanzioni internazionali e di un intervento militare.
I nuovi "bellicisti" dell'(ex-)sinistra, al contrario, davanti a un macellaio quale Saddam Hussein, non soltanto disperavano del "buon" anti-imperialismo, ma accusavano anche il movimento pacifista di complicità oggettiva con un regime assassino, richiamandosi per analogia agli schieramenti della seconda guerra mondiale. La loro conclusione errata, l'incondizionata presa di posizione a favore di un intervento statunitense nel nome dell'ONU, era solo un rovesciamento meccanico della posizione avversa. Questa presa di posizione non veniva affatto motivata con il solo "realismo politico", ma anche con un'ideologia militante (per esempio da Cora Stephan). L'accettazione del principio dell'economia di mercato, e quindi del denaro, doveva essere completata con un giuramento sulla democrazia occidentale, sulla concezione occidentale della politica e in generale sul way of life occidentale. Si è però taciuto il fatto che il motivo dell'intervento occidentale non erano state né le stragi di Kurdi commesse dal regime di Saddam né un precedente attacco alla popolazione civile israeliana, bensì la ricostituzione del ridicolo sceiccato del Kuwait, la cui miseria sociale non ha niente da invidiare a quella del regime irakeno. Si è taciuto ugualmente che Saddam, a differenza di Hitler, non rappresentava una forza autonoma, ma era una creazione autentica della nobile democrazia occidentale, fino ai sistemi d'armi che venivano forniti esattamente da quelle stesse potenze che poi avrebbero condotto l'intervento militare contro la propria creatura mostruosa diventata ribelle, o che l'hanno dovuto finanziare (come nel caso della Germania). Si è taciuto infine che è la logica globale dell'economia di mercato occidentale nel suo imporsi a produrre le crisi nei processi di modernizzazione delle società dell'Est e del Sud in via di dissoluzione.
La presa di posizione dei "bellicisti" aveva assunto così il tono falso e ipocrita dei claqueurs. Il loro attacco al movimento della pace si era trasformato in cieca propaganda bellica, da meri tirapiedi del potere: pericolosamente vicina alle servili dichiarazioni di fedeltà dei pubblicisti nei regimi totalitari incriminati. Il movimento contro la guerra non simpatizzava minimamente con il regime di Saddam, assumendo così almeno formalmente una terza posizione, ma la sua mancanza di contenuto sostanziale lo portava necessariamente a limitarsi alle più aride astrazioni della morale pacifista. In tal modo, esso non poteva giungere a formulare le posizioni di una "terza forza" coerente, e si sarebbe rapidamente dissolto senza alcun effetto.
Questa situazione si è ripetuta in modo ancora più evidente nelle prese di posizione sulla guerra civile jugoslava e sulle sue atrocità, perpetrate notoriamente da tutte le parti in guerra. Rispetto alla guerra del Golfo, nel caso della Jugoslavia è ancora più palese che si deve all'intervento "senza soggetto" del mercato mondiale la rovina dell'economia nazionale jugoslava. La guerra era stata preceduta dal crollo di interi rami dell'industria, da un gigantesco debito estero, dall'iperinflazione, dall'immiserimento sociale e dallo sfacelo delle infrastrutture statali. Il nazionalismo e il separatismo hanno potuto proliferare solo così, in mezzo ad un'economia in rovina e come conseguenza della delusione suscitata dal fallimento della "terza via" titoista. Il richiamo alle ideologie dell'odio desunte dal passato non era qualcosa che gli uomini avevano "nel sangue", ma era mediato dalla catastrofe del processo di modernizzazione. In tutta l'Europa dell'Est avanzeranno il nazionalismo etnico e la guerra civile nella misura in cui gli uomini sentiranno che l'economia di mercato occidentale non li potrà mai integrare.
L'Occidente non può mettere a fuoco questi nessi; li deve rimuovere, poiché conducono direttamente al nucleo tabuizzato della forma occidentale di socializzazione; è stata questa ad aver abbracciato il mondo intero e ad averlo messo a soqquadro. La forma occidentale di organizzazione sociale - la moderna economia della merce e la democrazia - dovendo essere la soluzione e la meta, non può venir riconosciuta come la vera origine dei problemi. Di fronte alla guerra jugoslava non esiste già più alcun movimento pacifista occidentale che possa rappresentare almeno l'abbozzo di una "terza forza". Prendere posizione è diventato certamente ancora più arduo che nella guerra del Golfo. Se qualche sbandato della sinistra può essere indotto da vaghe reminiscenze di un'epoca tramontata a provare addirittura simpatia per il nazional-socialismo di un Milosevic, allora in questa posizione si esprimono soltanto confusione e impotenza. Motivare questa posizione "proserba" con un'opposizione alla presunta ripetizione di un "imperialismo tedesco" nell'ex-Jugoslavia fa parte di una battaglia di spettri, combattuta all'osteria o nelle riviste dei veterani da nostalgici, reduci e altri mutilati ideologici delle guerre del passato. Questa posizione non solo è senza rilevanza sociale, ma viene anche smentita dal reale corso della guerra.
La stragrande maggioranza dell'(ex-)sinistra si affretta tuttavia a riproporre la posizione dei "bellicisti" nella guerra del Golfo e a orientarsi sulla posizione antiserba dell'Occidente, benché questa, a causa di diversi interessi e legami storici, non sia così univoca come quella assunta contro l'Irak nella guerra del Golfo. La Serbia viene comunque bollata dall'Occidente come aggressore, esistono sanzioni economiche contro il regime di Milosevic, e i mini-Stati nati dal separatismo sono stati riconosciuti in fretta, sebbene fosse chiaro che ciò significava gettare olio sul fuoco. Le atrocità dei serbi vengono sistematicamente esagerate e quelle dei croati e dei musulmani minimizzate. Alcuni esponenti dell'(ex-) sinistra diventati fanatici filo-occidentali chiudono addirittura gli occhi davanti al fatto che in Croazia il vecchio fascismo degli Ustascia può ricostituirsi senza intralci e che mercenari dell'estrema destra di tutta l'Europa infuriano nelle bande di assassini croate. L'obiettivo di uno Stato etnico viene acclamato in tutta serietà in quanto "democratica volontà del popolo" non soltanto nell'ex-Jugoslavia, ma in tutta l'Europa orientale. Lo Stato etnico viene considerato come una possibile cornice per la "democratizzazione", mentre in realtà può essere solo la cornice per dei pogrom. Il disfacimento della vecchia Jugoslavia ad opera della logica occidentale del mercato mondiale è altrettanto poco un tema di dibattito quanto lo è il fatto, facilmente riconoscibile, che neanche uno dei nuovi stati "etnici" sarà a lungo andare capace di riproduzione economica e che essi potranno "vivere" soltanto nella infinita continuazione senza prospettive della spirale della violenza.
Come nella guerra del Golfo, l'impossibilità di poter prendere ragionevolmente posizione rimanda all'impellente necessità di una "terza forza". Il punto sociale di partenza può anche essere il rifiuto astratto e morale delle due parti in conflitto e dei loro obiettivi, come l'aveva dimostrato il movimento della pace durante la guerra del Golfo. In questa morale astratta, che riconosce il carattere illegittimo e barbarico delle due parti, e che perciò si rifiuta di parteggiare per una delle posizioni che scaturiscono dalla decomposizione della modernità, potrebbe trovarsi il germe di una critica emancipatoria di tutto il sistema sociale e quindi della forma occidentale in quanto tale. Certo, questo germe rischia di seccarsi finché rimane fermo in una posizione di negazione di atti barbarici senza altre implicazioni politico-sociali ("violazioni dei diritti umani"). Merita apprezzamento, tanto da poter essere un punto di avvio, l'incorruttibilità e la neutralità attiva con cui un'organizzazione come, per esempio, Amnesty International indaga sulla tortura, sulla persecuzione e sui metodi terroristici, quale che sia lo stato dove avvengano, intervenendo in casi concreti trasversalmente rispetto ai fronti ideologici e politici. Ma un'organizzazione borghese di soccorsi che si limita agli aspetti puramente "umanitari", lasciando i problemi della riproduzione sociale al di fuori delle sue considerazioni e dei suoi sforzi, non può pervenire, naturalmente, alle cause della barbarie crescente.
La "terza forza" deve uscire dall'ambito esclusivamente etico-morale e umanitario per giungere a un'autonoma concezione politico-sociale al di là dei fronti immanenti. Una nuova concezione della trasformazione sociale, se vuole andare oltre le categorie della modernità produttrice di merci e dei suoi sistemi, non potrà limitarsi a essere una posizione astrattamente programmatica che si pone al lato della cattiva realtà per ragionarci sopra. Essa dovrà sviluppare le proprie capacità real-politiche di intervento, anche tramite il riferimento critico a organizzazioni internazionali come l'ONU o la CEE. Rispetto a quest'argomento, la sinistra si è sempre tenuta a distanza di sicurezza, limitandosi a denunciare le istituzioni sopranazionali in quanto strumenti dell'imperialismo. Essa ha rinunciato a sviluppare una "politica" propria in questo contesto, il che, tuttavia, non sarebbe stato meno "rivoluzionario" che, per esempio, indirizzare delle rivendicazioni al proprio Stato capitalista (cosa che, si badi bene, non significa accettarlo nel suo esser-così). La sinistra non dimostra in tal modo la sua morale rivoluzionaria, ma solo che il suo orizzonte si limita all'economia nazionale e allo Stato nazionale, così come il socialismo del movimento operaio, in tutte le sue varianti, è stato sempre essenzialmente un nazional-socialismo di sinistra.
Al contrario, gli esponenti pentiti dell'ex-sinistra, i "realisti" e i fanatici dell'Occidente, si riferiscono in senso pratico-politico alle istituzioni sopranazionali e alle loro attività, e non più attraverso una denuncia puramente astratta. Questo riferimento rimane largamente affermativo, poiché dietro vi sta la capitolazione incondizionata di fronte al mercato, e costringe a "seguire il branco" nella logica degli interessi capitalistici. Una "terza forza" dovrebbe sviluppare le proprie posizioni, rivendicazioni, strategie e tattiche nel contesto di una politica interna mondiale. La vecchia forma di neutralità intesa come non-ingerenza nei cosiddetti affari interni si rivela assurda di fronte alla reale internazionalizzazione dei processi sociali vitali, finendo col proteggere solo la barbarie all'interno degli stati. Non a caso questa formula viene difesa soprattutto da regimi mostruosi come quello in Irak o da dinosauri come la repubblica popolare cinese. Ciò che conta sono piuttosto il modo dell'ingerenza stessa, i suoi obiettivi, concezioni e procedimenti. Se una "terza forza" svelasse i nessi tabuizzati, rimossi o mascherati, se sviluppasse in tutti i conflitti posizioni proprie e vi portasse una propria concezione sociale, economica e politica, essa potrebbe diventare un movimento mondiale al di là dei fronti della modernità.
La formazione di una simile "terza forza" è anche l'unica speranza o prospettiva per coloro che vivono nelle regioni dove il crollo dell'economia ha portato a conflitti barbarici. In Medio Oriente, in Jugoslavia e in altre aree di crisi è da tempo necessario un "terzo fronte" che rifiuti i nazionalismi imbarbariti e le parti in guerra prive di prospettiva, che indaghi le cause sociali e storiche e i meccanismi del mercato mondiale e che proponga propri programmi di emergenza. Soltanto il collegamento tra una "terza forza" in Occidente e nelle società in crisi dell'Est e del Sud potrebbe costituire un nuovo internazionalismo che possa succedere all'astratto internazionalismo della vecchia sinistra modernizzatrice e che non poggi più sulla reciproca affermazione degli elementi di un sistema basato sull'economia nazionale e sulla produzione di merci. Questo internazionalismo sarà concreto e "non-ideologico", si presenterà cioè come legame diretto, come scambio e aiuto vicendevole di persone (di determinate regioni, città e quartieri), e non più come mediazione astratta operata dalle istituzioni della società della merce (partiti, direzioni statali, burocrazie ecc.). La necessaria immediatezza dell'agire (come gli aiuti per i profughi e le vittime della guerra) non può essere opposta all'elaborazione di una concezione socio-politica.

IV. La paralisi che contrassegna la fine della modernizzazione si riproduce anche nelle espressioni della cultura politica e sociale. La repressione rozza, i comportamenti autoritari ("maschilisti"), le strutture gerarchiche e il burocratismo statalista sono stati presenti in tutto il mondo durante l'ascesa e l'affermazione del sistema produttore di merci. Queste forme crude e coercitive di cultura caratterizzavano essenzialmente anche il movimento operaio occidentale (visibilmente ancora oggi nelle strutture dei sindacati e della socialdemocrazia) e i socialismi di Stato dell'Est. Ambedue hanno rivelato la loro appartenenza alla storia della modernizzazione borghese.
All'autoritarismo e alla burocrazia si opponeva l'ideologia liberale della libertà dell'individuo, diretta sia contro il conservatorismo autoritario di destra che contro il socialismo autoritario di sinistra. Questa ideologia liberale non possedeva però niente di "femminile" (nel senso delle qualità ascritte storicamente e socialmente alla donna, ma che non sono deducibili biologicamente), niente di solidale, di sensuale e di umanamente ricco da poter essere contrapposto allo statalismo maschilista, gerarchico e autoritario. Al contrario, il liberalismo rappresenta, per così dire, l'"in sé" dell'individuo totale astratto (che, ugualmente, nel suo nucleo è "maschile"), la logica della soggettività propria della forma-merce, posta in contrasto con i diversi stadi autoritari e le diverse forme storiche attraverso cui quella stessa logica si era imposta. Le parti in causa non erano in grado di riconoscersi reciprocamente come forme di espressione e sviluppo di una identica sostanza che li accomuna.
All'epilogo della modernità produttrice di merci emerge il nucleo del processo storico: la monade astrattamente libera "vince", nella misura in cui questo è possibile, con le "ondate di individualizzazione" che hanno investito l'occidente dopo la guerra e soprattutto negli anni settanta e ottanta. Perfino i neoliberali fanatici del mercato non hanno più niente di autoritario o di paternalistico. I Chicago-boys della scuola di Milton Friedman sono in gran parte dei democratici illuminati, che in nome della libertà di mercato si impegnano anche per la libertà di parola, di stampa e di espressione e contro le violazioni dei diritti umani commesse dalle dittature. La libertà e la democrazia dei soggetti della merce celebrano infine il loro trionfo mondiale - tanto più dopo il tramonto del socialismo autoritario di Stato - senza accorgersi che si tratta al tempo stesso del proprio corteo funebre. Infatti, la relativa eclissi di fenomeni quali socialismo di Stato, dittature militari di destra, guerriglie di sinistra, regimi nazionalisti dei paesi in via di sviluppo non è stato che un breve momento storico prima della caduta nella barbarie che in molte regioni del mondo è già cominciata. La Waterloo del neoliberalismo non è solo economica, ma anche culturale.
Lungi dal creare il benessere generale e una convivenza appagante libera da coercizioni autoritarie, il mercato scatenato al suo più alto grado di sviluppo distrugge gli ultimi resti di socialità umana. Gli individui astratti cominciano a inselvatichirsi moralmente, anche quelli che ancora non sono stati espulsi come "inutili" dall'economia del denaro. L'emancipazione, per quanto limitata, della donna negli spazi del mercato e dello Stato, finora dominati dal maschio, dissolve il "presupposto segreto" della società della merce, cioè l'assegnazione alla donna dei compiti non sottoposti alla forma-merce. L'emancipazione della donna nella forma-merce cancella dal mondo gli ultimi spazi riservati all'affetto. Con questo viene in luce il fatto che la capacità di riprodursi della società della merce non può prescindere da un'esistenza riduttiva della donna, caratterizzata da specifiche coercizioni tradizionali. Alle donne spettava sempre la cura di quei lati della vita estranei al mercato: dal lavoro domestico fino all'"amore". La monade universale e totale dell'autovalorizzazione non è vivibile. La sessualità e l'erotismo non vengono liberati, ma trasformati definitivamente in merci o in surrogati psichici delle merci. I bambini messi in un tale mondo diventano in massa degli esseri mostruosi, psichicamente degradati e imprevedibili.
Il rapporto tradizionale tra i sessi e la cultura ad esso legata non possono venir superati sul terreno del mercato. La nuova sinistra rientrata nei ranghi del mercato e della democrazia occidentale ha illusoriamente ritenuto che la sua rivolta del 1968 fosse pervenuta a un esito felice nell'ambito delle istituzioni occidentali, migliorandole in senso democratico, antiautoritario e femminista. Il tentativo del 1968, che non si è spinto abbastanza lontano ed è presto ricaduto nella società della merce, ha contribuito ad accelerare lo scatenamento e la crisi della soggettività legata alla forma-merce, fino ai limiti della barbarie secondaria che oggi sta sorgendo. Per questo l'(ex-)sinistra, così come il neoliberalismo autentico, si trovano disarmati di fronte allo shock culturale generato dal contraccolpo razzista, antisemita e neo-nazionalsocialista. Gli spazi della critica (anche culturale) rivolta al vuoto dell'esistenza spaesata nella libertà di mercato, largamente abbandonati dalla sinistra, vengono ora occupati dall'estrema destra. I vecchi ruoli dei sessi e le ossessioni autoritarie rifioriscono come reazione al fatto che la monade dell'autovalorizzazione non rappresenta un'esistenza sostenibile. Ciò che si sta profilando non è però un semplice roll back. L'autoritarismo e il nazionalismo "maschilisti" e violenti ritornano essi stessi in forma inselvatichita. I nuovi assassini non sanno più camminare al passo.
Ciò non costituisce certo una consolazione. La società della merce in via di decomposizione non può più venir costretta nella gabbia stretta di uno Stato dittatoriale organico; ma nei suoi pori proliferano la violenza razzista, il terrore di strada, la rabbia sessuale, l'isteria antifemminista e un irridente disprezzo degli uomini. Non è affatto soltanto la vendetta disperata e inconsapevole delle masse di emarginati sociali a esprimersi in queste forme. In ciò si mostra piuttosto l'abbrutimento culturale dei soggetti della merce. Non esiste una cultura propria del capitalismo, poiché le astrazioni reali di merce e denaro sono di per sé totalmente prive di contenuto. L'apparenza della cultura poteva venir mantenuta nella fase ascendente della società della merce soltanto tramite la tensione tra il sistema del mercato e le culture del quotidiano le quali esistono prima e al di là della forma-merce. L'ultimo stadio, il pieno dispiegamento, dei soggetti della merce si lascia alle spalle qualsiasi forma di cultura poiché non possiede più nessun criterio o sensibilità riguardo ai contenuti o alle qualità.
Anche sul piano culturale, la "terza forza" diviene una questione di sopravvivenza, poiché si è esaurito il conflitto tra l'autoritarismo e il liberalismo sul terreno della società moderna della merce. La lotta dei sessi non può venir risolta se non nascono nuove forme di convivenza e di cultura del quotidiano che si contrappongano alle pretese inumane e disumanizzanti della logica della merce. Sono ancora attuali le rivendicazioni di un altro modo di vivere e di lavorare, le idee del movimento degli alternativi, la critica dei bisogni e del consumismo, le nuove forme dell'abitare e dell'educare che sono state opposte negli anni settanta e nei primi anni ottanta al capitalismo e al socialismo di stato. Questi tentativi miravano a una semplice riforma della vita e avevano allora spesso qualcosa di limitato e perfino di ridicolo, ma in verità non si esauriscono in questo. Il loro fallimento al "primo tentativo" non li ha confutati definitivamente, ha posto piuttosto l'esigenza di un più alto livello di riflessione. I nuovi movimenti sociali, il movimento per la pace, i verdi e parte del femminismo si sono lasciati convincere troppo rapidamente, forse per stanchezza ideale e politica, della "vittoria" della società occidentale della merce o l'hanno accettata con rassegnazione; il loro sviluppo ancora non è terminato perché lo stato delle cose non lo permette.
Non si può più attribuire, a nessun livello, una funzione emancipatoria ai conflitti immanenti della modernità produttrice di merci. La conclusione non può essere quella di una neutralità che si arrabatta tra i diversi fronti della barbarie, e nemmeno un fiacco concetto di "non-ingerenza" o di aiuti d'emergenza umanitari, ma la liberazione dell'agire e del pensiero dai falsi aut-aut imposti da una forma di socializzazione ormai insostenibile. Tertium datur.

1) Ludwig Erhard, considerato l'artefice del "miracolo economico" tedesco degli anni '50 [n. d. t.]